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sabato 23 ottobre 2021

Alessia Biasiolo. Da Fasti Romani a Giulio Douhet. Relazione. Al Convegno del Milite Ignoto Roma 16 ottobre 2021.

                                                   NOTIZIE CESVAM

Relazione al Convegno del Milite Ignoto

                                                        

                                   


                                                             Dai Fasti romani a Giulio Douhet

 

 

Alessia Biasiolo

In questo contributo viene proposta una riflessione sulla concezione che ha portato alla scelta del Milite Ignoto italiano nel 1921, a seguito della prima guerra mondiale, confrontando la figura del soldato/eroe senza nome con  quella del condottiero dell’antico impero romano.

 

L’onore al vincitore

Nell’antica Roma si distinguevano i giorni fasti dai giorni nefasti. Durante i fasti era possibile compiere determinati atti, come contrattare affari senza incorrere nell’empietà, cioè il rischio di commettere un atto contrario agli dei; durante i giorni nefasti, invece, non era possibile riunirsi in assemblee e tribunali e condurre affari. Nel tempo con il termine fasti si intendevano praticamente i calendari che prescrivevano quando fare o non fare qualcosa. Nacquero così i Fasti Diurni che erano divisi in urbani e rustici, cioè delle città o della campagna; essi contenevano la date delle cerimonie religiose, dei giudizi, del mercato e di ogni altra attività. I calendari venivano esposti nel Foro all’inizio del mese, in modo che il popolo potesse consultarli e sapere cosa e quando farlo, soprattutto perché il popolo era fondamentalmente analfabeta ed era necessario renderlo edotto.

Nel 304 a.C. iniziarono ad essere esposte nel Foro delle tavole di pietra con i Fasti e delle indicazioni sugli eventi più importanti. Nacque così il Calendario romano, con la settimana divisa in otto giorni, in cui si distinguevano i giorni Fasti dai giorni Nefasti, oppure quelli in cui alcune azioni non si potevano compiere prima di mezzogiorno, dai giorni sacri o per le assemblee, per fare solo alcuni esempi. Il calendario cittadino era diverso dal calendario rurale, perché in città si celebravano più sacrifici, cerimonie e feste rispetto al circondario; il calendario rurale conteneva però notizie agricole necessarie per l’attività.

I Fasti Magistrali, gli Annali o gli Storici si occupavano delle feste relative alle divinità e alle magistrature romane, ad esempio delle feste degli imperatori, in loro onore o per festeggiare compleanni o altre ricorrenze. Vennero detti Magni per distinguerli dai Fasti Diurni. I Fasti Consolari trattavano, invece, gli eventi più importanti dell’anno che avessero a che fare con i consoli o con gli alti magistrati; un esempio sono i Fasti Capitolini.

Nell’antica Roma una delle maggiori celebrazioni era il Trionfo, cioè la più alta ricompensa per un militare, che poi aveva diritto all’ovazione, soprattutto destinato a chi non solo aveva vinto, ma si era distinto per bravura e coraggio. Il Trionfo poteva essere ottenuto soltanto previa autorizzazione del Senato romano e soltanto se chi lo richiedeva era stato comandante in capo durante il combattimento o la battaglia o l’azione militare. Addirittura se i comandanti erano più d’uno, l’onore doveva essere tributato solamente a colui che, nel giorno della battaglia decisiva, aveva avuto l’autorità suprema.

Dopo che il Senato aveva approvato l’onore, il costo del Trionfo era a carico dello Stato. E non solo il richiedente doveva avere avuto eccezionali doti di comando, ma non doveva essere entrato nell’Urbe: con le sue truppe doveva essere rimasto fuori dalla città e attendere la decisione senatoria, spesso sostando con tutti i suoi uomini al Campo Marzio. Il Trionfo veniva quindi celebrato proprio entrando a Roma dal Campo Marzio attraversando la Porta Trionfale, passando dal Circo Massimo, attraversando il Foro e fermandosi davanti al Tempio di Giove Capitolino.

I Trionfi celebrati sono stati alcune centinaia.

Il primo ad ottenerlo fu Romolo intorno al 752 a.C., ma mentre lui celebrò il Trionfo percorrendo la strada a piedi, i successori lo facevano in cocchio. Probabilmente l’usanza era già etrusca e i Romani impararono molto in tema di festeggiamenti da quel popolo guerriero. In breve pertanto il Trionfo divenne la celebrazione della vittoria del condottiero, sia per terra che per mare, perdendo l’originario significato di espiazione per il sangue versato. Il significato religioso venne infatti surclassato dai festeggiamenti per il vittorioso, che ottemperava all’espiazione spesso donando ingenti bottini di guerra al Tempio di Giove.

La cerimonia era spettacolare, con il vincitore trionfante che aveva il volto dipinto di rosso per rassomigliare a Giove Capitolino oppure a Dioniso, indossava un manto rosso, teneva in mano uno scettro e aveva l’alloro in testa. Il volto dipinto aveva un significato tribale da fare risalire all’abitudine di spaventare i nemici con un aspetto terrificante, anche se forse voleva richiamare la lotta e il sangue versato, il fasto della persona diversa e superiore alle altre.

Il condottiero, quindi, che aveva atteso prima di entrare in città e poi si era preparato al Trionfo, doveva compiere dei rituali che magnificavano la sua persona, ma la dovevano anche rendere degna di entrare a Roma. Per questo doveva passare dall’Arco di Trionfo e dalla Porta del Trionfo, gesto di espiazione e di purificazione per il sangue versato, ma che comunque assumeva il senso di celebrazione dell’eroe per l’eternità, su modello greco dell’eroe, che poteva accedere al mondo beato dei Campi Elisi per sempre. Modo cioè di restare nella memoria dei posteri e pertanto eterni, per sempre ricordati, immortali nelle e per le gesta compiute.

