NOTIZIE CESVAM
Relazione al Convegno del Milite Ignoto
Dai Fasti romani a Giulio Douhet
Alessia Biasiolo
In questo contributo viene
proposta una riflessione sulla concezione che ha portato alla scelta del Milite
Ignoto italiano nel 1921, a seguito della prima guerra mondiale, confrontando
la figura del soldato/eroe senza nome con
quella del condottiero dell’antico impero romano.
L’onore al vincitore
Nell’antica Roma si distinguevano
i giorni fasti dai giorni nefasti. Durante i fasti era possibile compiere
determinati atti, come contrattare affari senza incorrere nell’empietà, cioè il
rischio di commettere un atto contrario agli dei; durante i giorni nefasti,
invece, non era possibile riunirsi in assemblee e tribunali e condurre affari.
Nel tempo con il termine fasti si intendevano praticamente i calendari che
prescrivevano quando fare o non fare qualcosa. Nacquero così i Fasti Diurni che
erano divisi in urbani e rustici, cioè delle città o della campagna; essi
contenevano la date delle cerimonie religiose, dei giudizi, del mercato e di
ogni altra attività. I calendari venivano esposti nel Foro all’inizio del mese,
in modo che il popolo potesse consultarli e sapere cosa e quando farlo,
soprattutto perché il popolo era fondamentalmente analfabeta ed era necessario
renderlo edotto.
Nel 304 a.C. iniziarono ad essere
esposte nel Foro delle tavole di pietra con i Fasti e delle indicazioni sugli
eventi più importanti. Nacque così il Calendario romano, con la settimana
divisa in otto giorni, in cui si distinguevano i giorni Fasti dai giorni
Nefasti, oppure quelli in cui alcune azioni non si potevano compiere prima di
mezzogiorno, dai giorni sacri o per le assemblee, per fare solo alcuni esempi.
Il calendario cittadino era diverso dal calendario rurale, perché in città si
celebravano più sacrifici, cerimonie e feste rispetto al circondario; il
calendario rurale conteneva però notizie agricole necessarie per l’attività.
I Fasti Magistrali, gli Annali o
gli Storici si occupavano delle feste relative alle divinità e alle
magistrature romane, ad esempio delle feste degli imperatori, in loro onore o
per festeggiare compleanni o altre ricorrenze. Vennero detti Magni per
distinguerli dai Fasti Diurni. I Fasti Consolari trattavano, invece, gli eventi
più importanti dell’anno che avessero a che fare con i consoli o con gli alti
magistrati; un esempio sono i Fasti Capitolini.
Nell’antica Roma una delle
maggiori celebrazioni era il Trionfo, cioè la più alta ricompensa per un
militare, che poi aveva diritto all’ovazione, soprattutto destinato a chi non
solo aveva vinto, ma si era distinto per bravura e coraggio. Il Trionfo poteva
essere ottenuto soltanto previa autorizzazione del Senato romano e soltanto se
chi lo richiedeva era stato comandante in capo durante il combattimento o la
battaglia o l’azione militare. Addirittura se i comandanti erano più d’uno,
l’onore doveva essere tributato solamente a colui che, nel giorno della
battaglia decisiva, aveva avuto l’autorità suprema.
Dopo che il Senato aveva
approvato l’onore, il costo del Trionfo era a carico dello Stato. E non solo il
richiedente doveva avere avuto eccezionali doti di comando, ma non doveva
essere entrato nell’Urbe: con le sue truppe doveva essere rimasto fuori dalla
città e attendere la decisione senatoria, spesso sostando con tutti i suoi
uomini al Campo Marzio. Il Trionfo veniva quindi celebrato proprio entrando a
Roma dal Campo Marzio attraversando la Porta Trionfale, passando dal Circo
Massimo, attraversando il Foro e fermandosi davanti al Tempio di Giove
Capitolino.
I Trionfi celebrati sono stati
alcune centinaia.
Il primo ad ottenerlo fu Romolo
intorno al 752 a.C., ma mentre lui celebrò il Trionfo percorrendo la strada a
piedi, i successori lo facevano in cocchio. Probabilmente l’usanza era già
etrusca e i Romani impararono molto in tema di festeggiamenti da quel popolo
guerriero. In breve pertanto il Trionfo divenne la celebrazione della vittoria
del condottiero, sia per terra che per mare, perdendo l’originario significato
di espiazione per il sangue versato. Il significato religioso venne infatti
surclassato dai festeggiamenti per il vittorioso, che ottemperava
all’espiazione spesso donando ingenti bottini di guerra al Tempio di Giove.
La cerimonia era spettacolare,
con il vincitore trionfante che aveva il volto dipinto di rosso per
rassomigliare a Giove Capitolino oppure a Dioniso, indossava un manto rosso,
teneva in mano uno scettro e aveva l’alloro in testa. Il volto dipinto aveva un
significato tribale da fare risalire all’abitudine di spaventare i nemici con
un aspetto terrificante, anche se forse voleva richiamare la lotta e il sangue
versato, il fasto della persona diversa e superiore alle altre.
Il condottiero, quindi, che aveva
atteso prima di entrare in città e poi si era preparato al Trionfo, doveva
compiere dei rituali che magnificavano la sua persona, ma la dovevano anche
rendere degna di entrare a Roma. Per questo doveva passare dall’Arco di Trionfo
e dalla Porta del Trionfo, gesto di espiazione e di purificazione per il sangue
versato, ma che comunque assumeva il senso di celebrazione dell’eroe per
l’eternità, su modello greco dell’eroe, che poteva accedere al mondo beato dei
Campi Elisi per sempre. Modo cioè di restare nella memoria dei posteri e
pertanto eterni, per sempre ricordati, immortali nelle e per le gesta compiute.
