APPROFONDIMENTI
Ferdinando Sanfelice di Monteforte
Quando Gioacchino Murat
divenne Re di Napoli, il 15 luglio 1808, la situazione della Marina, dopo quasi
due anni dalla conquista del Regno da parte delle forze francesi, non era delle
migliori. La flotta napoletana aveva infatti quasi tutta seguito re Ferdinando
IV a Palermo, e collaborava attivamente con la divisione britannica, per
soffocare Napoli, impedendo tutti i commerci marittimi con i porti del
meridione. Il Regno, quindi, era privo di difesa sul mare, al di là delle
fortificazioni costiere.
Già poco dopo l’avvento
di re Giuseppe, il 17 aprile 1806, era fallito il primo tentativo francese di
dare almeno dei mezzi minori alla nuova Marina: una flottiglia di 10 unità
leggere, riunite a Civitavecchia, ebbe, infatti, da Napoleone l’ordine di
passare a Napoli, e di battere bandiera napoletana, ma si scontrò con la
fregata Sirius davanti a Fiumicino,
perdendo la corvetta Bergère,
catturata, e rifugiandosi nel Tevere, con gravi danni, tanto che solo due
brick, Endymion e Abeille arrivarono a destinazione.
La base di operazioni,
dalla quale gli Anglo-Borbonici interdivano tutti i movimenti navali
bonapartisti, era la Sicilia, tenuta dalle truppe fedeli a Ferdinando,
rinforzate da un contingente inglese che arrivò a contare fino a 17.000
effettivi, nei momenti di maggior pericolo per l’isola[1].
Napoleone, naturalmente, era ben consapevole del pericolo che questa isola gli
creava, per i suoi progetti mediterranei.
Già nel 1806, infatti,
durante i negoziati di pace che non approdarono a nulla, Bonaparte aveva
offerto agli Inglesi prima Hannover, poi aveva proposto di dare la Dalmazia a
re Ferdinando, sempre come merce di scambio per la Sicilia, pur di togliersi
questa spina dal fianco.
Ma il governo britannico
aveva ben chiaro che, a riguardo dell’isola, “la sua cessione avrebbe
comportato il ritorno di tutte le paure circa le ambizioni mediterranee della
Francia, nonché problemi connessi al rifornimento di Malta”[2].
Bisogna riconoscere che la valutazione inglese era saggia, tanto che essa
avrebbe trovato una puntuale conferma della sua correttezza un secolo e mezzo
dopo, nel corso della seconda guerra mondiale.
Come abbiamo visto, gli
Anglo-Borbonici erano basati a Palermo, ma, per proiettare forza in modo
efficace, avevano stabilito presenze avanzate sulle isole del Tirreno
meridionale, stabilendo ancoraggi protetti, anzitutto alle Eolie, e quindi a
Capri, Ponza e Ventotene, con queste due ultime isole affidate a contingenti
borbonici.
Da lì, le loro navi,
leggere e veloci, infiltravano forze e armi sulla terraferma, in appoggio alle
rivolte lealiste, ma soprattutto conducevano la guerra di corsa, assalendo
anche il traffico costiero di cabotaggio, vitale per trasferire merci e forze
da un punto all’altro dello stivale, visto che le strade, in quel periodo,
erano decisamente malagevoli.
In più, le navi
anglo-borboniche controllavano i mari intorno allo stivale, catturando i nemici
isolati che capitavano a tiro. Fu così che vennero catturati la cannoniera Le Requin, nella rada di Paxos, e la
goletta Psyché, quest’ultima al
comando del tenente di vascello Daboville.
Ne avevano anche fatto
le spese gli stessi Bausan e Correale, che avevano invano tentato, con le loro
cannoniere, di raggiungere Gaeta, assediata dal generale Massena, per
appoggiare l’assedio dal mare. Il primo fu attaccato, il 4 luglio 1806, al Lido
di Castellone, e fece spiaggiare i suoi mezzi, per difenderli, mentre il
Correale dovette “ancorarsi nel Garigliano, dove fu attaccato a tiro di pistola
da 14 unità borboniche”[3].
Fatto ancor più grave, i
nemici controllavano di fatto ogni uscita dal golfo di Napoli, grazie al
possesso di Capri. Bisogna ricordare, infatti, che all’epoca delle vele quadre,
si entrava a Napoli da ponente, non appena si levava la brezza di mare, così
frequente e piacevole d’estate, mentre, per uscire dal golfo, si poteva
accedere al Mediterraneo solo attraverso il passaggio di Punta Campanella,
facilissimo da bloccare con un paio di cannoni piazzati sopra le rovine della reggia di Tiberio.