Sotto l’Arco e la Porta potevano passare solo gli eroi: poterlo fare era il coronamento di un riconoscimento che era già avvenuto in battaglia, con il comando. I Legionari romani avevano poi reso consuetudine l’onore delle armi chiesto agli Iberi sconfitti e quindi nei Trionfi passare sotto l’Arco di Trionfo era ricevere tale onore. Il celebrato spesso aveva sul capo una corona d’alloro, simbolo di pace e inerente sempre a pratiche espiatorie: chi aveva la corona d’alloro sul capo veniva equiparato a Giove.

L’alloro veniva usato nei Trionfi perché era sacro ad Apollo in quanto unico tra tutti gli alberi e mai colpito da un fulmine.

Anche durante la Repubblica rimase l’uso di celebrare il Trionfo del condottiero, ma questi doveva chiederlo al Senato e doveva dimostrare di avere ucciso almeno cinquemila nemici. La leggenda vuole che le teste dei nemici uccisi dovessero essere infisse su dei pali e portate in sfilata davanti alla casa del vincitore fino al Foro, dove i pali venivano infissi a terra e le teste lasciate decomporsi. L’usanza era chiamata Negatio Capitis, molto pericolosa perché la decomposizione delle teste non soltanto portava un insopportabile fetore, ma rendeva anche facile il diffondersi del colera.

In realtà sembra che le teste venissero bruciate l’indomani del Trionfo. Tra i Trionfi più spettacolari sono giunte fino a noi notizie di quello fatto per Pompeo vittorioso su Mitridate nel 61 a.C., o per Cesare al quale fu concesso per la vittoria sui pompeiani di Spagna.

Il primo Trionfo in epoca repubblicana fu deciso dal popolo romano nel 449 a.C. I Romani andarono contro Equi e Volsci uniti, e contro i Sabini, e i generali riuscirono a vincere entrambi gli schieramenti. Mentre il Senato doveva decidere il giorno dei festeggiamenti, il popolo celebrò il Trionfo, a sottolineare l’impresa eroica portata a termine. I consoli convocarono il Senato al Campo Marzio, ma i senatori si rifiutarono di riunirsi passando davanti alla gente in armi; allora i consoli convocarono il Senato ai Prati Flamini, ma ancora i senatori negarono il Trionfo per non dare troppo lustro ai due consoli che dovevano essere trionfali. Davanti alla prova di forza del Senato, che temeva un colpo di Stato in chiave monarchica, il popolo decretò il Trionfo, a sottolineare la forte democrazia di quel tempo della Repubblica romana.

In epoca imperiale, invece, i generali combattevano agli ordini dell’imperatore, quindi spettavano a lui gli onori e i Trionfi per le vittorie. I vincitori sul campo ricevevano una toga ricamata e colorata, la corona d’alloro e in mano reggevano lo scettro, oppure un ramo di alloro tenuto con la mano destra.

Il corteo era guidato dal Senato dietro al quale c’erano i musici con corni e trombe; era l’annuncio dei carri che portavano le ricchezze ottenute vincendo la guerra, il bottino che poteva essere disposto su apposite portantine. Dietro ancora c’erano i sacerdoti con le bestie destinate al sacrificio, poi i vessilli e gli emblemi delle schiere dei soldati, con i trofei sottratti al nemico. I littori annunciavano il trionfatore sul suo carro. Sfilavano anche i militari, o Legionari, che avevano ottenuto il successo in combattimento.


Nel Trionfo sfilavano anche i prigionieri di guerra, persone di ogni lignaggio che dovevano dimostrare come il vincitore avesse piegato il nemico. Una volta concluso il Trionfo essi venivano incarcerati, oppure uccisi. Molti si sottraevano a quel crudele rito suicidandosi. Quindi, sfilava il trionfatore, adorno della veste e dell’alloro, su un carro trainato da quattro cavalli bianchi; andava in Campidoglio attraversando la città con i senatori e la folla vestiti di bianco, la città tutta addobbata. Accanto al trionfatore i suoi parenti e i suoi amici più cari.

Una volta arrivato sul Campidoglio venivano sacrificati due buoi e da lì il festeggiato ordinava di mettere in carcere o di uccidere i prigionieri; metteva poi una corona d’alloro sulla testa della statua di Giove e lì si fermava a banchettare. Il rituale seguiva quello stesso del Trionfo che non si poteva celebrare in caso si fosse combattuta una guerra civile e comunque la guerra doveva avere rispettato un preciso rituale, essendo combattuta contro un giusto nemico. Si doveva cercare in tutti i modi di evitare la guerra e bisognava dimostrare che fosse inevitabile quando si decideva di combattere, pertanto non si doveva guerreggiare per essere poi portati in Trionfo. Per essere un nemico giusto, questi non doveva appartenere alla popolazione romana, a meno che non fosse ladrone o pirata.

Era in uso anche fare sfilare in Trionfo le tavole con scolpiti i nomi dei vinti e le rappresentazioni delle città sconfitte e conquistate, oppure scene di episodi importanti della guerra. La riproduzione della Sardegna, ad esempio, era su una tavola che seguiva Tito Sempronio Gracco nel suo Trionfo come conquistatore dell’isola nel 176 a.C.

Si iniziarono poi a comporre i Trionfi a memoria degli eventi e potevano essere armi o armature, marmi con scolpito il nome del vincitore che poi venivano posti sui portali. Le stesse armi sottratte ai vinti venivano poste all’esterno della casa del vincitore, spesso dopo che erano state fatte sfilare durante i festeggiamenti.

