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lunedì 7 dicembre 2015

Implicazioni Strategiche della presenza delle aziende cinesi all'estero. II. Implicazioni soft power delle aziende cinesi "Going Global"

di Heino Klinck
II Parte. Implicazioni soft power delle aziende cinesi "Going Global"



Soft power è oggi un termine che analisti, diplomatici, accademici e politici utilizzano ampiamente nelle relazioni internazionali. Esso è definito come la capacità di ottenere ciò che si vuole attraverso la cooptazione e l’attrazione. L'idea di attrazione come forma di potere e influenza risale all’antico filosofo cinese Laozi del 7° secolo a.C.. Eppure, l'attuale termine soft power ha raggiunto una fama decisamente maggiore quando è stato coniato dal professor Joseph Nye di Harvard, in un libro del 1990 intitolato “Bound to Lead: The Changing Nature of American Power”.  Nye ha poi ulteriormente sviluppato  il concetto nel suo successivo libro del 2004, “Soft Power: the means to success in world politics”. I principali mezzi del soft power comprendono i valori di un attore, la cultura, le politiche e le istituzioni, o almeno il modo in cui esse sono interpretate in altri paesi. Inoltre, come ha scritto Nye, la misura in cui queste valute primarie sono in grado di attrarre o respingere gli altri attori del vuoi ciò che vuoi, è l'aspetto critico del soft power. Secondo Nye, “il soft power si fonda sulla capacità di plasmare le preferenze degli altri ... è la capacità di ottenere ciò che vuoi per attrazione piuttosto che con la coercizione o il pagamento ...”[1] 
Il Soft power è spesso associato all’ascesa della globalizzazione e alla teoria neoliberista delle relazioni internazionali.  Il successo del soft power si basa sulla reputazione dell'attore  all'interno della comunità internazionale e sul flusso di informazioni tra i vari attori.   La cultura popolare e i media sono regolarmente identificati come fonti di soft power, al pari della diffusione di una lingua nazionale o di una particolare serie di strutture normative. Un paese dotato di  grande soft power indurrà un atteggiamento positivo all'estero che, a sua volta, potrà spingere gli altri ad emularne la politica, facendo venir meno, quindi, la necessità di elevate spese  per l’hard power.
Il Soft power viene comparato all’Hard power, che è sempre stata la tradizionale misura predominante del potere nazionale, attraverso metodi quantitativi  come le dimensioni della popolazione, la capacità militare, la dimensione geografica, il prodotto interno lordo nazionale o altri fattori economici. Sebbene non sia facilmente misurabile in termini quantitativi, il grado di attrazione può essere misurato dai sondaggi d’opinione, dalle interviste alle elites e dai casi concreti oggetto di studi.  Il professor Nye afferma che il soft power e’ qualcosa di più della capacità di influenzare, dal momento che l’influenza può  dipendere dall’hard power dovuto alle minacce o ai pagamenti. Inoltre, il soft power non è soltanto persuasione o capacità di indirizzare le persone con la discussione, anche se ne è una parte importante. E' anche la capacità di attrarre, e l'attrazione spesso porta all’acquiescenza, al supporto e all'accettazione di politiche, programmi e obiettivi.
Il soft power non è proprietà esclusiva di un solo paese o attore.  Nella politica internazionale, è in parte generato da ciò che fa il governo attraverso la sua politica estera e la diplomazia. Tuttavia, la generazione di soft power è influenzata, sia in  positivo che in  negativo, anche da una miriade di attori non statali all'interno e all'esterno del paese. Tali attori influenzano il pubblico in generale e le élites di governo in altri stati, creando ambienti permissivi o, al contrario, restrittivi per le politiche di governo e gli obiettivi. Tra gli attori non-statali possono sicuramente essere ricompresi le imprese e le società all'estero. In alcuni casi, il soft power può aumentare le  probabilità che le élites sociali, economiche e politiche adottino o imitino le politiche che consentono ad un governo straniero di ottenere il risultato auspicato in un altro stato. In altri casi, invece, dove l’essere percepiti come troppo amici di un altro paese o governo può essere considerato  un handicap politico, la diminuzione o l'assenza di soft power può impedire a un governo di ottenere determinati obiettivi.