Sotto l’Arco e la Porta potevano
passare solo gli eroi: poterlo fare era il coronamento di un riconoscimento che
era già avvenuto in battaglia, con il comando. I Legionari romani avevano poi
reso consuetudine l’onore delle armi chiesto agli Iberi sconfitti e quindi nei
Trionfi passare sotto l’Arco di Trionfo era ricevere tale onore. Il celebrato
spesso aveva sul capo una corona d’alloro, simbolo di pace e inerente sempre a
pratiche espiatorie: chi aveva la corona d’alloro sul capo veniva equiparato a
Giove.
L’alloro veniva usato nei Trionfi
perché era sacro ad Apollo in quanto unico tra tutti gli alberi e mai colpito
da un fulmine.
Anche durante la Repubblica
rimase l’uso di celebrare il Trionfo del condottiero, ma questi doveva
chiederlo al Senato e doveva dimostrare di avere ucciso almeno cinquemila
nemici. La leggenda vuole che le teste dei nemici uccisi dovessero essere
infisse su dei pali e portate in sfilata davanti alla casa del vincitore fino
al Foro, dove i pali venivano infissi a terra e le teste lasciate decomporsi.
L’usanza era chiamata Negatio Capitis, molto pericolosa perché la
decomposizione delle teste non soltanto portava un insopportabile fetore, ma
rendeva anche facile il diffondersi del colera.
In realtà sembra che le teste
venissero bruciate l’indomani del Trionfo. Tra i Trionfi più spettacolari sono
giunte fino a noi notizie di quello fatto per Pompeo vittorioso su Mitridate
nel 61 a.C., o per Cesare al quale fu concesso per la vittoria sui pompeiani di
Spagna.
Il primo Trionfo in epoca
repubblicana fu deciso dal popolo romano nel 449 a.C. I Romani andarono contro
Equi e Volsci uniti, e contro i Sabini, e i generali riuscirono a vincere
entrambi gli schieramenti. Mentre il Senato doveva decidere il giorno dei
festeggiamenti, il popolo celebrò il Trionfo, a sottolineare l’impresa eroica
portata a termine. I consoli convocarono il Senato al Campo Marzio, ma i
senatori si rifiutarono di riunirsi passando davanti alla gente in armi; allora
i consoli convocarono il Senato ai Prati Flamini, ma ancora i senatori negarono
il Trionfo per non dare troppo lustro ai due consoli che dovevano essere
trionfali. Davanti alla prova di forza del Senato, che temeva un colpo di Stato
in chiave monarchica, il popolo decretò il Trionfo, a sottolineare la forte
democrazia di quel tempo della Repubblica romana.
In epoca imperiale, invece, i
generali combattevano agli ordini dell’imperatore, quindi spettavano a lui gli
onori e i Trionfi per le vittorie. I vincitori sul campo ricevevano una toga
ricamata e colorata, la corona d’alloro e in mano reggevano lo scettro, oppure
un ramo di alloro tenuto con la mano destra.
Il corteo era guidato dal Senato
dietro al quale c’erano i musici con corni e trombe; era l’annuncio dei carri
che portavano le ricchezze ottenute vincendo la guerra, il bottino che poteva
essere disposto su apposite portantine. Dietro ancora c’erano i sacerdoti con
le bestie destinate al sacrificio, poi i vessilli e gli emblemi delle schiere
dei soldati, con i trofei sottratti al nemico. I littori annunciavano il
trionfatore sul suo carro. Sfilavano anche i militari, o Legionari, che avevano
ottenuto il successo in combattimento.
Nel Trionfo sfilavano anche i prigionieri di guerra, persone di ogni lignaggio
che dovevano dimostrare come il vincitore avesse piegato il nemico. Una volta
concluso il Trionfo essi venivano incarcerati, oppure uccisi. Molti si
sottraevano a quel crudele rito suicidandosi. Quindi, sfilava il trionfatore,
adorno della veste e dell’alloro, su un carro trainato da quattro cavalli
bianchi; andava in Campidoglio attraversando la città con i senatori e la folla
vestiti di bianco, la città tutta addobbata. Accanto al trionfatore i suoi
parenti e i suoi amici più cari.
Una volta arrivato sul
Campidoglio venivano sacrificati due buoi e da lì il festeggiato ordinava di
mettere in carcere o di uccidere i prigionieri; metteva poi una corona d’alloro
sulla testa della statua di Giove e lì si fermava a banchettare. Il rituale
seguiva quello stesso del Trionfo che non si poteva celebrare in caso si fosse
combattuta una guerra civile e comunque la guerra doveva avere rispettato un
preciso rituale, essendo combattuta contro un giusto nemico. Si doveva cercare
in tutti i modi di evitare la guerra e bisognava dimostrare che fosse
inevitabile quando si decideva di combattere, pertanto non si doveva guerreggiare
per essere poi portati in Trionfo. Per essere un nemico giusto, questi non
doveva appartenere alla popolazione romana, a meno che non fosse ladrone o
pirata.
Era in uso anche fare sfilare in
Trionfo le tavole con scolpiti i nomi dei vinti e le rappresentazioni delle
città sconfitte e conquistate, oppure scene di episodi importanti della guerra.
La riproduzione della Sardegna, ad esempio, era su una tavola che seguiva Tito
Sempronio Gracco nel suo Trionfo come conquistatore dell’isola nel 176 a.C.
Si iniziarono poi a comporre i
Trionfi a memoria degli eventi e potevano essere armi o armature, marmi con
scolpito il nome del vincitore che poi venivano posti sui portali. Le stesse
armi sottratte ai vinti venivano poste all’esterno della casa del vincitore,
spesso dopo che erano state fatte sfilare durante i festeggiamenti.
Nel tempo i modi di festeggiare
il Trionfo cambiarono, come per esempio quando Ottaviano concesse di celebrare
il Trionfo soltanto ai membri della sua famiglia, così come ci furono generali
che sfilarono in Trionfo in nome dell’imperatore. Se tuttavia il Senato negava
il Trionfo pubblico, il vincitore poteva recarsi senza autorizzazione al tempio
di Giove Laziale, sul monte Albano, come successe per la prima volta nel 231 a.C.