Nel tempo i modi di festeggiare il Trionfo cambiarono, come per esempio quando Ottaviano concesse di celebrare il Trionfo soltanto ai membri della sua famiglia, così come ci furono generali che sfilarono in Trionfo in nome dell’imperatore. Se tuttavia il Senato negava il Trionfo pubblico, il vincitore poteva recarsi senza autorizzazione al tempio di Giove Laziale, sul monte Albano, come successe per la prima volta nel 231 a.C.

Poteva sussistere un’altra forma di celebrare il Trionfo che veniva chiamata ovatio, una forma di Trionfo minore. Il generale vittorioso entrava a Roma a piedi, indossando una toga semplice, senza scettro e con una corona di mirto in testa anziché una corona d’alloro. Spesso veniva seguito dalla folla, ma non dai suoi soldati. La cerimonia si concludeva con il sacrificio di una pecora invece che di un toro.

 

La sofferenza come valore morale

Nell’antica Roma si credeva che per essere degni di appartenere al popolo romano si dovesse saper essere forti, operare da forti e saper soffrire per la Patria. Morire per la Patria era l’aspirazione massima, il massimo valore che un uomo potesse avere, più ancora di essere sapiente, di saper costruire e di saper creare opere. Il senso dell’onore, poi, era fondamentale valore per essere uomo e considerare se stesso tale, così come grazie ad esso si otteneva il rispetto degli altri. La storia di Muzio Scevola, famoso per l’aneddoto che lo ricorda, ha proprio questo aspetto come basilare. Caio Muzio Scevola, durante l’assedio di Roma da parte degli Etruschi, propose di andare da solo nell’accampamento etrusco per uccidere il loro re Porsenna; l’azione gli riuscì, però per errore uccise il Ministro anziché il Sire, come si giustificò in sua presenza una volta che fu catturato. Per punirsi dell’errore, davanti a tutti mise la mano destra che aveva ucciso per errore lo scriba, su un braciere e, senza un lamento, la lasciò ustionare. Porsenna, impressionato dall’ardore del giovane, lo lasciò libero e, malgrado le sofferenze per la mano completamente ustionata, Muzio Scevola avvisò il Re che lui era solo uno dei tanti Romani che sarebbero andati a cercarlo per ucciderlo, e questa sua coraggiosa affermazione condusse alle trattative di pace. Sembra che Porsenna avesse comandato Roma per circa due anni, ma che la lasciò senza apparente motivo: forse la leggenda e la storia si unirono intorno a vari fatti tra i quali l’eroismo di certo non mancava.

I Centurioni romani erano sottufficiali della fanteria dei Legionari e tutti, di qualsiasi lignaggio fossero, potevano aspirare a diventare Centurioni, cioè militari di carriera; solitamente questa era dovuta a varie azioni in battaglia che permettevano al Legionario di migliorare la propria posizione nell’esercito e, grazie al valore, poteva aspirare a raggiungere ampi successi personali. L’impero doveva avere sempre circa 1.800 Centurioni valorosi e pronti a tutto, capaci di farsi rispettare dai sottoposti e di farsi temere e ammirare dai nemici. Quando un soldato veniva promosso Centurione poteva comandare una centuria e quando avesse avuto il comando della centuria della I coorte, sarebbe stato a capo della più importante. Durante l’epoca imperiale si poteva diventare Centurioni anche dopo essere stati Pretoriani, cioè una guardia personale dell’imperatore, oppure per nomina diretta dell’imperatore stesso di uomini di fiducia, o che si erano distinti per qualche impresa particolare.

Il Centurione era capace di difendersi in battaglia, ma anche di trovare espedienti utili al successo della sua Legione o dell’esercito Romano. Quando cadeva in battaglia un Centurione, di certo succedeva per eroismo estremo o estremo sacrificio, e il suo valore lo conduceva direttamente nei Campi Elisi, dove la sua anima poteva vivere per l’eternità.

Un altro esempio di eroismo è dato da Marco Attilio Regolo, personaggio della plebe romana che fu eletto console nel 267 a.C. e combatté al comando delle Legioni romane contro le città stato greche sconfiggendo Pirro, il re dell’Epiro. La vittoria portò alla conquista del Salento fino a Taranto. Le vittorie permisero ad Attilio Regolo di avere un Trionfo a Roma. Venne rinominato console ancora nel 256 a.C., durante la prima guerra punica contro Cartagine. Lo scontro navale tra la flotta romana e quella cartaginese fu forse una delle più grandi battaglie in mare della storia, e fu vinta dai Romani. I Cartaginesi si arresero senza condizioni e così Attilio Regolo poté sbarcare in territorio nemico, fino alla conquista di Tunisi. Le sue vittorie finirono nelle cronache che parlavano di migliaia di nemici uccisi e di un eroismo senza precedenti, ma non avendo concesso la richiesta pace ai Cartaginesi, causò l’alleanza di questi con altri nemici di Roma e la sconfitta romana seguente. Regolo volle forzare la mano per impedire macchinazioni politiche che potevano metterlo in ombra e ciò causò la sua fine. Chi lo volle ucciso in battaglia, chi prigioniero per anni dei nemici e poi inviato a Roma per trattare la pace, la storia di Attilio Regolo è ammantata di leggenda, così come è stata cantata la terribile fine in una botte irta di chiodi fatta rotolare da una collina fino al mare, dopo essere stato sottoposto a crudeli torture. Egli fu per sempre esempio di fedeltà alla Patria fino alla morte.

 

La figura di Giulio Douhet

Nella celebrazione del centenario del Milite Ignoto italiano, che cade quest’anno, è stata riscoperta la figura di Giulio Felice Giovanni Battista Douhet, casertano del 1869, cresciuto in un clima familiare militare per le origini savoiarde della famiglia, in cui il padre era farmacista dell’Esercito regio e poi seguace dell’Unità italiana quando, nel 1860, la Savoia e Nizza vennero cedute dal Regno di Sardegna alla Francia. Giulio seguì le orme del padre frequentando l’Accademia Militare di Modena dove conseguì il grado di sottotenente dei Bersaglieri; poi frequentò l’Università di Torino laureandosi in Ingegneria.