Sugli ingressi da
ponente al golfo di Napoli, invece, la distanza delle isole pontine dal Canale
di Procida consentiva un controllo solo sulle navi d’altura, che passavano loro
vicino, mentre almeno le piccole unità, randeggiando la costa, riuscivano a
tenere qualche collegamento con Gaeta e, più a nord, col Regno d’Italia.
Era quindi un blocco
marittimo in piena regola, che impediva il grande commercio internazionale, ma
in molti casi incideva anche sul cabotaggio, che consentiva quegli spostamenti
ed il sostegno alle forze di terra, di cui Murat necessitava, nelle varie zone
del Regno, per sopprimere le rivolte lealiste.
Infatti, solo “la
sconfitta dell’insurrezione borbonica in Cilento, Basilicata e Calabria
consentì di collegare la costa tirrenica – e poi anche quelle ionica e
adriatica – del Regno al sistema di difesa costiera e di protezione del
cabotaggio dell’impero francese, con una linea di stazioni telegrafiche e di
140 batterie servite da 1200 artiglieri litorali, integrata da 50 cannoniere
ripartite in divisioni di 6 unità[4].
Il sistema era, come si
vede, analogo a quanto Napoleone aveva organizzato lungo le coste europee del
suo impero, per limitare l’impatto del blocco navale inglese. Non era, in
effetti, un sistema risolutivo, visto che le quantità di materiali, ed i numeri
di soldati, trasportati da ogni convoglio, era ridotto: i barconi, simili ai
gozzi che oggi ci consentono i bagni di mare in acque pulite, portavano poche
tonnellate ognuno.
Ciò nonostante, il
cabotaggio consentiva, bene o male, un minimo di movimenti, anche se gli
attacchi degli Anglo-Borbonici, fin sotto costa, erano frequenti. Fra questi,
fecero scalpore il vittorioso combattimento, sostento dal tenente di vascello
Giovanni Caracciolo, il 14 marzo 1809, davanti a Terracina, nel quale egli
salvò il convoglio da lui scortato, quindi la cattura, nel cantiere a Barletta,
della goletta Pugliese, quando la sua
costruzione era praticamente completata, nel febbraio 1810, ed infine i due
scontri del 12 e 16 aprile 1812, il primo nelle acque di Salerno ed il secondo
sotto alla batteria di Cirella, conclusi il primo con la perdita del convoglio,
ed il secondo, invece, con la cattura di tre legni nemici.
Il blocco al golfo di
Napoli, però, era asfissiante, tanto che Murat decise, come prima mossa, la
riconquista di Capri, di cui vi parlerà, fra breve, l’Ammiraglio Cesaretti. A
questo successo, gli Anglo-Borbonici risposero, inviando la flotta inglese
davanti a Ischia e Procida, il 24 giugno 1809, al comando dell’Ammiraglio
Martin, flotta cui erano aggregate “le fregate borboniche Minerva e Sirena, il
pacchetto Tartaro e 14 cannoniere,
agli ordini del capitano di vascello Vicuña”[5].
Le guarnigioni, troppo deboli per resistere, si chiusero nei forti, e le isole
caddero.
A questo punto, Murat
decise, tardivamente, di soccorrere le isole, e inviò alla riscossa l’unica sua
fregata, la Cerere, comandata da
Giovanni Bausan, insieme alla corvetta Fama,
comandata dal Sozi Carafa. Le due navi dovevano essere appoggiate da 8 cannoniere
di Pozzuoli, ed anche da quelle, ben 30, del Caracciolo, che furono fatte
arrivare da Gaeta, dove erano di base.
L’Ammiraglio Martin, da
parte sua, mantenendosi al largo con i vascelli, per non rischiarli in acque
ristrette, aveva inviato, per bloccare il Canale di Procida, una forza uguale a
quella napoletana, composta dalla fregata Cyane,
dal brigantino Espoir e da 12
cannoniere.
Ne seguirono tre giorni
di combattimenti, il primo il 25 giugno, fra le fregate, che costrinse la Cerere a rientrare a Pozzuoli, per
riparare i danni subiti, in realtà non gravissimi. Purtroppo, questo scontro,
svoltosi un giorno prima che il Caracciolo potesse arrivare da Gaeta, mise i
nemici in condizione di affrontare quest’ultimo da solo, il 26, quando, su
ordine di Murat, questi tentò di forzare il passaggio, con l’unico appoggio
della batteria di Miliscola.
“Il Caracciolo si batté
per tre ore: un brick nemico fu bruciato, una cannoniera inglese fu anche
colata a picco, mentre i napoletani (bonapartisti) perdettero alcune cannoniere
ed altre finirono sulla spiaggia”[6].
Decisivo, per gli Anglo-Borbonici, fu l’intervento della fregata Cyane, che fece strage delle piccole
navi avversarie. In buona sostanza, come dice uno storico recente, per colpa
“del dissennato ordine di Murat, (si) persero 23 cannonere su 31”[7].