Poteva sussistere un’altra forma
di celebrare il Trionfo che veniva chiamata ovatio, una forma di Trionfo
minore. Il generale vittorioso entrava a Roma a piedi, indossando una toga
semplice, senza scettro e con una corona di mirto in testa anziché una corona
d’alloro. Spesso veniva seguito dalla folla, ma non dai suoi soldati. La
cerimonia si concludeva con il sacrificio di una pecora invece che di un toro.
La sofferenza come valore morale
Nell’antica Roma si credeva che
per essere degni di appartenere al popolo romano si dovesse saper essere forti,
operare da forti e saper soffrire per la Patria. Morire per la Patria era
l’aspirazione massima, il massimo valore che un uomo potesse avere, più ancora
di essere sapiente, di saper costruire e di saper creare opere. Il senso
dell’onore, poi, era fondamentale valore per essere uomo e considerare se
stesso tale, così come grazie ad esso si otteneva il rispetto degli altri. La
storia di Muzio Scevola, famoso per l’aneddoto che lo ricorda, ha proprio
questo aspetto come basilare. Caio Muzio Scevola, durante l’assedio di Roma da
parte degli Etruschi, propose di andare da solo nell’accampamento etrusco per
uccidere il loro re Porsenna; l’azione gli riuscì, però per errore uccise il
Ministro anziché il Sire, come si giustificò in sua presenza una volta che fu
catturato. Per punirsi dell’errore, davanti a tutti mise la mano destra che
aveva ucciso per errore lo scriba, su un braciere e, senza un lamento, la
lasciò ustionare. Porsenna, impressionato dall’ardore del giovane, lo lasciò
libero e, malgrado le sofferenze per la mano completamente ustionata, Muzio
Scevola avvisò il Re che lui era solo uno dei tanti Romani che sarebbero andati
a cercarlo per ucciderlo, e questa sua coraggiosa affermazione condusse alle
trattative di pace. Sembra che Porsenna avesse comandato Roma per circa due
anni, ma che la lasciò senza apparente motivo: forse la leggenda e la storia si
unirono intorno a vari fatti tra i quali l’eroismo di certo non mancava.
I Centurioni romani erano
sottufficiali della fanteria dei Legionari e tutti, di qualsiasi lignaggio
fossero, potevano aspirare a diventare Centurioni, cioè militari di carriera;
solitamente questa era dovuta a varie azioni in battaglia che permettevano al
Legionario di migliorare la propria posizione nell’esercito e, grazie al
valore, poteva aspirare a raggiungere ampi successi personali. L’impero doveva
avere sempre circa 1.800 Centurioni valorosi e pronti a tutto, capaci di farsi
rispettare dai sottoposti e di farsi temere e ammirare dai nemici. Quando un
soldato veniva promosso Centurione poteva comandare una centuria e quando
avesse avuto il comando della centuria della I coorte, sarebbe stato a capo
della più importante. Durante l’epoca imperiale si poteva diventare Centurioni
anche dopo essere stati Pretoriani, cioè una guardia personale dell’imperatore,
oppure per nomina diretta dell’imperatore stesso di uomini di fiducia, o che si
erano distinti per qualche impresa particolare.
Il Centurione era capace di
difendersi in battaglia, ma anche di trovare espedienti utili al successo della
sua Legione o dell’esercito Romano. Quando cadeva in battaglia un Centurione,
di certo succedeva per eroismo estremo o estremo sacrificio, e il suo valore lo
conduceva direttamente nei Campi Elisi, dove la sua anima poteva vivere per
l’eternità.
Un altro esempio di eroismo è
dato da Marco Attilio Regolo, personaggio della plebe romana che fu eletto
console nel 267 a.C. e combatté al comando delle Legioni romane contro le città
stato greche sconfiggendo Pirro, il re dell’Epiro. La vittoria portò alla
conquista del Salento fino a Taranto. Le vittorie permisero ad Attilio Regolo
di avere un Trionfo a Roma. Venne rinominato console ancora nel 256 a.C.,
durante la prima guerra punica contro Cartagine. Lo scontro navale tra la
flotta romana e quella cartaginese fu forse una delle più grandi battaglie in
mare della storia, e fu vinta dai Romani. I Cartaginesi si arresero senza
condizioni e così Attilio Regolo poté sbarcare in territorio nemico, fino alla
conquista di Tunisi. Le sue vittorie finirono nelle cronache che parlavano di
migliaia di nemici uccisi e di un eroismo senza precedenti, ma non avendo
concesso la richiesta pace ai Cartaginesi, causò l’alleanza di questi con altri
nemici di Roma e la sconfitta romana seguente. Regolo volle forzare la mano per
impedire macchinazioni politiche che potevano metterlo in ombra e ciò causò la
sua fine. Chi lo volle ucciso in battaglia, chi prigioniero per anni dei nemici
e poi inviato a Roma per trattare la pace, la storia di Attilio Regolo è
ammantata di leggenda, così come è stata cantata la terribile fine in una botte
irta di chiodi fatta rotolare da una collina fino al mare, dopo essere stato
sottoposto a crudeli torture. Egli fu per sempre esempio di fedeltà alla Patria
fino alla morte.
La
figura di Giulio Douhet
Nella celebrazione del centenario
del Milite Ignoto italiano, che cade quest’anno, è stata riscoperta la figura
di Giulio Felice Giovanni Battista Douhet, casertano del 1869, cresciuto in un
clima familiare militare per le origini savoiarde della famiglia, in cui il
padre era farmacista dell’Esercito regio e poi seguace dell’Unità italiana
quando, nel 1860, la Savoia e Nizza vennero cedute dal Regno di Sardegna alla
Francia. Giulio seguì le orme del padre frequentando l’Accademia Militare di
Modena dove conseguì il grado di sottotenente dei Bersaglieri; poi frequentò
l’Università di Torino laureandosi in Ingegneria.