Impegnato durante la guerra italo-turca per il controllo della Libia nel 1911, dovendosi occupare del rapporto sull’utilizzo dell’aviazione da guerra, ipotizzò il beneficio del bombardamento aereo ad alta quota, dato che proprio il Regio Esercito italiano impiegò gli aerei per bombardare le postazioni turche di Ain Zara, grazie alla Sezione Aviazione del Battaglione Specialisti del Genio.

Il Servizio Aeronautico verrà istituito l’anno seguente, con la creazione del Battaglione Aviatori e l’istituzione della prima scuola di volo a Torino. Giulio Douhet era nel frattempo stato promosso maggiore e venne nominato comandante del Battaglione nel 1913: sarà lui ad organizzare le squadriglie e l’apparato logistico migliore per il buon funzionamento del reparto. Allo stesso tempo, promosse la realizzazione del primo Museo aeronautico italiano presso il Museo storico del Genio a Castel Sant’Angelo, a Roma. Sarà Douhet a fare avviare alla ditta Caproni la costruzione di un bombardiere trimotore, il Ca.31, anche contro il parere dei colleghi. Le sue posizioni in tema aeronautico, nel quale era esperto, non venivano apprezzate, e proprio l’autorizzazione personale data per il Ca.31 lo fece estromettere dall’aviazione.

Venne assegnato alla Fanteria come Capo di Stato Maggiore della 5^ Divisione con base a Edolo e, allo scoppio della Grande Guerra, il suo campo operativo sarà il fronte dell’Adamello.

Giulio Douhet non mancò di insistere sulla necessità di adoperare maggiormente gli aerei per il bombardamento delle linee nemiche e per cercare di ottenere il massimo controllo aereo, secondo lui l’unico modo per avere la meglio sul nemico. Parere che, in linea di massima, trovava contrari i reparti di terra. Le sue lettere ai superiori continuavano a sostenere quella linea strategica, mentre non mancavano le sue critiche sulle modalità di conduzione di una guerra che non si sarebbe potuta vincere continuando a pensare ad attacchi su modello ottocentesco. In modo particolare, quindi, le critiche riguardavano il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, il generale Cadorna, e quell’atteggiamento non favorì le simpatie nei riguardi di Douhet. Infatti, un suo memoriale inviato a Leonida Bissolati, molto critico rispetto alle scelte strategiche belliche italiane, venne scoperto e ne causò l’arresto. Douhet subì il processo per divulgazione di notizie militari riservate e fu condannato ad un anno di carcere che scontò nel Forte di Fenestrelle fino all’ottobre del 1917 quando, terminata la pena, venne congedato.

Le necessità militari fecero sì che fosse necessario richiamarlo nel dicembre successivo, quando gli venne affidata la direzione dell’Aviazione. La sua indole polemica, quando si trovava difronte a comportamenti che riteneva sbagliati, lo portarono alle dimissioni per una questione di commesse di guerra con la ditta fornitrice Ansaldo. Il 4 giugno 1918 la sua carriera militare poteva dirsi finita.

Congedatosi con il grado di colonnello, a imitazione di iniziative già nate negli altri Paesi coinvolti nel primo conflitto mondiale, in primis la Francia, Giulio Douhet fondò nel 1920 l’Unione Nazionale Ufficiali e Soldati, proponendo di erigere in ogni città italiana monumenti a memoria del sacrificio dei soldati in guerra, e fu sempre lui a ideare per l’Italia un monumento che omaggiasse tutti coloro che erano caduti in battaglia e di cui non si sapeva né la fine né il luogo di sepoltura, se la stessa era stata possibile. Pensò quindi al monumento al Milite Ignoto.

Nel frattempo venne reintegrato in servizio con il grado di maggiore generale e messo in aspettativa. L’anno seguente pubblicò  per il Ministero della Guerra il libro “Il dominio dell’aria”, che ebbe molto successo soprattutto all’estero, nel quale strutturava il suo pensiero sull’importanza del bombardamento aereo, così come aveva avuto modo ripetutamente di illustrare ai suoi superiori già negli anni precedenti.

A seguito della marcia su Roma, e dopo che divenne presidente del Consiglio, Benito Mussolini affidò a Douhet l’incarico di responsabile dell’Aviazione militare, ma le critiche nei suoi confronti ripresero, tanto che si dimise dall’incarico; iniziò a scrivere per “Il Popolo d’Italia” e continuò i suoi studi. Le critiche contro di lui riguardavano soprattutto l’idea che gli aerei servissero per attaccare e bombardare, anche con bombe chimiche, e che non fosse possibile o necessaria, o effettuabile, un’efficace difesa antiaerea; proprio l’idea che con gli attacchi aerei venisse penalizzata la popolazione civile, comportava nei suoi riguardi le critiche maggiori. Sempre restando in aspettativa gli venne assegnata la promozione a Generale di Divisione nel 1923; morì nel 1930 e venne inumato nel cimitero del Verano, a Roma.

Nel corso degli anni le teorie di Giulio Douhet relativamente all’impiego degli aerei in guerra furono studiate e accuratamente analizzate, con azioni e scelte che gli diedero ragione postuma e ancora detrattori. Ad esempio, fu chiaro l’impatto dell’utilizzo dell’aviazione in battaglie come quella d’Inghilterra, ma la sola aviazione, anche con i bombardamenti a tappeto delle città, non fu sufficiente per risolvere un conflitto complesso e grave come la seconda guerra mondiale. In altri casi ancora si rivelò non sufficiente l’impiego dei caccia, ma ci furono anche occasioni che confermarono le idee di Douhet. Pertanto dal punto di vista aeronautico, la sua visione fu corretta, ma non esaustiva ai fini dell’impiego aereo in un conflitto. Certamente il suo contributo fu importante, invece, per la creazione della commemorazione del soldato caduto, simbolo di tutti coloro che erano morti donando la vita alla propria Patria.