Molti osservatori esterni vedono l’applicazione cinese del soft power come parte di una grande strategia volta a convincere il mondo della pacificità delle intenzioni che spingono Pechino ad assicurarsi sia le risorse necessarie a proseguire la propria esponenziale crescita economica sia l’isolamento di Taiwan a livello internazionale.  Gli strateghi cinesi sono giunti alla conclusione che lo sviluppo del soft power è un componente critico per raggiungere questi obiettivi strategici a lungo termine, al pari della crescita economica e militare. In generale, gli strateghi cinesi affermano che l'utilità del soft power risiede nella capacità di promuovere un ambiente esterno favorevole alla crescita della Cina. Gli scrittori cinesi descrivono doviziosamente la grande strategia nazionale del loro paese citando continuamente una crescita pacifica, uno sviluppo pacifico e la costruzione di un mondo armonioso. La Scuola Centrale del Partito Comunista ha individuato tre fasi del processo di crescita della Cina:
-       Entro il 2010: stabilire una “posizione di leader” in Asia orientale, simboleggiata dalla apertura della zona di libero scambio ASEAN- Cina il 1° gennaio 2010;
-       Entro il 2020: raggiungere un ruolo di primo piano come “potere quasi-mondiale” nella regione Asia-Pacifico;
-       Entro il 2050: sviluppare un “livello di potenza mondiale.”[2] 
Il raggiungimento di questi stadi è strettamente legato alla crescita del “Comprehensive National Power” (CNP) della Cina. Il CNP fu sviluppato negli anni ’80  come quadro analitico idoneo a seguire e misurare il progresso nella posizione di potere complessivo della Cina in rapporto agli altri stati. In linea di massima, il CNP fu calcolato utilizzando misure tangibili quali le risorse naturali, la crescita economica, le capacità militari e lo sviluppo sociale, ma nei primi anni 2000, gli analisti hanno aggiunto il soft power come componente astratta del calcolo complessivo del CNP.[3]
Il 15 ottobre 2007,  durante i  lavori del 17° Congresso del PCC, il Presidente Hu Jintao  affermò pubblicamente che la Cina aveva bisogno di incrementare il proprio soft power.[4]  Le misure che furono messe in atto a tal fine videro la costituzione degli Istituti Confucio, il lancio di trasmissioni CCTV in varie lingue straniere, l’istituzione di un centro stampa del Ministero della Difesa e altri meccanismi. Chiaramente, la crescente presenza commerciale all'estero diventa anch’essa attrice in questa espansione del soft power. Infatti, la crescente capacità della Cina di incidere sugli attori statali deriva in gran parte dal suo ruolo di principale fonte di commercio,  investimento e aiuti ai paesi esteri.[5]
Si può ipotizzare che la Cina guadagni significativi vantaggi in termini di soft power, soprattutto nel confronto diretto con gli Stati Uniti, il Giappone e l'Unione Europea, poiché  gran parte dei suoi investimenti all'estero sono effettuati da aziende di Stato che differiscono sensibilmente dagli standards occidentali. Esse infatti mancano di trasparenza, ricevono ingenti finanziamenti statali e operano senza molte delle limitazioni imposte alle società con azionisti. Inoltre, hanno anche il vantaggio di guardare a più lungo termine, giacché le loro priorità sono integrate con quelle nazionali e non sono costrette a dimostrare profitti a breve termine. Storicamente, infatti, queste aziende non hanno mai rispettato una cadenza regolare per  pagare i dividendi ai loro azionisti.[6]
L’incremento delle attività commerciali cinesi all'estero ha certamente avuto un ruolo di rilievo nell’espansione del soft power. Molte aziende cinesi hanno iniziato la loro strategia going global penetrando i mercati dei paesi del terzo mondo in via di sviluppo. Questa strategia di ingresso sul mercato è stata in parte guidata dall’esigenza di attenuare il rischio evitando mercati già saturi di prodotti occidentali, per concentrarsi sul vantaggio competitivo del basso costo. I marchi cinesi non possono ancora competere con l’iconica statura globale della Coca-Cola, della Microsoft o di McDonald's.  I cinque protagonisti cinesi il cui nome sta incominciando ad essere conosciuto e a raccogliere una certa attenzione sono il produttore di PC Lenovo, la birreria Tsingtao, la fabbrica di elettrodomestici Haier, il colosso del network  Huawei e la casa automobilistica Chery.[7]  Tuttavia alcuni beni di consumo cinesi sono non solo graditi, ma addirittura preferiti  in molti paesi in via di sviluppo. Parte del loro fascino è dovuto soprattutto al costo relativamente basso in rapporto agli analoghi prodotti occidentali, che ha dato a quei consumatori la possibilità di accedere a beni che altrimenti sarebbero stati inaccostabili.  In luoghi come l'Africa e il Medio Oriente, infatti, i normali cittadini non avrebbero mai potuto permettersi televisori, frigoriferi o condizionatori d'aria, prima che i cinesi si  concentrassero in queste parti del mondo con aziende come l’Haier, la Galanz o la TCL.  In Liberia, ad esempio, i generatori più diffusi sono proprio i Tiger di fabbricazione cinese che, con il loro prezzo molto basso, relegano le più costose marche occidentali nell’ambito esclusivo delle missioni diplomatiche e delle agenzie di aiuto internazionale.  Facendo oggetti per la gente comune, la Cina “presto controllerà il cuore della gente comune dell'Africa.” [8]
Lo stesso vale per le infrastrutture di telecomunicazione. La Huawei e la ZTE hanno infatti consentito di realizzare in alcuni dei piu’ remoti angoli del mondo reti di comunicazione affidabili, soprattutto di telefonia mobile, che hanno indotto quei paesi ad abbandonare la rete fissa in favore dei cellulari, ormai sempre più diffusi. 
Di conseguenza, la popolazione di queste parti del mondo guarda  con molto favore alle aziende cinesi, poiché offrono prodotti e servizi che prima del loro avvento erano completamente  indisponibili,  in quanto le società occidentali ignoravano del tutto i loro mercati. Si può dedurre che tutto ciò ha fatto maturare una benevola predisposizione nei confronti di tali aziende e, molto probabilmente, della Cina in generale, consentendo di interpretare questo atteggiamento popolare come un chiaro esempio di soft power. I sondaggi dimostrano che la popolarità della Cina è elevata in molte aree in via di sviluppo, sia nel Sud-est Asiatico che in Africa e in America Latina, proprio a causa della percezione dei benefici economici derivanti dalle  relazioni con la Cina.
Allo stesso modo, anche i governi di questi paesi sono stati influenzati dal soft power delle aziende cinesi. Infatti, a fronte delle restrizioni di legge imposte alle imprese americane, come il Foreign Corrupt Practices Act ed altre sanzioni economiche, sul versante cinese non si riscontra alcun tipo di impedimento alle aziende cinesi per impiantare affari all’estero. Esse possono dunque prosperare in tutti i mercati evitati dalle imprese americane ed europee e, soprattutto, in quegli stati considerati pariah come lo Zimbabwe, il Sudan e la Birmania. Naturalmente, i governi di questi paesi apprezzano molto che la Cina incoraggi le proprie imprese ad operare sul loro territorio senza porre precondizioni  politiche.