Impegnato durante la guerra
italo-turca per il controllo della Libia nel 1911, dovendosi occupare del
rapporto sull’utilizzo dell’aviazione da guerra, ipotizzò il beneficio del
bombardamento aereo ad alta quota, dato che proprio il Regio Esercito italiano
impiegò gli aerei per bombardare le postazioni turche di Ain Zara, grazie alla
Sezione Aviazione del Battaglione Specialisti del Genio.
Il Servizio Aeronautico verrà
istituito l’anno seguente, con la creazione del Battaglione Aviatori e
l’istituzione della prima scuola di volo a Torino. Giulio Douhet era nel
frattempo stato promosso maggiore e venne nominato comandante del Battaglione
nel 1913: sarà lui ad organizzare le squadriglie e l’apparato logistico
migliore per il buon funzionamento del reparto. Allo stesso tempo, promosse la
realizzazione del primo Museo aeronautico italiano presso il Museo storico del
Genio a Castel Sant’Angelo, a Roma. Sarà Douhet a fare avviare alla ditta
Caproni la costruzione di un bombardiere trimotore, il Ca.31, anche contro il
parere dei colleghi. Le sue posizioni in tema aeronautico, nel quale era
esperto, non venivano apprezzate, e proprio l’autorizzazione personale data per
il Ca.31 lo fece estromettere dall’aviazione.
Venne assegnato alla Fanteria
come Capo di Stato Maggiore della 5^ Divisione con base a Edolo e, allo scoppio
della Grande Guerra, il suo campo operativo sarà il fronte dell’Adamello.
Giulio Douhet non mancò di
insistere sulla necessità di adoperare maggiormente gli aerei per il
bombardamento delle linee nemiche e per cercare di ottenere il massimo controllo
aereo, secondo lui l’unico modo per avere la meglio sul nemico. Parere che, in
linea di massima, trovava contrari i reparti di terra. Le sue lettere ai
superiori continuavano a sostenere quella linea strategica, mentre non
mancavano le sue critiche sulle modalità di conduzione di una guerra che non si
sarebbe potuta vincere continuando a pensare ad attacchi su modello
ottocentesco. In modo particolare, quindi, le critiche riguardavano il Capo di
Stato Maggiore dell’Esercito, il generale Cadorna, e quell’atteggiamento non
favorì le simpatie nei riguardi di Douhet. Infatti, un suo memoriale inviato a
Leonida Bissolati, molto critico rispetto alle scelte strategiche belliche
italiane, venne scoperto e ne causò l’arresto. Douhet subì il processo per
divulgazione di notizie militari riservate e fu condannato ad un anno di
carcere che scontò nel Forte di Fenestrelle fino all’ottobre del 1917 quando,
terminata la pena, venne congedato.
Le necessità militari fecero sì
che fosse necessario richiamarlo nel dicembre successivo, quando gli venne
affidata la direzione dell’Aviazione. La sua indole polemica, quando si trovava
difronte a comportamenti che riteneva sbagliati, lo portarono alle dimissioni
per una questione di commesse di guerra con la ditta fornitrice Ansaldo. Il 4
giugno 1918 la sua carriera militare poteva dirsi finita.
Congedatosi con il grado di
colonnello, a imitazione di iniziative già nate negli altri Paesi coinvolti nel
primo conflitto mondiale, in primis la Francia, Giulio Douhet fondò nel
1920 l’Unione Nazionale Ufficiali e Soldati, proponendo di erigere in ogni
città italiana monumenti a memoria del sacrificio dei soldati in guerra, e fu
sempre lui a ideare per l’Italia un monumento che omaggiasse tutti coloro che
erano caduti in battaglia e di cui non si sapeva né la fine né il luogo di
sepoltura, se la stessa era stata possibile. Pensò quindi al monumento al
Milite Ignoto.
Nel frattempo venne reintegrato
in servizio con il grado di maggiore generale e messo in aspettativa. L’anno
seguente pubblicò per il Ministero della
Guerra il libro “Il dominio dell’aria”, che ebbe molto successo
soprattutto all’estero, nel quale strutturava il suo pensiero sull’importanza
del bombardamento aereo, così come aveva avuto modo ripetutamente di illustrare
ai suoi superiori già negli anni precedenti.
A seguito della marcia su Roma, e
dopo che divenne presidente del Consiglio, Benito Mussolini affidò a Douhet
l’incarico di responsabile dell’Aviazione militare, ma le critiche nei suoi
confronti ripresero, tanto che si dimise dall’incarico; iniziò a scrivere per “Il
Popolo d’Italia” e continuò i suoi studi. Le critiche contro di lui
riguardavano soprattutto l’idea che gli aerei servissero per attaccare e
bombardare, anche con bombe chimiche, e che non fosse possibile o necessaria, o
effettuabile, un’efficace difesa antiaerea; proprio l’idea che con gli attacchi
aerei venisse penalizzata la popolazione civile, comportava nei suoi riguardi
le critiche maggiori. Sempre restando in aspettativa gli venne assegnata la
promozione a Generale di Divisione nel 1923; morì nel 1930 e venne inumato nel
cimitero del Verano, a Roma.
Nel corso degli anni le teorie di
Giulio Douhet relativamente all’impiego degli aerei in guerra furono studiate e
accuratamente analizzate, con azioni e scelte che gli diedero ragione postuma e
ancora detrattori. Ad esempio, fu chiaro l’impatto dell’utilizzo dell’aviazione
in battaglie come quella d’Inghilterra, ma la sola aviazione, anche con i
bombardamenti a tappeto delle città, non fu sufficiente per risolvere un
conflitto complesso e grave come la seconda guerra mondiale. In altri casi
ancora si rivelò non sufficiente l’impiego dei caccia, ma ci furono anche
occasioni che confermarono le idee di Douhet. Pertanto dal punto di vista
aeronautico, la sua visione fu corretta, ma non esaustiva ai fini dell’impiego
aereo in un conflitto. Certamente il suo contributo fu importante, invece, per
la creazione della commemorazione del soldato caduto, simbolo di tutti coloro
che erano morti donando la vita alla propria Patria.