Il concetto di tomba del Milite Ignoto vide ancora una volta l’Italia leggermente in ritardo rispetto alle scelte di altri Paesi, non ultima l’Austria che istituì un’apposita Commissione per riportare in patria i caduti dell’impero sul fronte italiano, ad esempio, oppure scegliere di lasciarli nei cimiteri di guerra italiani. In ogni caso anche l’Italia organizzò la traslazione delle salme dei caduti, o dei loro resti, in più consoni luoghi dove potessero riposare. Questo comportò la creazione di settori dei cimiteri appositamente dedicati ai soldati morti durante la prima guerra mondiale; la creazione di ossari o di mausolei allo stesso scopo, ma dedicati interamente ai soldati; la volontà di scegliere la salma, o i resti, di un soldato anonimo, di cui non ci fossero riferimenti o alcun segno di riconoscimento, che rappresentasse il Soldato per eccellenza. Colui che non combatteva per un encomio o una medaglia. Che addirittura non poteva nemmeno sperare in una degna sepoltura.

Anche il Regno d’Italia istituì un’apposita Commissione che andò su vari campi di battaglia a cercare undici salme di soldati senza nemmeno un segno di riconoscimento, se non la divisa che li identificava certamente come soldati italiani, per portarle nella chiesa di Aquileia dove si sarebbe proceduto con la scelta di una di esse. La salma identificata come quella del Milite Ignoto.

 

Il Vittoriano

Il luogo deputato ad accogliere la salma del Milite Ignoto fu identificato con il monumento eretto a Roma, in Piazza Venezia, in onore di colui che viene considerato il padre della Patria, l’amato re Vittorio Emanuele II, la cui statua equestre campeggia davanti ad un monumento di incommensurabile bellezza, eppure molto criticato da più parti.

La costruzione di un monumento per il Re che aveva condotto l’Unità nazionale, non era stata immune da polemiche anche feroci, soprattutto per la scelta del tipo di marmo con cui venne costruito.

Alla morte del re Vittorio Emanuele II avvenuta nel 1878, seguì un Disegno di Legge depositato da Perroni Paladini per l’edificazione di un monumento permanente dedicato a colui che aveva promosso l’unificazione d’Italia e la riappropriazione di territori dominati da potenze straniere. Sarà pochi giorni dopo il ministro dell’Interno Giuseppe Zanardelli a depositare un Disegno di Legge in Consiglio dei Ministri, che venne approvato nel maggio successivo con soltanto dieci voti contrari. Nel 1880 nascerà un’apposita Commissione che si occupò di bandire un concorso internazionale per il progetto del monumento che sarebbe stato pagato con fondi pubblici, ai quali si sarebbero aggiunti i soldi raccolti tramite una sottoscrizione popolare. Il concorso fu vinto dal francese Nénot, su oltre trecento partecipanti, ma a questo non seguì la fase attuativa del progetto, perché montò subito la polemica sul fatto che non poteva essere uno straniero ad occuparsi dell’opera. Inoltre, si scoprì che l’architetto avrebbe voluto realizzare una versione solo lievemente modificata del suo progetto per la Sorbona di Parigi. Con la Francia erano poi sorte delle tensioni politiche per l’occupazione della Tunisia. Avendo visto poi progetti diversissimi tra loro, da realizzarsi in punti svariati della capitale, venne deciso di bandire un secondo concorso con già definito il luogo dove sarebbe sorto il monumento.

Anche a questo fecero seguito delle accese discussioni, con varie proposte di varie zone di Roma, mentre il presidente del Consiglio Agostino Depretis e altri pensavano alla possibile realizzazione del progetto dei secondi classificati al primo bando.

Ettore Ferrari e Pio Piacentini pensavano di edificare il monumento sul Colle del Campidoglio, simbolo millenario del potere romano. Scegliere il Campidoglio avrebbe non soltanto reso onore al Re, ma a Roma capitale e, quindi, all’Italia che aveva ritrovato i suoi fasti antichi. Sarebbe stato, inoltre, costruito un altare civile che avrebbe equilibrato il potere della Chiesa di Roma, ancora contraria ai fatti unitari avvenuti e fautrice del non expedit: i liberali avrebbero dato un significato anche politico alla realizzazione.

La Commissione preposta decretò quindi che sarebbe stato eretto il monumento sul Campidoglio e a quel punto ripresero le aspre polemiche, stavolta giustificate dalla necessità di demolire importanti segni del passato per far posto alla costruzione presente. Segni del passato non di secondaria importanza, dato che avevano fatto assumere al Colle il titolo di Monte Capitolino, dove erano stati ospitati gli Archivi di Stato della Roma antica, simbolo stesso dell’importanza della città. Venne bandito un nuovo concorso in cui, oltre al luogo preciso dove doveva essere eretto il monumento, c’erano anche le precise indicazioni di costruzione, come l’utilizzo del marmo e delle gradinate ascendenti che avrebbero portato al trono sul quale sarebbe stata posta la statua di Vittorio Emanuele II.