Lo stesso vale per le varie offerte commerciali sponsorizzate dal governo di Pechino. L’influenza cinese all'estero è generalmente considerata benigna. Gli investimenti non sono accompagnati dalle condizioni politiche  spesso richieste dagli americani e dagli europei, ma sono soggetti soltanto a due requisiti: non intrattenere relazioni diplomatiche con Taiwan e supportare la Cina nelle organizzazioni internazionali. Pechino ha negoziato più di 400 accordi commerciali con i paesi latino-americani negli ultimi anni,dove ha investito oltre 50 miliardi di dollari; ha prestato particolare attenzione alle nazioni con riserve di petrolio e gas naturale come il Venezuela, il Kazakistan e la Nigeria; ha condonato prestiti per  oltre 1 miliardo di dollari alle nazioni africane, invogliandole con progetti di sviluppo. Nei paesi in cui ha effettuato consistenti investimenti nel settore energetico, come il Sudan, l’Angola e la Guinea Equatoriale, ha affiancato le compagnie petrolifere con imprese di costruzione inviate appositamente per  sviluppare le infrastrutture locali. In tal modo appare immediatamente evidente la differenza con gli sforzi americani ed europei che concentrano il loro soft power sulla promozione della democrazia e sull'incoraggiamento della buona governance all'estero, mentre la Cina promuove il suo soft power attraverso il commercio e gli scambi energetici, producendo risultati tangibili ed evidenti quali la costruzione di strade, stadi, scuole e ospedali.
La crisi finanziaria globale lascerà la Cina in una posizione relativamente più forte rispetto agli Stati Uniti e all’Europa. Mentre l'Occidente ha dovuto tagliare gran parte dei suoi investimenti esteri negli ultimi anni a causa di problemi economici interni, la Cina si è trovata in una posizione privilegiata per ampliare i propri investimenti ed è stata in grado di accedere alle risorse naturali dei paesi in via di sviluppo proprio quando  l'Occidente non poteva.
Come visto in precedenza, il soft power può essere influenzato anche negativamente. Nel mondo sviluppato, la reputazione aziendale della Cina è piuttosto offuscata. I prodotti cinesi sono mal considerati nella maggior parte dell'Europa e nel Nord America. Nel periodo di Natale 2010, ad esempio, in tutta Roma erano affissi cartelli che sconsigliavano l’acquisto di prodotti cinesi a causa della loro pessima qualità[9].  Innumerevoli episodi legati al cibo per cani avvelenato, a giocattoli con vernici al piombo, al dentifricio contaminato e ad altre imbarazzanti e pericolose esportazioni hanno macchiato la reputazione del “Made in China”. Alcune segnalazioni riportano addirittura che i fornitori boliviani hanno rimosso dai prodotti le etichette “Made in China” [10].
Sono sorti problemi anche in quei paesi del mondo in via di sviluppo che hanno un atteggiamento più positivo nei confronti della Cina.  Sui media locali abbondano i racconti di episodi negativi verificatisi in Africa: prodotti cinesi di scarsa qualità entrati in competizione sleale con quelli locali, tanto da rimpiazzarli;  progetti infrastrutturali realizzati con manodopera proveniente dalla Cina anziché con personale locale; totale noncuranza delle norme ambientali. Una serie di eventi che hanno fatto nascere le accuse di un neocolonialismo cinese e di politiche mercantili che guardano alla sottrazione di risorse piuttosto che a investimenti nel settore industriale.
L'immagine della Cina ha subito una battuta d’arresto anche nell’ambito aziendale dei vicini Stati asiatici. La Shanghai Automotive Industry Corporation (SAIC), il più grande produttore cinese di automobili, acquistò nel 2004 la quota di controllo della sud-coreana Ssangyong Motors, realizzando quello che allora era il più ambizioso acquisto all'estero per l'industria automobilistica cinese.[11] Cinque anni dopo, l'accordo andò in pezzi con la dichiarazione di fallimento della Ssangyong. La Corea del Sud, a torto o a ragione, ritenne che la responsabilità fosse da attribuire all’azienda cinese, tacciata di sfruttamento e accusata di non aver rispettato le promesse, poiché il suo unico interesse era l'acquisizione della tecnologia sud-coreana. Quell’episodio si è sommato ad una rottura altrettanto aspra tra due aziende elettroniche, la cinese BOE Technology Group e la sud-coreana Hydis,  e ha provocato l’irrigidimento dell'opinione pubblica sud-coreana nei casi di competizione delle aziende cinesi con quelle nazionali[12].
Negli Stati Uniti, le indicazioni per il soft power cinese non sono favorevoli. Nel 2010 un sondaggio dalla Columbia University ha evidenziato che il 45% degli americani non è favorevole agli investimenti cinesi negli USA.  Sebbene, infatti, nei primi sei mesi del 2010 tali investimenti siano aumentati del 360% e abbiano prevedibilmente  comportato un aumento di posti di lavoro per gli americani, la percezione della Cina resta comunque quella di  uno stato concorrente.[13]
Chiaramente, il governo cinese è preoccupato per l'impatto di questi avvenimenti sulla propria strategia di soft power nel mondo.  Il vice premier cinese Wang Qishan ha perfino pubblicamente rimproverato il capo della Sany Heavy Industry Company Limited, una società ingegneristica molto attiva nei paesi in via di sviluppo, per non essere abbastanza sensibile alle differenze culturali.[14]  Proseguendo la sua politica di going global, Pechino ha promulgato nell’agosto 2006 nuove e stringenti regole per le imprese, sollecitandole a  prestare particolare  attenzione ai costumi locali, alle norme di sicurezza e all'ambiente di lavoro. Ciò sottolinea, dunque, quanto le implicazioni soft power delle imprese cinesi all'estero vengano considerate molto seriamente a livello centrale.