Il concetto di tomba del Milite
Ignoto vide ancora una volta l’Italia leggermente in ritardo rispetto alle
scelte di altri Paesi, non ultima l’Austria che istituì un’apposita Commissione
per riportare in patria i caduti dell’impero sul fronte italiano, ad esempio,
oppure scegliere di lasciarli nei cimiteri di guerra italiani. In ogni caso
anche l’Italia organizzò la traslazione delle salme dei caduti, o dei loro
resti, in più consoni luoghi dove potessero riposare. Questo comportò la
creazione di settori dei cimiteri appositamente dedicati ai soldati morti durante
la prima guerra mondiale; la creazione di ossari o di mausolei allo stesso
scopo, ma dedicati interamente ai soldati; la volontà di scegliere la salma, o
i resti, di un soldato anonimo, di cui non ci fossero riferimenti o alcun segno
di riconoscimento, che rappresentasse il Soldato per eccellenza. Colui che non
combatteva per un encomio o una medaglia. Che addirittura non poteva nemmeno
sperare in una degna sepoltura.
Anche il Regno d’Italia istituì
un’apposita Commissione che andò su vari campi di battaglia a cercare undici
salme di soldati senza nemmeno un segno di riconoscimento, se non la divisa che
li identificava certamente come soldati italiani, per portarle nella chiesa di
Aquileia dove si sarebbe proceduto con la scelta di una di esse. La salma
identificata come quella del Milite Ignoto.
Il Vittoriano
Il luogo deputato ad accogliere
la salma del Milite Ignoto fu identificato con il monumento eretto a Roma, in
Piazza Venezia, in onore di colui che viene considerato il padre della Patria,
l’amato re Vittorio Emanuele II, la cui statua equestre campeggia davanti ad un
monumento di incommensurabile bellezza, eppure molto criticato da più parti.
La costruzione di un monumento
per il Re che aveva condotto l’Unità nazionale, non era stata immune da polemiche
anche feroci, soprattutto per la scelta del tipo di marmo con cui venne
costruito.
Alla morte del re Vittorio
Emanuele II avvenuta nel 1878, seguì un Disegno di Legge depositato da Perroni
Paladini per l’edificazione di un monumento permanente dedicato a colui che
aveva promosso l’unificazione d’Italia e la riappropriazione di territori
dominati da potenze straniere. Sarà pochi giorni dopo il ministro dell’Interno
Giuseppe Zanardelli a depositare un Disegno di Legge in Consiglio dei Ministri,
che venne approvato nel maggio successivo con soltanto dieci voti contrari. Nel
1880 nascerà un’apposita Commissione che si occupò di bandire un concorso
internazionale per il progetto del monumento che sarebbe stato pagato con fondi
pubblici, ai quali si sarebbero aggiunti i soldi raccolti tramite una
sottoscrizione popolare. Il concorso fu vinto dal francese Nénot, su oltre
trecento partecipanti, ma a questo non seguì la fase attuativa del progetto,
perché montò subito la polemica sul fatto che non poteva essere uno straniero
ad occuparsi dell’opera. Inoltre, si scoprì che l’architetto avrebbe voluto
realizzare una versione solo lievemente modificata del suo progetto per la
Sorbona di Parigi. Con la Francia erano poi sorte delle tensioni politiche per
l’occupazione della Tunisia. Avendo visto poi progetti diversissimi tra loro,
da realizzarsi in punti svariati della capitale, venne deciso di bandire un
secondo concorso con già definito il luogo dove sarebbe sorto il monumento.
Anche a questo fecero seguito
delle accese discussioni, con varie proposte di varie zone di Roma, mentre il
presidente del Consiglio Agostino Depretis e altri pensavano alla possibile
realizzazione del progetto dei secondi classificati al primo bando.
Ettore Ferrari e Pio Piacentini
pensavano di edificare il monumento sul Colle del Campidoglio, simbolo
millenario del potere romano. Scegliere il Campidoglio avrebbe non soltanto
reso onore al Re, ma a Roma capitale e, quindi, all’Italia che aveva ritrovato
i suoi fasti antichi. Sarebbe stato, inoltre, costruito un altare civile che
avrebbe equilibrato il potere della Chiesa di Roma, ancora contraria ai fatti
unitari avvenuti e fautrice del non expedit: i liberali avrebbero dato
un significato anche politico alla realizzazione.
La Commissione preposta decretò
quindi che sarebbe stato eretto il monumento sul Campidoglio e a quel punto
ripresero le aspre polemiche, stavolta giustificate dalla necessità di demolire
importanti segni del passato per far posto alla costruzione presente. Segni del
passato non di secondaria importanza, dato che avevano fatto assumere al Colle
il titolo di Monte Capitolino, dove erano stati ospitati gli Archivi di Stato
della Roma antica, simbolo stesso dell’importanza della città. Venne bandito un
nuovo concorso in cui, oltre al luogo preciso dove doveva essere eretto il
monumento, c’erano anche le precise indicazioni di costruzione, come l’utilizzo
del marmo e delle gradinate ascendenti che avrebbero portato al trono sul quale
sarebbe stata posta la statua di Vittorio Emanuele II.
Il concorso venne chiuso nel 1884
e fu necessario un terzo bando per poter decidere tra tre progetti parimenti
valevoli: venne scelto quello di Giuseppe Sacconi, un architetto delle Marche,
che aveva pensato al monumento come ad un moderno Foro su esempio dell’antica
Roma, aperto a tutti i cittadini, sorto su una piazza sopraelevata rispetto
alla città e costruito con tutti i dettagli che sottolineavano la nuova libertà
italiana e la novella Unità. Non soltanto l’elogio al Re, dunque, ma a tutto il
popolo italiano, con molti riferimenti al glorioso Risorgimento. Era previsto
l’uso di marmo e di travertino, ma venne usato marmo di Botticino, più
malleabile di altri marmi italiani che richiedevano anche prezzi più alti
d’acquisto, maggiori anche alla necessità di più chilometri di trasporto. Anche
questa scelta si portò dietro numerose polemiche, dal momento che la pietra
sarebbe arrivata dal Bresciano, zona di appartenenza del ministro Zanardelli.