Il concorso venne chiuso nel 1884 e fu necessario un terzo bando per poter decidere tra tre progetti parimenti valevoli: venne scelto quello di Giuseppe Sacconi, un architetto delle Marche, che aveva pensato al monumento come ad un moderno Foro su esempio dell’antica Roma, aperto a tutti i cittadini, sorto su una piazza sopraelevata rispetto alla città e costruito con tutti i dettagli che sottolineavano la nuova libertà italiana e la novella Unità. Non soltanto l’elogio al Re, dunque, ma a tutto il popolo italiano, con molti riferimenti al glorioso Risorgimento. Era previsto l’uso di marmo e di travertino, ma venne usato marmo di Botticino, più malleabile di altri marmi italiani che richiedevano anche prezzi più alti d’acquisto, maggiori anche alla necessità di più chilometri di trasporto. Anche questa scelta si portò dietro numerose polemiche, dal momento che la pietra sarebbe arrivata dal Bresciano, zona di appartenenza del ministro Zanardelli. In realtà anche la scelta architettonica deponeva a favore del marmo di Botticino, non del bianco assoluto di quello di Carrara e quindi più adatto allo scopo di rendere il monumento imponente ma non austero, più caldo.

I lavori ufficialmente iniziarono il primo gennaio 1885 sotto la direzione dello stesso Sacconi che dovette apportare delle modifiche tecniche al progetto iniziale. Durante i lavori di scavo vennero riportati alla luce molti reperti antichi che costrinsero ad adeguamenti del progetto. Inoltre, l’aver rinvenuto cunicoli e gallerie sotterranei, aveva illuminato Sacconi con l’idea di realizzare spazi interni al Vittoriano, come stanze e corridoi che verranno in effetti costruiti e che ospiteranno l’Altare della Patria, il Sacrario delle Bandiere e il Museo del Risorgimento. Espressamente l’Altare della Patria doveva diventare simbolo laico della città, con la personificazione di Roma anche tramite le varie statue antiche portate nel monumento.

Tra il 1885 e il 1899 si procedette anche all’opera di riqualificazione dell’intero quartiere, con espropri e demolizioni funzionali a rendere ampia e solenne l’area circostante il monumento, che così si ergeva su Roma in tutta la sua maestà. Piazza Venezia venne resa più ampia e simmetrica, rispetto all’impianto urbanistico preesistente di chiara pianta medievale. Tutto doveva vertere a rendere la piazza dedicata al Risorgimento grande e solenne, a celebrare l’Unità d’Italia, anche sacrificando antiche strade di Roma e i quartieri annessi, mentre alcune aree vennero completamente cambiate nella struttura.

I lavori venivano seguiti direttamente dal Governo, malgrado fossero molte le voci di protesta elevate a difesa del passato che non veniva preservato ma abbattuto, perché Roma assomigliasse sempre più ad una città moderna e all’altezza delle altre capitali europee. Si ricorda spesso, infatti, l’arretratezza italiana del tempo, ma senza ricordare anche che gli italiani erano impegnati con il difficile compito di riportare alla completa appartenenza italica Stati dominati da stranieri in cui era divisa la Penisola. Ora lo sforzo doveva compiersi nell’ottica di riportare Roma al centro della magnificenza che avrebbe rappresentato quella patria.

Un altro concorso venne bandito dall’apposita Commissione per decidere chi avrebbe realizzato la statua del Re. La scelta cadde su Enrico Chiradia, poi completata da Emilio Gallori. La statua fu realizzata per fusione di bronzo utilizzando cannoni dell’Esercito e montata su un basamento di marmo. Venne pertanto abbandonata l’idea del sovrano in trono per quella della statua equestre. Altre furono le varianti poste all’opera fino alla morte di Sacconi avvenuta nel 1905, quando i lavori passarono ai suoi tre più stretti collaboratori. Infine, la direzione del cantiere passò a Gaetano Koch, Manfredo Manfredi compagno di studi di Sacconi e suo caro amico, e Pio Piacentini. I tre elaborarono il progetto finale del Vittoriano che venne presentato all’Esposizione Internazionale di Milano con un modello in gesso. Finalmente concluso, il Vittoriano venne inaugurato il 4 giugno 1911 dal re Vittorio Emanuele III, pur se successivamente vennero fatte altre aggiunte e ampliamenti viari, nell’ambito delle celebrazioni dei cinquant’anni dell’Unità d’Italia. Presenti, oltre a molti membri della famiglia reale fra cui la figlia di Vittorio Emanuele II, la deposta regina madre del Portogallo, il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, reduci delle guerre del Risorgimento, i garibaldini superstiti, seimila sindaci e molta popolazione. Il clima fu di rinnovata unità nazionale.

 

 

Il Milite Ignoto all’Altare della Patria

Il 4 novembre 1921 venne sepolta nel Vittoriano la salma del Milite Ignoto, arrivata in treno da Aquileia dopo che la pietosa mano della mamma Maria Bergamas l’aveva scelta tra undici.

Dopo aver depositato il Disegno di Legge alla Camera, nel 1921 venne istituita un’apposita Commissione che ebbe l’incarico di trovare la salma di chi sarebbe stato il Milite Ignoto per l’Italia. Vennero decise le zone dove sarebbero stati cercati i poveri resti, in modo da rappresentare tutte le Forze Armate; la scelta cadde su Rovereto, le Dolomiti, gli Altipiani, il Monte Grappa, il Montello, il Basso Piave, il Cadore, Gorizia, il Basso Isonzo, San Michele, il tratto che portava da Castegnevizza al mare, per garantire di ricordare anche le zone di sbarco della Marina Militare.

Le salme vennero portate a Gorizia, per essere poi traslate alla Basilica di Aquileia il 28 ottobre. Maria Bergamas, la mamma di Gradisca d’Isonzo che avrebbe dovuto scegliere tra le undici la salma del Milite Ignoto, non era stata scelta a caso. Il suo unico figlio maschio Antonio era suddito austriaco e si era arruolato nelle file del Regio Esercito italiano sotto falso nome, dimostrando profondo attaccamento alla Patria italiana alla quale si sentiva di appartenere. Il sottotenente Antonio Bergamas era caduto in battaglia nel 1916 e venne sepolto, ma un violento combattimento sconvolse il territorio della sepoltura al punto che non si poteva più sapere dove fossero le sue spoglie: per questo motivo venne dichiarato disperso. Maria quindi rappresentava tutte le mamme che non sapevano nemmeno dove fosse sepolto il loro figlio. Davanti alle bare allineate nella chiesa di Aquileia la donna sentì come se in una ci fosse il suo amato figliolo e rappresentò molte donne, mogli, madri, figlie, sorelle d’Italia in quello struggente momento. La salma scelta venne posta su un affusto di cannone e iniziò il viaggio verso Roma, salutata da una folla commossa lungo tutto il tragitto. Un mesto Trionfo a imitazione antica.