Nonostante il sistema politico cinese sia indiscutibilmente autoritario, il successo economico che ha portato il Paese a triplicare il prodotto interno lordo negli ultimi trent’anni, suscita molto interesse nei paesi in via di sviluppo. Tutto ciò ha una diretta correlazione con il soft power cinese, particolarmente rafforzata dalla crisi finanziaria del 2008. In alcune parti dell'Asia, dell'Africa e dell'America Latina, il cosiddetto Beijing Consensus, ovvero il modello di sviluppo basato su un governo autoritario accoppiato ad un’economia di mercato, è più popolare del Washington Consensus,  il modello dominante in precedenza fondato su un governo democratico associato ad un'economia di mercato.

Capitolo 6 - Implicazioni Hard Power delle aziende cinesi “Going Global”

            I principi che sostanziano il concetto di hard power sono stati ripetutamente citati dai pensatori politici nel corso della storia. Niccolò Machiavelli ha focalizzato gli aspetti militari del potere ne Il Principe del 1532. Thomas Hobbes ha ampliato il concetto di potere nel Leviathan del 1651, includendovi i mezzi economici e finanziari. Pensatori cinesi come Confucio, Mencio e Sun Zi hanno incluso il concetto dell’hard power nei loro scritti. Nel secolo scorso, Hans Morgenthau e Henry Kissinger hanno offerto famose descrizioni del potere statale in termini di hard power. Negli ultimi anni, strateghi cinesi come Yan Xuetong hanno trattato la crescente influenza della Cina e i modi in cui essa può realizzare il suo potere.
I concetti di soft e hard power possono essere considerati come i due poli dello spettro del potere. L’hard power è una teoria che descrive l’uso dei mezzi militari ed economici per influenzare il comportamento o gli interessi di altri organismi politici. Trae  origine dalla scuola neo-realista delle relazioni internazionali e si basa sul presupposto che le risorse economiche dominanti e le capacità militari possono essere equiparate alla capacità di uno stato di influenzare gli stati viciniori. I neo-realisti pongono molta enfasi  infatti sulle capacità hard power degli Stati, in particolare per quanto concerne  le loro capacità militari e la forza economica in congiunzione con l’entità della popolazione  e delle risorse naturali che possiedono. Il neo-realismo sottolinea la capacità di uno stato di spingere gli altri a comportarsi come esso vuole che si comportino. L’hard power implica fatti e assetti definibili e tangibili che possono essere utilizzati per far rispettare le priorità nazionali e favorire gli interessi nazionali sino a tradursi, molto  spesso, in politiche conflittuali che portano al confronto vis-a-vis con gli altri Stati. Pertanto,  l’hard power è di solito più facilmente riconoscibile del soft power.
I potenziali strumenti di hard power in Cina sono aumentati in proporzione alla crescita del PIL che non ha precedenti nella storia.  Uno dei maggiori osservatori economici della Cina, Jing Ulrich, ha detto che: “La Cina ha una montagna di soldi - uno tsunami, in realtà - che sta per abbattersi sul resto del mondo”. [15]  In termini meramente economici, le cifre sono una chiara dimostrazione di hard power:
-       Pechino è il maggior detentore di titoli del tesoro statunitense, con oltre 700 miliardi di dollari alla fine del 2008;[16]
-       le riserve cinesi in valuta americana hanno raggiunto i 2.400 miliardi dollari nel giugno 2010 e sono le più grandi del mondo;[17] 
-       dal momento in cui il governo cinese ha annunciato nel 1999 la promozione dell’attività aziendale cinese all'estero, l’ODI ha superato i 178 miliardi dollari; [18]
-       il surplus commerciale della Cina è raddoppiato a 20 miliardi di dollari nel 2010;[19]
-       la Cina ha istituito un fondo sovrano di ricchezza, la China Investment Corporation (CIC), con un deposito iniziale di 200 miliardi di dollari nel 2007[20], presumibilmente salito a 300 miliardi nei primi mesi del 2010.[21] 
 Le grandi aziende cinesi che possiedono titoli americani, compreso il debito pubblico degli USA sotto forma di titoli del Tesoro, sono fonte di trepidazione per gli Stati Uniti. Alcuni sostengono che la Cina usi questa particolare condizione  come leva contro le politiche americane invise a Pechino.[22] Ad esempio, si registrano varie dichiarazioni di funzionari cinesi che sembra abbiano minacciosamente ventilato la possibilità di svendere una larga fetta di questi titoli, al fine di scoraggiare gli Stati Uniti dall’imporre sanzioni commerciali contro la Cina. Analoghe dichiarazioni di militari cinesi sono state riportate nei primi mesi del 2010, come forma di rappresaglia per le vendite di armi americane a Taiwan. Altri temono che i tentativi della Cina di scaricare gran parte dei titoli USA in suo possesso potrebbero impattare molto negativamente l'economia americana, soprattutto se tale mossa innescasse un forte deprezzamento del dollaro sui mercati internazionali e inducesse altri investitori stranieri a svendere a loro volta i titoli statunitensi. In tale caso, infatti, i tassi di interesse americani potrebbero aumentare per tentare di mantenere o attirare nuovi investimenti, ma l’effetto sarebbe quello di raffreddare la crescita economica del Paese.[23]
Molti osservatori hanno pertanto affermato che la situazione economica e finanziaria della Cina è così forte da aver portato alla cancellazione del motto di Deng: “Nascondere le nostre capacità, aspettare il nostro tempo e non tentare mai di prendere l'iniziativa”. Viceversa,  nei tumulti della crisi finanziaria globale, il governo cinese ha visto la possibilità di far valere se stesso e, in cambio di un maggior ruolo nel Fondo Monetario Internazionale (FMI), ha promesso, ad esempio, di acquistare ulteriori obbligazioni dello FMI per sostenerlo; inoltre, ha sollecitato la creazione di un'altra moneta come riserva per sostituire il dollaro americano.[24] E' dunque ormai evidente che la Cina è disposta ad assumere un ruolo attivo e interventista negli affari finanziari internazionali.