In realtà anche la scelta architettonica deponeva a favore del marmo di
Botticino, non del bianco assoluto di quello di Carrara e quindi più adatto
allo scopo di rendere il monumento imponente ma non austero, più caldo.
I lavori ufficialmente iniziarono
il primo gennaio 1885 sotto la direzione dello stesso Sacconi che dovette
apportare delle modifiche tecniche al progetto iniziale. Durante i lavori di
scavo vennero riportati alla luce molti reperti antichi che costrinsero ad
adeguamenti del progetto. Inoltre, l’aver rinvenuto cunicoli e gallerie sotterranei,
aveva illuminato Sacconi con l’idea di realizzare spazi interni al Vittoriano,
come stanze e corridoi che verranno in effetti costruiti e che ospiteranno
l’Altare della Patria, il Sacrario delle Bandiere e il Museo del Risorgimento.
Espressamente l’Altare della Patria doveva diventare simbolo laico della città,
con la personificazione di Roma anche tramite le varie statue antiche portate
nel monumento.
Tra il 1885 e il 1899 si
procedette anche all’opera di riqualificazione dell’intero quartiere, con
espropri e demolizioni funzionali a rendere ampia e solenne l’area circostante
il monumento, che così si ergeva su Roma in tutta la sua maestà. Piazza Venezia
venne resa più ampia e simmetrica, rispetto all’impianto urbanistico
preesistente di chiara pianta medievale. Tutto doveva vertere a rendere la
piazza dedicata al Risorgimento grande e solenne, a celebrare l’Unità d’Italia,
anche sacrificando antiche strade di Roma e i quartieri annessi, mentre alcune
aree vennero completamente cambiate nella struttura.
I lavori venivano seguiti
direttamente dal Governo, malgrado fossero molte le voci di protesta elevate a
difesa del passato che non veniva preservato ma abbattuto, perché Roma
assomigliasse sempre più ad una città moderna e all’altezza delle altre
capitali europee. Si ricorda spesso, infatti, l’arretratezza italiana del
tempo, ma senza ricordare anche che gli italiani erano impegnati con il
difficile compito di riportare alla completa appartenenza italica Stati
dominati da stranieri in cui era divisa la Penisola. Ora lo sforzo doveva
compiersi nell’ottica di riportare Roma al centro della magnificenza che
avrebbe rappresentato quella patria.
Un altro concorso venne bandito
dall’apposita Commissione per decidere chi avrebbe realizzato la statua del Re.
La scelta cadde su Enrico Chiradia, poi completata da Emilio Gallori. La statua
fu realizzata per fusione di bronzo utilizzando cannoni dell’Esercito e montata
su un basamento di marmo. Venne pertanto abbandonata l’idea del sovrano in
trono per quella della statua equestre. Altre furono le varianti poste
all’opera fino alla morte di Sacconi avvenuta nel 1905, quando i lavori
passarono ai suoi tre più stretti collaboratori. Infine, la direzione del
cantiere passò a Gaetano Koch, Manfredo Manfredi compagno di studi di Sacconi e
suo caro amico, e Pio Piacentini. I tre elaborarono il progetto finale del
Vittoriano che venne presentato all’Esposizione Internazionale di Milano con un
modello in gesso. Finalmente concluso, il Vittoriano venne inaugurato il 4
giugno 1911 dal re Vittorio Emanuele III, pur se successivamente vennero fatte
altre aggiunte e ampliamenti viari, nell’ambito delle celebrazioni dei
cinquant’anni dell’Unità d’Italia. Presenti, oltre a molti membri della
famiglia reale fra cui la figlia di Vittorio Emanuele II, la deposta regina
madre del Portogallo, il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, reduci
delle guerre del Risorgimento, i garibaldini superstiti, seimila sindaci e
molta popolazione. Il clima fu di rinnovata unità nazionale.
Il Milite Ignoto all’Altare della
Patria
Il 4 novembre 1921 venne sepolta
nel Vittoriano la salma del Milite Ignoto, arrivata in treno da Aquileia dopo
che la pietosa mano della mamma Maria Bergamas l’aveva scelta tra undici.
Dopo aver depositato il Disegno
di Legge alla Camera, nel 1921 venne istituita un’apposita Commissione che ebbe
l’incarico di trovare la salma di chi sarebbe stato il Milite Ignoto per
l’Italia. Vennero decise le zone dove sarebbero stati cercati i poveri resti,
in modo da rappresentare tutte le Forze Armate; la scelta cadde su Rovereto, le
Dolomiti, gli Altipiani, il Monte Grappa, il Montello, il Basso Piave, il
Cadore, Gorizia, il Basso Isonzo, San Michele, il tratto che portava da
Castegnevizza al mare, per garantire di ricordare anche le zone di sbarco della
Marina Militare.
Le salme vennero portate a
Gorizia, per essere poi traslate alla Basilica di Aquileia il 28 ottobre. Maria
Bergamas, la mamma di Gradisca d’Isonzo che avrebbe dovuto scegliere tra le
undici la salma del Milite Ignoto, non era stata scelta a caso. Il suo unico
figlio maschio Antonio era suddito austriaco e si era arruolato nelle file del
Regio Esercito italiano sotto falso nome, dimostrando profondo attaccamento
alla Patria italiana alla quale si sentiva di appartenere. Il sottotenente
Antonio Bergamas era caduto in battaglia nel 1916 e venne sepolto, ma un
violento combattimento sconvolse il territorio della sepoltura al punto che non
si poteva più sapere dove fossero le sue spoglie: per questo motivo venne
dichiarato disperso. Maria quindi rappresentava tutte le mamme che non sapevano
nemmeno dove fosse sepolto il loro figlio. Davanti alle bare allineate nella
chiesa di Aquileia la donna sentì come se in una ci fosse il suo amato figliolo
e rappresentò molte donne, mogli, madri, figlie, sorelle d’Italia in quello
struggente momento. La salma scelta venne posta su un affusto di cannone e
iniziò il viaggio verso Roma, salutata da una folla commossa lungo tutto il
tragitto. Un mesto Trionfo a imitazione antica.
