APPROFONDIMENTI
Il non-Stato, tribù, clan, ed aggregazioni
Massimo Coltrinari
La tribù più colta e
civile era costituita dai Duranai, stanziati per lo più lungo le
rive dell’Ilmend e fra i monti che esso cingeva nella sua larga curva verso
sud, dall’Argandab e dal Tarnac fino alla solitaria palude di Hamun;
conducevano una vita patriarcale con istituzioni democratiche più o meno
governati da un’antica nobiltà ricca ed influente. I Duranai rivendicavano a sé
soli il nome di Afghan e una mitica origine israelitica, pur riconoscendo la
propria identità di razza e di lingua con le altre tribù che parlavano pashtò
e si chiamavano perciò pashtun.
Tribù particolarmente
bellicosa e potente era invece quella dei Ghilzai, stanziati ad
ovest dei Duranai, dalle rive incassate del Tarnac alla cresta dei monti del
Solimano, dalle steppe del Savistan ai poggi che cingono Cabul; questa tribù,
sebbene suddivisa in 52 chel, conduceva una vita a tratti inquieta e rapace, a
tratti nomade ed a tratti unita in comunità democratiche. I Ghilzai erano i
nemici più pericolosi degli Inglesi, così come si poteva leggere dai bollettini
inglesi provenienti dall’India. Primi ad insorgere durante l’occupazione del
1840, minacciarono continuamente il generale Roberts, la cui linea di
operazione rasentava il lembo settentrionale del loro paese. Superbi del loro
nome, gelosi dei loro monti, rotti ad ogni fatica, cresciuti fra gesta
brigantesche, erano snelli, destri e astuti.
Ghilzai e Duranai, specie
questi ultimi, avevano subito l’influenza della cultura persiana, mentre liberi
ne erano rimasti gli Afghani orientali, che abitavano nella parte a cavallo tra
l’India e l’Afghanistan.
Principalissima è anche
la tribù dei Jusufzai, che abitavano la regione, che dal Lundai
all’Indo si addossava all’Indocush, la massima parte su territorio indiano. Vi
si erano stabiliti cacciando gli indiani e dividendo il territorio a sorte.
Vivevano indipendenti e disprezzavano i vicini che tolleravano sia la
dominazione inglese che la supremazia dell’emiro. Avevano istituzioni repubblicane
ogni villaggio sceglieva il suo capo presso cui la sera si raccoglievano gli
uomini per fumare il Caljan e discutere delle cose pubbliche. Vi erano
assemblee parziali ed assemblee generali delle tribù cui accorrevano tutti gli
Jusufazai armati del lungo coltella afghano, di un fucile qualsiasi e lancia.
Il più anziano le presiedeva ed esse decidevano della pace o della guerra.
Altre tribù di minor
conto erano gli Afridi, i Mohmand, gli Hatac, i
Bangash. I primi erano forse 150 o 160.000: armati sempre del loro lungo
coltello, amavano la vita avventurosa, erano rozzi e insofferenti di giogo. Gli
Inglesi inviavano dai presidi del Penjab frequenti spedizioni contro gli stessi
e contro gli Jusufzai, ma il più delle volte per lasciare nei profondi burroni
dozzine di soldati. Alcuni Afridi, però, andarono a prestare servizio
nell’esercito anglo-indiano. Essi avevano una tendenza marcatissima alle armi
e, una volta arruolati, sapevano essere fedeli e costituivano una fanteria
leggera assai migliore di quella indiana pura. Intorno agli Afridi e lungo la
frontiera anglo-afgana, altre tribù conducevano vita pastorale e quasi
indipendente: tra chi s’assoggettava talvolta al più ricco, talvolta al più
anziano, tra chi riconosceva la signoria dell’emiro di Cabul o dell’imperatrice
Vittoria, c’era anche chi – a contato con le provincie che quantunque annesse
all’impero anglo-indiano – si governava con istituzioni democratiche proprie,
era in qualche modo attratto nella cerchia della potenza inglese. E questi s’arruolavano
volentieri sotto la bandiera anglo-indiana e diventavano buoni soldati,
induriti alla fatica, agili, destri e fedeli montanari.
Era vero che il presidio
inglese del Penjab a volte doveva respingere scorrerie verso le valli, che dai
monti del Solimano scendevano all’Indo, ma è pur vero che i capi afghani
abitando tanto sulle frontiere inglesi, quanto sulle frontiere afghane, hanno
offerto spontaneamente i loro uomini alla Gran Bretagna per combattere
Al di là dei monti, dalla
cresta settentrionale dell’Indocush alle rive dell’Osso, nel cosidette
Turchestan afghano, vivevano invece gli Usbecchi, discendenti da
una di quelle tante razze che in diversi tempi gli Imalaja e l’Indocush avevano
come torrenti di lava vomitato sul mondo: erano quindi di razza tartara e
parlavano tartaro. L’agricoltura li rendeva pacifici e quieti; parecchi erano
nomadi, anche se c’era la tendenza sempre maggiore a radunarsi in villaggi. Davano poco da fare
all’emiro ma non si sentivano legati all’Afghanistan da vincoli di razza, né da
agevoli comunicazioni, né da storiche ricordanze. Naturalmente dalla vicina
Bucaria, subivano l’influenza della Russia, la quale poteva con la sua
flottiglia risalire l’Osso fino all’altezza di Culun.
Ma
Fra la popolazione afgana
vi erano altresì i Tadschic, discendenti dai persiani sottomessi
dagli afgani; vivevano specialmente fra i Duranai, ad oriente della palude di
Hamun, attivi e preservanti, coltivavano i campi e, quantunque vinti, avevano
saputo procacciarsi una certa agiatezza. Una tribù di essi, probabilmente la
più fiera e discendente dalla casta militare, riusciva talvolta incomoda
all’emiro. Forse sui Tadschic faceva qualche assegnamento l’Inghilterra, perché
parecchi di essi si arruolarono nell’esercito anglo indiano, dove sotto il nome
di Turchi[1]
avevano reputazione di buoni soldati.
Infine vi erano i Cafiri,
che abitavano la parte meridionale dell’Afghanistan, cioè le pendenze
meridionali del’Indocusch sopra Cabul, fra le sorgenti del Pansdschir e del
Cunar. Da tempo immemorabile conservavano tra i monti la loro indipendenza
combattendo i maomettani odiati a morte. Un cafiro non prendeva moglie se non
aveva sgozzato almeno un musulmano, e per ogni nemico ucciso soleva portare una
penna al berretto, ornamento invidiato da ragazzi e giovinette.
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