La profondità delle tasche  ha spinto la Cina ad assumere  un ruolo più assertivo nella Banca Mondiale, nella Banca di Sviluppo Asiatico e in altri enti regionali e globali, oltre che nello FMI. Le iniziative cinesi, come gli Accordi di amicizia e partenariato   cooperativo, gli Accordi di libero scambio e quelli di Partenariato strategico hanno rafforzato le relazioni bilaterali. La Cina ha cercato di ideare nuove organizzazioni multilaterali che mettano in risalto la sua leadership come l'East Asia Summit (EAS), la Shanghai Cooperation Organization (SCO), il Forum di cooperazione Sino-Africana (FOCAC) e il Forum di cooperazione Sino-Araba. Molti di questi accordi prevedono che il partner straniero riceva assistenza dalla Cina sotto forma di prestiti senza interessi o a tasso agevolato, oppure di cancellazione del debito. Molto spesso, inoltre, la Cina amplia  i pacchetti di aiuti comprendendovi non soltanto prestiti ma anche accordi commerciali e investimenti, soprattutto nel settore energetico.[25]
La Cina utilizza una combinazione di mezzi politici ed economici per proteggere i propri scambi commerciali e rafforzare i legami bilaterali. Il risultato è che le relazioni economiche non sono effettuate su una base puramente commerciale, ma si realizza una sostanziale sovrapposizione tra gli aiuti allo sviluppo, gli investimenti e gli accordi commerciali. Il finanziamento e il supporto politico mettono le imprese cinesi in condizione di raggiungere una posizione sempre  più competitiva e dominante nel mondo in via di sviluppo.
La Cina ha accoppiato l'assistenza economica con il suo massiccio potere d'acquisto, sostenuto con fondi statali per gli investimenti diretti all'estero, per sviluppare linee di alimentazione e contratti a lungo termine volti a garantire gli inputs industriali e consumistici indispensabili per la propria economia fondata sull’esportazione. L'esigenza di garantirsi l'accesso alle risorse ha portato a un approccio nazionalista e competitivo sempre più indirizzato alla sicurezza energetica. Parte della correlata strategia cinese è rivolta alle compagnie petrolifere nazionali, che vengono spinte ad utilizzare gli  incentivi statali per accedere ai principali paesi produttori di energia del mondo, a prescindere dalla natura autocratica dei governi coinvolti.  Le attività commerciali cinesi all'estero sono state addirittura accusate di essere mercantiliste e di spargere i semi di potenziali rivalità economiche future. L’agire della Cina è spesso visto come una competizione con gli altri paesi per accaparrarsi le limitate risorse naturali disponibili.[26] Molti prevedono addirittura che l’insaziabile ricerca di risorse giungerà a mettere in pericolo la sicurezza nternazionale sia che si tratti dell’Asia centrale e del Mar Cinese Meridionale, sia che si guardi al Medio Oriente o all’Africa. [27]
L'ODI cinese in Africa sembra essere parte di una strategia tesa a rafforzare la sicurezza energetica. Nel 2007 la Cina ha importato petrolio da alcuni paesi africani per 25 miliardi di dollari, oltre a rame, minerali di ferro e altre risorse considerate critiche per il mantenimento della crescita economica del paese. Pechino vorrebbe garantirsi questo flusso di alimentazione acquisendo la proprietà delle fonti che la metterebbe al riparo dai rischi e dalle incertezze di prezzo e di fornitura connessi all'acquisto di tali prodotti su mercati randomici.
Chiari segni di un crescente hard power cinese sono evidenti anche a  livello aziendale. Nel 2010, la Sinopec e altre due aziende energetiche di proprietà statale, la State Grid e la China National Petroleum, sono riuscite a collocarsi tra le prime dieci industrie elencate da Fortune Magazine's Top 500. La Sinopec si  è classificata al settimo posto, seguita a ruota dalla State Grid, il più grande gestore cinese di energia elettrica, mentre la China National Petroleum Corporation ha occupato la decima posizione. In totale, nella classifica del 2010 compaiono ben 46 imprese cinesi.[28]
Il legame tra le attività commerciali, la richiesta di risorse e la politica estera cinese è sempre più in contrasto con gli interessi  occidentali, e soprattutto americani, riguardanti gli scambi con i regimi odiosi. Alcune aziende di Stato cinesi hanno  vasti  interessi in paesi come l’Angola, il Congo, la Birmania, il Sudan e lo Zimbabwe, tutti stati che violano i diritti umani e le norme di buon governo. Nel tentativo di esercitare pressioni su questi regimi, l'Occidente usa abitualmente l’economia e il commercio, ma la Cina si rifiuta di  usare i muscoli  economici a fini politici.
E così, mentre gran parte della comunità internazionale sta cercando di isolare soprattutto economicamente l'Iran, per soffocarne l’illecito programma nucleare, l’interazione commerciale cinese con Teheran è in crescita. Alla diminuzione negli ultimi anni degli  scambi commerciali tra Iran ed Unione Europea si contrappone l’incremento del commercio sino-iraniano. Nell'aprile 2008, l'Iran è stato il secondo fornitore di petrolio della Cina. La stessa Sinopec che si trova elencata nella classifica 2010 di Fortune Top 10,  nel dicembre 2007 approvò un contratto di 2 miliardi dollari per sviluppare il campo petrolifero di Yadavaran nel sud-ovest dell'Iran. Il contratto di acquisto complessivo è costato più di 100 miliardi. La CNOOC, che nel 2010 si è collocata al 252° posto di Fortune Top 500, approvò  nel 2008 un investimento di 16 miliardi per sviluppare il giacimento di gas iraniano North Pars. Il portavoce del Ministero cinese degli Affari Esteri  definì  l’accordo CNOOC come “Niente più che un affare tra imprese interessate” e sostenne che, rispetto agli sforzi internazionali di non proliferazione, “le azioni contro l'Iran non dovrebbero pregiudicare o mettere in pericolo la cooperazione economica ed energetica con l'Iran.” Parlando in Cina nell'aprile 2008, il viceministro degli Esteri per gli affari economici iraniano sostenne che:“l'Iran e la Cina devono cooperare più strettamente tra loro e considerare un dovere lo sforzo di scongiurare gli effetti negativi dell’influenza di paesi terzi nei loro rapporti economici.”[29] Le imprese cinesi confermano la partecipazione a molte attività in Iran, quali la costruzione della metropolitana e dell'aeroporto di Teheran, nonché  di autostrade ed impianti industriali. Ciò appare come un chiaro esempio di sostegno economico e commerciale  della Cina nei confronti del governo iraniano a fronte degli sforzi internazionali volti a prevenirne l'ulteriore sviluppo della tecnologia di arricchimento dell'uranio.