La cerimonia, seguita ad un
viaggio molto partecipato dalla folla intorno ai poveri resti, fu un momento di
grande unità nazionale ancora, dopo le traversie politiche e la Grande Guerra e
nel bel mezzo di un altrettanto devastante biennio rosso, al quale non facevano
mancare sepolture le devastazioni compiute dall’epidemia definita di “spagnola”.
La Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate si ammantava di profondi
significati e in quel Milite Ignoto si identificavano non soltanto i reduci, ma
tutta la Nazione più nobile, da quel momento per sempre con gli onori militari
del picchetto d’onore e le due fiamme ad ardere. Riposo eterno del Milite
Ignoto divenne una cripta sotto alla dea Roma, che ora diventava sacello dal
significato civile e religioso insieme. Davanti alla figura, reale e
allegorica, del Milite Ignoto tutti si riunirono, anche quei membri di partiti
che avevano avversato la guerra inneggiando al neutralismo e che ora si univano
accanto a tutti i “proletari” che avevano dato la vita alla Patria, accanto al
milione di persone intervenute alla cerimonia. Il Vittoriano da quel 1921 è
diventato un tempio laico al sacrificio per la Patria per gli ideali nazionali.
La cripta venne ufficialmente inaugurata il 24 maggio 1935, giorno che
ricordava l’entrata in guerra dell’Italia.
L’ambiente dove riposano le
spoglie del Milite Ignoto si trova sotto la statua di Vittorio Emanuele II in
corrispondenza dell’Altare della Patria, sul quale sporge la parte esterna del
sacello con l’epigrafe “Ignoto Militi”. Nello stesso anno venne
realizzato il Museo del Risorgimento.
Dagli anni Sessanta il monumento
non solo cadde in uno stato di abbandono, ma spesso veniva preso di mira come
effigie di un passato funesto per l’Italia, perdendo tutte le sue
caratteristiche di simbolo dell’identità nazionale, tanto che anche presso il
Vittoriano scoppiò un ordigno nel triste giorno dell’attentato di Piazza
Fontana a Milano, il 12 dicembre 1969. I danni causati dall’attentato portarono
alla chiusura del monumento per circa trent’anni, fino al pensare di
smantellarlo.
Il presidente della Repubblica
Carlo Azeglio Ciampi promosse, durante il suo settennato, la riscoperta e
rivalutazione dei simboli della Patria, tra cui il Vittoriano, opera continuata
dal suo successore Giorgio Napolitano. Le celebrazioni per i 150 anni
dell’Unità d’Italia riportarono fasto al Vittoriano che venne riaperto al
pubblico dopo il restauro.
L’attuale giudizio sull’opera
l’ha rivalutata come esempio dell’arte neoclassica italiana della fine
dell’Ottocento, di chiaro stampo nazionalistico per il neonato Regno d’Italia,
oltre che luogo dove sono custodite molte opere d’arte del passato. In modo
particolare, l’omaggio delle autorità alla tomba del Milite Ignoto
impreziosisce il monumento di forti valori nazionali e morali, ben
rappresentati dalla statue in marmo di Botticino che si trovano sul terrazzo
dell’Altare della Patria, piattaforma sopraelevata del Vittoriano, dominato
dalla statua della dea Roma: sono le statue della Forza, della Concordia, del
Sacrificio e del Diritto che si affiancano a quelle dedicate a Pensiero e
Azione. Ai lati dell’Altare della Patria si apre la scalinata in due rampe
parallele alla tomba del Milite Ignoto alla quale si accede per il Sacrario
delle Bandiere.
In occasione della tumulazione
del Milite Ignoto venne anche scolpito il testo del bollettino di Armando Diaz
che annunciava la resa dell’impero austro-ungarico, la fine della guerra e la
vittoria italiana.
Il primo novembre 1921, mentre la
salma era in viaggio verso Roma, il Milite Ignoto venne insignito della
Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione: “Degno figlio
di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle
trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e
cadde combattendo senz’altro premio sperare che la vittoria e la grandezza
della Patria”.
Sulla porta della cripta dove ne
riposano le spoglie è scritto:
“Ignoto il nome
folgora il suo spirito
dovunque è l’Italia
con voce di pianto e d’orgoglio
dicono innumeri madri:
È
mio figlio”.
Fu l’architetto Armando Brasini a
curare la cripta, un locale a forma di croce greca con la volta a cupola, il
cui accesso è consentito dalle due scale di cui abbiamo scritto. La cripta
consente l’accesso ad un corto cunicolo che porta alla nicchia dov’è la parte
al coperto della tomba, inserito in un arcosolio ispirato agli edifici come le
catacombe. Il soffitto della cripta alterna le volte a crocera alle volte a
botte, con archi a tutto sesto e nicchie, compreso un altare per le
celebrazioni religiose. Le pareti sono decorate a mosaico in stile bizantino da
Giulio Bargellini; sulla tomba la crocifissione di Gesù e sui muri le figure
dei santi protettori delle Forze Armate: san Martino, san Giorgio, san
Sebastiano, santa Barbara. Sulla cupola è raffigurata la Madonna di Loreto.
Oltre ai laterizi, i materiali di costruzione della cripta sono stati
parzialmente ricavati dalle montagne teatro degli scontri della Grande Guerra,
come il Carso e il Monte Grappa.