La cerimonia, seguita ad un viaggio molto partecipato dalla folla intorno ai poveri resti, fu un momento di grande unità nazionale ancora, dopo le traversie politiche e la Grande Guerra e nel bel mezzo di un altrettanto devastante biennio rosso, al quale non facevano mancare sepolture le devastazioni compiute dall’epidemia definita di “spagnola”. La Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate si ammantava di profondi significati e in quel Milite Ignoto si identificavano non soltanto i reduci, ma tutta la Nazione più nobile, da quel momento per sempre con gli onori militari del picchetto d’onore e le due fiamme ad ardere. Riposo eterno del Milite Ignoto divenne una cripta sotto alla dea Roma, che ora diventava sacello dal significato civile e religioso insieme. Davanti alla figura, reale e allegorica, del Milite Ignoto tutti si riunirono, anche quei membri di partiti che avevano avversato la guerra inneggiando al neutralismo e che ora si univano accanto a tutti i “proletari” che avevano dato la vita alla Patria, accanto al milione di persone intervenute alla cerimonia. Il Vittoriano da quel 1921 è diventato un tempio laico al sacrificio per la Patria per gli ideali nazionali. La cripta venne ufficialmente inaugurata il 24 maggio 1935, giorno che ricordava l’entrata in guerra dell’Italia.

L’ambiente dove riposano le spoglie del Milite Ignoto si trova sotto la statua di Vittorio Emanuele II in corrispondenza dell’Altare della Patria, sul quale sporge la parte esterna del sacello con l’epigrafe “Ignoto Militi”. Nello stesso anno venne realizzato il Museo del Risorgimento.

Dagli anni Sessanta il monumento non solo cadde in uno stato di abbandono, ma spesso veniva preso di mira come effigie di un passato funesto per l’Italia, perdendo tutte le sue caratteristiche di simbolo dell’identità nazionale, tanto che anche presso il Vittoriano scoppiò un ordigno nel triste giorno dell’attentato di Piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre 1969. I danni causati dall’attentato portarono alla chiusura del monumento per circa trent’anni, fino al pensare di smantellarlo.

Il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi promosse, durante il suo settennato, la riscoperta e rivalutazione dei simboli della Patria, tra cui il Vittoriano, opera continuata dal suo successore Giorgio Napolitano. Le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia riportarono fasto al Vittoriano che venne riaperto al pubblico dopo il restauro.

L’attuale giudizio sull’opera l’ha rivalutata come esempio dell’arte neoclassica italiana della fine dell’Ottocento, di chiaro stampo nazionalistico per il neonato Regno d’Italia, oltre che luogo dove sono custodite molte opere d’arte del passato. In modo particolare, l’omaggio delle autorità alla tomba del Milite Ignoto impreziosisce il monumento di forti valori nazionali e morali, ben rappresentati dalla statue in marmo di Botticino che si trovano sul terrazzo dell’Altare della Patria, piattaforma sopraelevata del Vittoriano, dominato dalla statua della dea Roma: sono le statue della Forza, della Concordia, del Sacrificio e del Diritto che si affiancano a quelle dedicate a Pensiero e Azione. Ai lati dell’Altare della Patria si apre la scalinata in due rampe parallele alla tomba del Milite Ignoto alla quale si accede per il Sacrario delle Bandiere.

In occasione della tumulazione del Milite Ignoto venne anche scolpito il testo del bollettino di Armando Diaz che annunciava la resa dell’impero austro-ungarico, la fine della guerra e la vittoria italiana.

Il primo novembre 1921, mentre la salma era in viaggio verso Roma, il Milite Ignoto venne insignito della Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione: “Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde combattendo senz’altro premio sperare che la vittoria e la grandezza della Patria”.

Sulla porta della cripta dove ne riposano le spoglie è scritto:

Ignoto il nome

folgora il suo spirito

dovunque è l’Italia

con voce di pianto e d’orgoglio

dicono innumeri madri:

È  mio figlio”.

Fu l’architetto Armando Brasini a curare la cripta, un locale a forma di croce greca con la volta a cupola, il cui accesso è consentito dalle due scale di cui abbiamo scritto. La cripta consente l’accesso ad un corto cunicolo che porta alla nicchia dov’è la parte al coperto della tomba, inserito in un arcosolio ispirato agli edifici come le catacombe. Il soffitto della cripta alterna le volte a crocera alle volte a botte, con archi a tutto sesto e nicchie, compreso un altare per le celebrazioni religiose. Le pareti sono decorate a mosaico in stile bizantino da Giulio Bargellini; sulla tomba la crocifissione di Gesù e sui muri le figure dei santi protettori delle Forze Armate: san Martino, san Giorgio, san Sebastiano, santa Barbara. Sulla cupola è raffigurata la Madonna di Loreto. Oltre ai laterizi, i materiali di costruzione della cripta sono stati parzialmente ricavati dalle montagne teatro degli scontri della Grande Guerra, come il Carso e il Monte Grappa.