Il giorno successivo si
ebbe infine il famoso scontro fra la Cerere
e la Cyane, nel quale il Bausan si
batté con onore, tanto da meritare la viva riconoscenza del Re. Ma, in
definitiva, tutti questi eroismi furono inutili, avendo Murat dimenticato di
concentrare le sue forze navali, impiegandole invece alla spicciolata.
Ora l’ingresso al golfo
era veramente bloccato, e il vantaggio conseguito con la presa di Capri era
stato in parte controbilanciato, con l’effetto che gli Anglo-Borbonici furono
sempre più presenti, con le loro navi di altura, nel golfo.
Per rivalersi, Murat
progettò, sempre nel 1809, la riconquista delle isole pontine, in modo da
ridurre la minaccia contro le comunicazioni marittime con il nord.
La spedizione venne
anullata, ma “la notizia dell’allestimento fu sufficiente ad indurre il
principino di Canosa ad evacuare l’unica base borbonica. L’occupazione
dell’arcipelago pontino non attenuò peraltro le incursioni inglesi, né la
piccola forza navale napoletana, sempre confinata nel golfo di Napoli, era in
grado di difenderlo”[8].
Ponza, infatti, fu riconquistata senza sforzo nel 1813 dagli Inglesi, questa
volta in via definitiva.
Murat, peraltro, si rese
conto di non potersi limitare alla difesa delle coste, con al massimo qualche
colpo di mano, per riprendersi le isole minori, azioni, peraltro, non decisive
per allentare la morsa che lo soffocava. Era infatti necessario fare qualcosa
di più.
Due furono, quindi, i
provvedimenti che egli prese: il primo fu la decisione di ricostruire una
piccola flotta d’altura, ed il secondo fu il tentativo di sbarcare il Sicilia,
in modo da recidere la minaccia alla sorgente. Nessuno dei due era facile da
conseguire, ed infatti Murat incontrò enormi difficoltà in ambedue i casi, come
vedremo fra breve.
Cominciamo dal problema
della flotta. Al suo arrivo, re Gioacchino aveva trovato, nel porto di Napoli,
due fregate, la già citata Cerere e
l’Aretusa, oltre alla corvetta Fama, al brigantino Sparviero ed alla goletta Gioia,
tutte in disarmo.
La carenza di equipaggi
permise di armarne solo tre, e precisamente la Cerere, la Fama e lo Sparviero, che furono impiegate,
prevalentemente, per la difesa del golfo di Napoli. Solo una volta, il 3 maggio
1810, le tre navi furono inviate a Gaeta, per scortare un convoglio diretto da
quel porto verso Napoli, ma furono intercettate da una forza avversaria,
condotta dalla fregata Spartan, e
dovettero ripiegare, con la perdita dello Sparviero,
catturato dopo un’epica resistenza.
Bisognava quindi costruire
altre navi, e per questo vi erano le conoscenze ed i mezzi necessari, visto che
il cantiere di Castellammare e l’arsenale di Napoli costruivano navi da guerra,
di ottima qualità, da molti anni. Anche se, al momento di partire per la
Sicilia, la regina Maria Carolina aveva ordinato che i due stabilimenti fossero
dati alle fiamme, in realtà erano state bruciate solo le riserve di legname, il
che avrebbe ritardato i programmi di costruzione, ma non li rendeva
impossibili.
Vi era, inoltre, sugli
scali un vascello da 74 cannoni, quasi completato, che fu ribattezzato Capri e varato il 21 agosto 1810.
Purtroppo, un nemico imprevedibile era in agguato, per Murat. Napoleone,
infatti, aveva incoraggiato il cognato nei suoi sforzi di costruzione navale,
non per aumentare la consistenza della flotta napoletana, bensì per ricostruire
quella francese. Egli, infatti, aveva imposto a Murat, con il trattato di
Bayonne, di “fornire alla Marina imperiale 6 vascelli, 6 fregate e 6 corvette o
brick, lo stesso numero delle unità pianificate da Acton e costruite a Napoli e
Castellammare nel 1786-96”[9].
Ovviamente, questo ritmo
di costruzioni non era materialmente realizzabile, a prescindere dalle esigenze
della Marina napoletana, ma ogni volta in cui una nuova nave veniva completata
nel Regno, Napoleone scriveva lettere di fuoco, pretendendo che questa fosse
inviata a Tolone.
Questo accadde prima per
il varo della fregata Carolina, il 16
giugno 1811, quindi per il completamento del vascello Gioacchino, sempre da 74 cannoni, il 1 agosto 1812, ed infine,
pochi mesi dopo, quando la fregata Letizia,
“il 25 dicembre 1812 venne lanciata in mare, nell’arsenale di Napoli”[10].