Il Milite sepolto all’Altare
della Patria rappresentava quel soldato equiparato ad un mero numero che erano
stati tutti i soldati della Grande Guerra, almeno fino al cambiamento al
vertice del Comando Supremo. La mancanza di preparazione alla guerra e la
scarsa coesione tra gli uomini e i loro comandanti, aveva fatto concepire
attacchi senza contare che quel numero di morti di fine giornata era di
persone. Giulio Douhet aveva visto con i propri occhi gli effetti degli ordini
impartiti dall’alto e aveva contestato l’uso delle fucilazioni per mancato
rispetto del regolamento, così come l’inutile massacro di giovani vite. Il
soldato italiano non aveva le conoscenze necessarie alla guerra, spesso era un
contadino analfabeta, ma pensava o sentiva di fare parte di un grande disegno
al quale dedicava la vita, forse per assomigliare a quei soldati di cui
conosceva le gesta risorgimentali ed erano stati i padri o i nonni, eroi agli
occhi dei più. Bisognava rendere onore proprio a quel sacrificio, a quel
concetto di dare la propria vita per meritare le terre, la libertà, la terra da
coltivare che una poi irrealizzata riforma agraria negherà ancora. Onore a
quella parte dell’italica forza che, davanti al dover giocare al tutto per
tutto, faceva unire e combattere, sacrificarsi e resistere per ottenere un
futuro migliore. Al fronte soltanto i migliori comandanti, quelli più a
contatto con i propri soldati, erano capaci di dare loro lodi e incitamento,
sottolineandone il coraggio e i veri e propri atti di eroismo che sommavano
giorno dopo giorno. Divenne però evidente, quando fu possibile fermare il
nemico durante le offensive più dure, che soltanto la motivazione avrebbe
garantito dalla rotta, dato che nessuno avrebbe scommesso sulla resistenza
italiana dopo la Spedizione punitiva e dopo la disfatta di Caporetto. Divenne
evidente che soltanto una profonda motivazione a fare bene, a dimostrare di
valere qualcosa, di voler combattere e battere il nemico per liberare le terre
irredente d’Italia, avrebbe valso la positiva soluzione di quella guerra sempre
più assurda e assurdamente crudele.
Douhet nel proporre l’onore al
Milite Ignoto proponeva anche di dire la verità agli italiani, dimostrando se
il sacrificio di molte vite poteva essere evitato o almeno limitato nei numeri;
spiegando quanto era costato all’Italia vincere la guerra, perché vincere non
bastava, dato che si doveva anche presentare il conto di quella vittoria.
Essendo convinto che molti comandanti si erano arrogati meriti che dovevano
andare soltanto ai loro uomini i quali, sicuramente, sarebbero stati
dimenticati e il cui nome nessuno avrebbe mai conosciuto, riconoscere il Milite
Ignoto al quale sarebbero stati riservati gli onori era un modo per porre
rimedio ad errori del Comando Supremo che erano stati sotto gli occhi di tutti.
L’Italia aveva vinto la guerra nonostante i comandanti militari, nonostante
errori o miopie tattiche. Tuttavia Giulio Douhet avrebbe voluto la tomba del
Milite Ignoto al Pantheon, accanto a Vittorio Emanuele II, accanto ai grandi e
custodito nel silenzio e nella quiete, non trasformato in un monumento di
salita al potere, di ostentazione eterna, di magnificenza. Si espresse pertanto
in modo contrario alle scelte del Governo, pur se il suo progetto era stato
portato a termine.
Conclusioni
Confrontando l’eroismo del
comandante che aveva portato i propri uomini a vincere la battaglia e la
guerra durante l’impero Romano e l’eroismo riconosciuto al Milite Ignoto,
risulta evidente che ci sono delle differenze e dei punti in comune. Il Trionfo
verso il Campidoglio, il fasto dell’ingresso a Roma, l’osanna del popolo
festante, accomuna entrambe le figure, ma una per la festa, l’altra per il
lutto. Da un lato era trionfante chi aveva chiaramente dimostrato l’eroismo,
dall’altra era riconosciuto eroe chi semplicemente aveva partecipato alla
guerra, anche senza sapere bene con che ruolo e se con eroismo o meno. Eppure,
il concetto di Douhet era riconoscere non tanto i comandanti, non in tutti i
casi all’altezza del comando che era stato loro affidato; riconoscere
l’eroicità di sopravvivere e di continuare a credere nella vittoria della Patria
anche quando sembrava più una matrigna che una madre. Sembra sia stato
riconosciuto l’istinto di Patria che era innato nel singolo uomo, non
comandante e non comandato, derivato da quei secoli di sofferenze sulle quali è
nata l’Italia unita. Il condottiero senza nome che era stato eroe o forse vile
pauroso, ma che aveva resistito in trincea, continuando a vivere, a pensare di
fare il proprio dovere. Come gli italiani civili che, mai come durante la
Grande Guerra, erano stati chiamati in causa in toto. Possiamo riconoscere lo
stesso eroismo dei Trionfi antichi? Possiamo dirci degni eredi di quel Trionfo
che domina dalla Turbie? L’estremo saluto al soldato comune nominato Milite
Ignoto è stato degno? Direi che la scelta del Duca d’Aosta di essere sepolto
con i propri uomini nel Sacrario di Redipuglia può rispondere meglio di tante
parole. Senza i propri soldati, neanche il più audace comandante del Romano
impero avrebbe ottenuto il Trionfo sui nemici. Al trono di Giove è stato
portato il sacrificio di un’intera Italia, se non il bottino di guerra, e
l’Unità nazionale era in quel momento il tesoro più importante. Essere uniti,
restare uniti intorno a ciò che rappresenta la Patria: cultura, tradizioni, usi
e costumi che devono essere non solo difesi (non necessariamente con le armi),
ma trasmessi e spiegati come patrimonio incommensurabile che supera barriere ed
ere storiche. L’eroismo non va annacquato, ma insegnato come fondamentale
Educazione Civica: si è eroi con un’arma, così come con una mascherina chirurgica
indossata, quando si è capaci di capire che la propria forza e la propria
libertà giacciono dove comincia il proprio sacrificio per il bene comune.
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