Il Milite sepolto all’Altare della Patria rappresentava quel soldato equiparato ad un mero numero che erano stati tutti i soldati della Grande Guerra, almeno fino al cambiamento al vertice del Comando Supremo. La mancanza di preparazione alla guerra e la scarsa coesione tra gli uomini e i loro comandanti, aveva fatto concepire attacchi senza contare che quel numero di morti di fine giornata era di persone. Giulio Douhet aveva visto con i propri occhi gli effetti degli ordini impartiti dall’alto e aveva contestato l’uso delle fucilazioni per mancato rispetto del regolamento, così come l’inutile massacro di giovani vite. Il soldato italiano non aveva le conoscenze necessarie alla guerra, spesso era un contadino analfabeta, ma pensava o sentiva di fare parte di un grande disegno al quale dedicava la vita, forse per assomigliare a quei soldati di cui conosceva le gesta risorgimentali ed erano stati i padri o i nonni, eroi agli occhi dei più. Bisognava rendere onore proprio a quel sacrificio, a quel concetto di dare la propria vita per meritare le terre, la libertà, la terra da coltivare che una poi irrealizzata riforma agraria negherà ancora. Onore a quella parte dell’italica forza che, davanti al dover giocare al tutto per tutto, faceva unire e combattere, sacrificarsi e resistere per ottenere un futuro migliore. Al fronte soltanto i migliori comandanti, quelli più a contatto con i propri soldati, erano capaci di dare loro lodi e incitamento, sottolineandone il coraggio e i veri e propri atti di eroismo che sommavano giorno dopo giorno. Divenne però evidente, quando fu possibile fermare il nemico durante le offensive più dure, che soltanto la motivazione avrebbe garantito dalla rotta, dato che nessuno avrebbe scommesso sulla resistenza italiana dopo la Spedizione punitiva e dopo la disfatta di Caporetto. Divenne evidente che soltanto una profonda motivazione a fare bene, a dimostrare di valere qualcosa, di voler combattere e battere il nemico per liberare le terre irredente d’Italia, avrebbe valso la positiva soluzione di quella guerra sempre più assurda e assurdamente crudele.

Douhet nel proporre l’onore al Milite Ignoto proponeva anche di dire la verità agli italiani, dimostrando se il sacrificio di molte vite poteva essere evitato o almeno limitato nei numeri; spiegando quanto era costato all’Italia vincere la guerra, perché vincere non bastava, dato che si doveva anche presentare il conto di quella vittoria. Essendo convinto che molti comandanti si erano arrogati meriti che dovevano andare soltanto ai loro uomini i quali, sicuramente, sarebbero stati dimenticati e il cui nome nessuno avrebbe mai conosciuto, riconoscere il Milite Ignoto al quale sarebbero stati riservati gli onori era un modo per porre rimedio ad errori del Comando Supremo che erano stati sotto gli occhi di tutti. L’Italia aveva vinto la guerra nonostante i comandanti militari, nonostante errori o miopie tattiche. Tuttavia Giulio Douhet avrebbe voluto la tomba del Milite Ignoto al Pantheon, accanto a Vittorio Emanuele II, accanto ai grandi e custodito nel silenzio e nella quiete, non trasformato in un monumento di salita al potere, di ostentazione eterna, di magnificenza. Si espresse pertanto in modo contrario alle scelte del Governo, pur se il suo progetto era stato portato a termine.

 

Conclusioni

Confrontando l’eroismo del comandante che aveva portato i propri uomini a vincere la battaglia e la guerra durante l’impero Romano e l’eroismo riconosciuto al Milite Ignoto, risulta evidente che ci sono delle differenze e dei punti in comune. Il Trionfo verso il Campidoglio, il fasto dell’ingresso a Roma, l’osanna del popolo festante, accomuna entrambe le figure, ma una per la festa, l’altra per il lutto. Da un lato era trionfante chi aveva chiaramente dimostrato l’eroismo, dall’altra era riconosciuto eroe chi semplicemente aveva partecipato alla guerra, anche senza sapere bene con che ruolo e se con eroismo o meno. Eppure, il concetto di Douhet era riconoscere non tanto i comandanti, non in tutti i casi all’altezza del comando che era stato loro affidato; riconoscere l’eroicità di sopravvivere e di continuare a credere nella vittoria della Patria anche quando sembrava più una matrigna che una madre. Sembra sia stato riconosciuto l’istinto di Patria che era innato nel singolo uomo, non comandante e non comandato, derivato da quei secoli di sofferenze sulle quali è nata l’Italia unita. Il condottiero senza nome che era stato eroe o forse vile pauroso, ma che aveva resistito in trincea, continuando a vivere, a pensare di fare il proprio dovere. Come gli italiani civili che, mai come durante la Grande Guerra, erano stati chiamati in causa in toto. Possiamo riconoscere lo stesso eroismo dei Trionfi antichi? Possiamo dirci degni eredi di quel Trionfo che domina dalla Turbie? L’estremo saluto al soldato comune nominato Milite Ignoto è stato degno? Direi che la scelta del Duca d’Aosta di essere sepolto con i propri uomini nel Sacrario di Redipuglia può rispondere meglio di tante parole. Senza i propri soldati, neanche il più audace comandante del Romano impero avrebbe ottenuto il Trionfo sui nemici. Al trono di Giove è stato portato il sacrificio di un’intera Italia, se non il bottino di guerra, e l’Unità nazionale era in quel momento il tesoro più importante. Essere uniti, restare uniti intorno a ciò che rappresenta la Patria: cultura, tradizioni, usi e costumi che devono essere non solo difesi (non necessariamente con le armi), ma trasmessi e spiegati come patrimonio incommensurabile che supera barriere ed ere storiche. L’eroismo non va annacquato, ma insegnato come fondamentale Educazione Civica: si è eroi con un’arma, così come con una mascherina chirurgica indossata, quando si è capaci di capire che la propria forza e la propria libertà giacciono dove comincia il proprio sacrificio per il bene comune.

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