A queste navi di linea
si aggiunsero, nel febbraio 1810, quattro golette statunitesi, confiscate ai
loro armatori, per aver cercato di violare il blocco continentale. Solide e
semplici da manovrare con un equipaggio ridotto, le quattro navi, poi integrate
da altre due di costruzione locale, resero ottimi servigi, compiendo numerose
scorte convogli, oltre ad integrarsi nei gruppi navali, vuoi quelli delle
cannoniere, vuoi i gruppi di navi di linea, nel corso delle operazioni. Furono,
quindi, i classici animali da soma che non tradirono mai le aspettative.
Per quanto concerne le
navi maggiori, malgrado le pressioni del cognato, Murat resistette, concedendo
al massimo l’invio di alcuni equipaggi napoletani, per armare le navi di
Tolone. Una flotta gli serviva, anche se egli poi disse al colonnello
Darlymple, il 27 marzo 1815, “che era stato Napoleone a forzarlo di dotarsi di
una flotta d’alto bordo, di cui non sentiva alcun bisogno e di cui era pronto a
disfarsi”[11].
Più difficile fu,
invece, la formazione degli equipaggi, che non raggiunsero mai il livello di
organico desiderato, anche a causa delle esigenze concorrenti dell’Esercito e
delle forze di sorveglianza costiera. La piccola flotta di Murat, comunque, lo
seguì in Adriatico, appoggiandolo dal mare, per la irrealizzabile epopea
finale, con cui Gioacchino sognava di conquistare l’Italia, unificandola sotto
il suo scettro.
L’altro grande progetto
di Murat era la conquista della Sicilia, impresa che era stata ideata nel
passato dallo stesso Napoleone, il quale pensò ad un attacco con piccole
imbarcazioni, sullo stile della flottiglia che lui aveva voluto a Boulogne, per
invadere l’Inghilterra.
Mentre l’Imperatore
aveva fatto poi cadere l’idea, avendo visto le sue difficoltà, Gioacchino volle
metterla in pratica, radunando, attorno a Reggio Calabria, un esercito di
16.000 soldati. Per il trasporto, furono previste 300 imbarcazioni, racimolate
in tutti i porti del Regno.
La scorta ed il
bombardamento delle posizioni nemiche era affidata, come al solito, alle
eroiche cannoniere, che furono concentrate, per l’occasione, nello Stretto di
Messina, dove si distinsero in accaniti combattimenti con le analoghe
imbarcazioni borboniche, altrettanto decise a prevalere.
Sta di fatto che, di
mezzo, c’era anche la flotta britannica, rinforzata dalle fregate borboniche,
che impedì ai murattiani di conquistare il controllo dello Stretto. Di conseguenza,
“sbarcati 2.500 uomini per poche ore il 18 settembre (1810) e perduti 200
bastimenti, 2.000 marinai e 800 soldati piantati in asso a Messina, Murat
ripiegò le bandiere e tornò a Napoli, convinto di essere stato deliberatamente
sacrificato dall’invidia del maligno dio-cognato, e nondimeno di aver
dimostrato al mondo e ai posteri di aver tenuto in scacco la flotta inglese con
i suoi gusci di noce e di poter sbarcare in Sicilia quando voleva”[12].
Per concludere, si può
dire che Murat si trovò a regnare in una situazione militarmente insostenibile,
avendo di fronte un nemico a lui decisamente superiore sul mare, ma che fece
tutto quanto un buon governante avrebbe intrapreso in una simile situazione.
Anche se egli commise errori, come nel tentativo di riconquistare Procida, e
talora si lanciò in imprese al di sopra delle sue possibilità, in termini di
mezzi e uomini, nell’insieme i suoi sforzi per acquisire uno strumento militare
bilanciato, nelle sue dimensioni terrestre e marittima, sono un esempio valido
anche per chi, oggi, ricopre le difficili funzioni di governo.
[1] C. D. HALL. British Strategy in the Napoleonic War. Manchester
Univ. Press1992. pg.9.
[2] Ibid. pg. 132.
[3] V. ILARI, P. CROCIANI, G. BOERI. Storia Militare
del Regno Murattiano (1806-1815). Ed. Widerholt
Frères, 2007.
pg.344
[4] Ibid. Pg. 249.
[5] L. RADOGNA. Storia della Marina Militare delle
Due Sicilie. Mursia, 1978. pg. 64.
[6] S. ROMITI. Le marine Militari Italiane nel
Risorgimento. Italgraf, Roma, 1950. pg. 87.
[7] V. ILARI etc. Op. cit. pg. 346.
[8] Ibid. pg.250
[9] Ibid. pg. 335.
[10] L.RADOGNA. Op. cit. pg.70.
[11] V. ILARI etc. Op. cit.
pg. 245.
[12] Ibid. pg. 248.
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