La Cina progetta importanti investimenti in Birmania riguardanti il gas ed il  petrolio. Sulla scia del giro di vite della giunta militare birmana contro le proteste buddista nel settembre 2007, la Cina bloccò una forte risoluzione delle Nazioni Unite  e ne sostenne una molto più debole.
La Sinopec ha firmato nel 2006 un memorandum d'intesa con la Saudi Aramco per la fornitura entro il 2010 di 1 milione di barili al giorno alla Sinopec e ai suoi affiliati. Nel 2009, la Cina ha superato gli USA come principale cliente petrolifero dell’Arabia Saudita. La quantità di greggio saudita importato dalla Cina ha superato il milione di barili al giorno mentre, per la prima volta negli ultimi 20 anni, gli Stati Uniti ne hanno importato meno di un milione. La forte domanda cinese di greggio, sostenuta da ingenti risorse finanziarie, sta cambiando la struttura del mercato petrolifero mondiale. L'Arabia Saudita è stata una delle più importanti fonti di importazione petrolifera  degli Stati Uniti, ma nel 2009 il corrispettivo valore è drasticamente calato, mentre quello cinese è cresciuto del 15,1%, facendo sì che la Cina sostituisse gli Stati Uniti come maggior cliente dell’Arabia Saudita. Alcuni osservatori hanno usato  il cambiamento di  direzione del flusso del petrolio saudita per indicare  sottili cambiamenti nel mercato mondiale del greggio.[30]   Inoltre, la Sinopec ha effettuato numerose  perforazioni nell’Empty Quarter dell’Arabia Saudita alla ricerca di gas naturale.
La Cina ha costituito il suo fondo sovrano, la China Investment Corporation (CIC), il 29 settembre 2007.[31]  Inizialmente, gli assets in gestione ammontavano a circa  200 miliardi di dollari, ma nel 2009 erano già saliti a 332 miliardi. Il CIC è stato istituito al fine di utilizzare queste riserve per il bene dello Stato, sul modello della Singapore 's Temasek Holdings . La Central Huijin Investment Corporation, di proprietà statale, è stata fusa nella nuova società come filiale dell'azienda. Il consiglio di amministrazione e di gestione del CIC riporta al Consiglio di Stato della Repubblica popolare cinese,l'equivalente del Gabinetto nazionale. Lou Jiwei è Presidente e Amministratore Delegato del CIC, nonché Segretario Generale Aggiunto del Consiglio di Stato.[32] Si ritiene che il CIC sia fortemente radicato nella classe dirigente politica, poiché ricade sotto l'autorità del premier cinese Wen Jiabao e la composizione del suo consiglio di amministrazione è praticamente determinato dal Ministero delle Finanze cinese. 
Il fondo sovrano cinese potrebbe essere per Pechino un altro strumento di proiezione di potenza globale.[33]  Molti nel Congresso degli Stati Uniti si chiedono infatti cosa potrebbe succedere se la Cina acquisisse sistematicamente rilevanti partecipazioni in settori particolarmente sensibili, come le telecomunicazioni, l'energia e la difesa, e quali potrebbero essere i rischi per la sicurezza in funzione di eventuali mete non dichiarate di Pechino. Teoricamente, il CIC potrebbe acquisire il controllo di settori chiave e  l’accesso a importanti risorse naturali. Qualcuno ipotizza che la Cina possa acquistare grandi aziende statunitensi e influenzare indebitamente l'economia americana o quella di qualsiasi altro paese. Qualcun’altro pensa che potrebbe utilizzare il CIC per ottenere il potere di mercato su importanti risorse naturali o accedere a tecnologie sensibili, acquistando un seggio nel consiglio di amministrazione di una Corporation.
La maggior parte degli osservatori internazionali non crede che il Consiglio di Stato cinese abbia istituito il CIC con l'esplicito intento di farne uno strumento di potere; ma non è neanche escluso che, ora che è in funzione, possa essere effettivamente sfruttato per affermare gli obiettivi  di politica estera. Un’indicazione che i funzionari cinesi possano aver compreso le potenzialità del CIC si riscontra nella recente sottolineatura di quanto gli investimenti di fondi sovrani in società finanziarie straniere in difficoltà abbiano garantito la stabilità del mercato in questo periodo di crescente preoccupazione per la crisi finanziaria globale. Nel dicembre 2007, il CIC investì 5 miliardi di dollari nella Morgan Stanley,[34] acquisendone azioni nel momento in cui l'azienda stava lottando per la sopravvivenza e ciò fu visto come una mossa molto opportunistica.[35] In quel momento, l'acquisto della Morgan Stanley operato dal CIC apparve solo come un esempio di quanto il governo cinese stesse attivamente investendo in partecipazioni all'estero.
 Nell'aprile 2008, l’ASCSE spese 2 miliardi per acquisire una piccola partecipazione nella British Petroleum   e ne investì altri 2.45 nella francese Total. [36]
Alcune percezioni più o meno corrette del collegamento tra imprese e hard power hanno talvolta ostacolato gli ODI cinesi. Uno dei più noti esempi  in proposito è il fallito tentativo della CNOOC di acquistare la Unocal che all’epoca era la nona compagnia petrolifera al mondo. Il 23 giugno 2005, infatti, la CNOOC tentò di scalare la californiana Unocal con un’offerta in contanti di 18,5 miliardi. L'offerta era di tutto rilievo perché, ad aprile, l’Unocal aveva già accettato l’offerta di Chevron per 16,5 miliardi in azioni e contanti. La mossa della CNOOC innescò una grande agitazione politica che  rifletteva la preoccupazione degli Stati Uniti circa la crescente influenza finanziaria cinese e il suo forte appetito di petrolio straniero. Essendo una società statale, la CNOOC si connotava come una grande impresa che operava sotto egida governativa e pertanto aveva la possibilità di accedere alle vaste risorse cinesi. L’operazione appariva quindi come una manifestazione della volontà di Pechino di acquisire una grande azienda dai risvolti strategici per gli Stati Uniti. Anche la sopravvalutazione dell’offerta per l’Unocal era degna di nota, poiché evidenziava la peculiare caratteristica della Cina di voler soggiogare le fonti di approvvigionamento. Inoltre, molti politici americani espressero preoccupazione anche per i risvolti militari delle trivellazioni petrolifere condotte dall’Unocal che, un domani, avrebbero potuto essere usate contro gli Stati Uniti. Il 30 giugno la Camera dei Rappresentanti americana approvò dunque una risoluzione in cui la proposta di acquisizione della CNOOC veniva considerata una possibile minaccia alla sicurezza nazionale e dispose un’approfondita investigazione. Di fronte a un’opposizione così forte, ai primi di agosto la CNOOC ritirò  la sua offerta.[37]
Un altro fallimento cinese negli Stati Uniti risale al 2008, quando la Shenzhen Huawei Technologies, produttrice di apparecchiature di rete, non riuscì ad acquistare la 3Com Corporation. Inizialmente, la Huawei si era dimostrata apparentemente attenta alle sensibilità degli Stati Uniti e aveva cercato un partner americano per lanciare un’offerta di acquisto del valore di 2,2 miliardi di dollari. Il caso fece scalpore perché la 3Com si occupa di apparecchiature per la sicurezza informatica della rete militare americana, ma anche la Huawei Technologies è collegata all’apparato militare cinese tramite Ren Zhengfei che, oltre ad essere fondatore e presidente della Huawei, è anche un ex ufficiale dell’Esercito cinese. La preoccupazione consisteva nella possibilità che la Huawei alterasse il software e le attrezzature elettroniche vendute ai militari americani in modo da renderli vulnerabili ad eventuali sfruttamenti futuri. A Capitol Hill, l'accordo fu definito come “un assalto stealth alla sicurezza nazionale americana.”[38] Conseguentemente, il Comitato degli investimenti stranieri negli Stati Uniti istituito in seno al  Dipartimento del Tesoro (CFIUS) approfondì i potenziali rischi per la sicurezza nazionale derivanti da una simile operazione.[39] Alla fine, anche questo affare  fallì  a causa dell’esame estremamente approfondito cui fu sottoposto a livello  pubblico e politico negli Stati Uniti.
Probabilmente l’esempio più incontrovertibile del possibile coinvolgimento negativo del governo cinese in attività commerciali riguarda l’Aluminum Corporation of China (Chinalco) e la miniera anglo-australiana di Rio Tinto. Nel 2009, la proposta della Chinalco di investire 19 miliardi di dollari nella Rio Tinto sollevò una raffica di interrogativi sul perché una Società statale cinese dovesse acquistare un asset strategico all’estero. Le reazioni furono aspre, poiché in precedenza la Chinalco era uno dei più grandi clienti della Rio Tinto. Si affermò che, nel tentativo di acquisire il 18% della Rio Tinto, l’obiettivo fondamentale della Chinalco era quello di rompere il monopolio di fatto di cui godono la Rio Tinto e altre due aziende che condizionano i prezzi a livello mondiale di minerali di ferro ed altri prodotti chiave di cui la Cina ha un disperato bisogno.[40] I politici australiani bollarono le aziende di Stato cinesi come “braccio del partito comunista.” Voci pubbliche e private espressero dubbi che gli investimenti cinesi fossero esclusivamente motivati da interessi commerciali. Nel caso specifico, c’era una considerevole preoccupazione che potesse realizzarsi un conflitto di interessi riguardo alle strategie di definizione dei prezzi  in questo settore chiave.[41] L’Australia avrebbe voluto aumentare al massimo i prezzi, in quanto produttore, mentre la Cina avrebbe voluto l'esatto opposto in quanto consumatore. Di fronte  alla forte opposizione sollevata a livello politico e dagli azionisti, a giugno 2009 l’affare saltò. Pechino si adirò, perché l’allontanamento della Rio dagli investimenti della Chinalco si realizzava sullo sfondo di un contenzioso riguardante il prezzo dei minerali di ferro negoziato tra la Rio e i principali produttori di acciaio cinesi. Nel mese di luglio, le autorità cinesi arrestarono quattro dirigenti della Rio Tinto, ponendo in essere quello che a detta di molti fu una ritorsione. La particolarità di questo episodio diede modo ai critici di sottolineare gli aspetti negativi del ruolo che il governo cinese potrebbe assumere nelle transazioni commerciali legate all’ODI e alla possibilità di imbattersi in aziende di Stato cinesi, con le discendenti conseguenze in termini di hard power.



[1] Joseph Nye, Jr., Soft Power: The Means to Success in World Politics (New York:  Public Affairs, 2004), X-XI.
[2] Joel Wuthnow, “The Concept of Soft Power in China's Strategic Discourse,” Issues & Studies, June 2008, 5-6.
[3] Wuthnow, “The Concept of Soft Power in China's Strategic Discourse,” 6.
[4] Richard Rosecrance and Gu Guoliang, Power and Restraint (New York: Public Affairs, 2009),  28.
[5] Congressional Research Service Report, China’s “Soft Power” in Southeast Asia, report prepared by Thomas Lum, Wayne M. Morrison, and Bruce Vaughn, January 4, 2008, 1.
[6] Dumbaugh, China’s Foreign Policy:What Does it Mean for U.S. Global Interests?, 13.
[7] Dexter Roberts, “How to Beat Made-in-China,” BusinessWeek Online, October 9, 2007, http://www.businessweek.com/globalbiz/content/oct2007/gb2007108_553610.htm.
[8] William Foreman, “China’s Influence Spreads Around World,”  Yahoo News, September 1, 2007, http://news.yahoo.com/s/ap/20070901/ap_on_re_as/china_global_impact.
[9] L’Autore risiedeva a Roma all’epoca dell’osservazione di questi cartelli.
[10] William Foreman, “China’s Influence Spreads Around World,”  Yahoo News, September 1, 2007, http://news.yahoo.com/s/ap/20070901/ap_on_re_as/china_global_impact.
[11] The Chinese government switched the initially planned buyer of Ssangyong from BlueStar Chemical to SAIC.
[12]    Choe Sang-Hun, “Soured Deal Embitters Shanghai and Seoul,” International Herald Tribune, February 25, 2009, 1&12.
[13]     Sheridan Prasso, “U.S. to China: Nimby,” Fortune, September 6, 2010, 22.
[14] Alan Wheatley, “China Inc’s Global Growing Pains,” January 21, 2010, http://www.reuters.com/article/idUSTRE60J1RO20100121.
[15]  Bill Powell, “Enter the Dragon,” Time.com, July 26, 2007,
[16]   Scissors, “Deng Undone,” 25
[17]  Ashley Tellis, Andrew Marble, and Travis Tanner, “Asia’s Rising Power and America’s
      Continued Purpose,” Strategic Asia 2010-11, 2010, 44
[18]  Jakobson and Knox, “New Foreign Policy Actors in China,” 26.
[19]  Tellis, Marble, and Tanner, “Asia’s Rising Power and America’s Continued Purpose,”  44
[20]  Pieter Bottelier, “China’s Sovereign Wealth Fund,” CSIS Freeman Report, January 2008, 1.
[21]  Daniel Ren, “China on Buying Spree of US Stocks,” South China Morning Post, February 10,
      2010,  B1.
[22]  Congressional Research Service, “China’s Holdings of U.S. Securities: Implications for the U.S.
      Economy,” report prepared by Wayne M. Morrison, January 9, 2008.
[23]   Many analysts recognize that if China dumps its U.S. treasuries, it will do as much damage to its own economy as to that of the United States
[24]   Joshua Kurlantzick, “China’s Turn,” Time Magazine, April 13, 2009, 52.
[25] Congressional Research Service, “Comparing Global Influence: China’s and U.S Diplomacy,
     Foreign Aid, Trade, and Investment in the Developing World,” report prepared by Thomas    
     Lum, August 15, 2008, 29.
[26] Andrews-Speed and Vinogradov, “China’s Involvement in Central Asian Petroleum,” 391.
[27]  Hongyi Harry Lai, “China’s Oil Diplomacy: Is it a Global Security Threat?” Third World
      Quarterly, 28, no.3, 2007, 520.
[28]  Fortune Global 500, July 26, 2010,
      http://money.cnn.com/magazines/fortune/global500/2010/countries/China.html.
[29]  Congressional Research Service, “Comparing Global Influence: China’s and U.S. Diplomacy, Foreign Aid, Trade, and Investment in the Developing World,” report prepared by Thomas Lum, August 15, 2008, 149.
[30]China exceeds US to become Saudi Arabia's top oil customer,” Global Times, February 23, 2010, http://business.globaltimes.cn/china-economy/2010-02/507404.html.
[31]    Bottelier, “China’s Sovereign Wealth Fund,” 1.
[32]    Bottelier, “China’s Sovereign Wealth Fund,” 1.
[33]  Lum, “Comparing Global Influence: China’s and U.S. Diplomacy, Foreign Aid, Trade, and Investment in the Developing World,” 72.
[34]   Rick Carew, “Morgan Stanley receives $5 billion in China Funds,” The Wall Street Journal Asia, December 20, 2007, A1.
[35]   The CIC investment in Morgan Stanley actually ended up being a poor investment as the value fell to US$1.77 billion by early 2010.
[36]   Rick Carew, “China Gambles on Big Overseas Plays,” The Wall Street Journal, April 16, 2008,    C2.
[37]  Ben White, “Chinese Drop Bid To Buy U.S. Oil Firm,” Washington Post, August 3, 2005, http://www.washingtonpost.com/wp-dyn/content/article/2005/08/02/AR2005080200404.html.
[38] Andrew Parker and Paul Taylor, “Huawei Rails at Security Concerns over 3Com Deal,” Financial Times, February 12, 2008, 24.
[39] Steven R. Weisman, “Sale of 3Com to Huawei is derailed by U.S. security concerns,” New York Times, February 21, 2008, http://www.nytimes.com/2008/02/21/business/worldbusiness/21iht-3com.1.10258216.html.
[40] Bill Powell, “Rio Tinto – China Strikes Back,” Fortune, August 24, 2009, http://money.cnn.com/2009/08/24/news/companies/china_rio_tinto.fortune/index.htm
[41] Mark Thirlwell, “Dealing with the Dragon: Australia and Chinese Inward Investment,” Clingendael Asia Studies, April 1, 2010, 2

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