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lunedì 13 maggio 2019

Jesi e la sua storia militare recente II Parte

DIBATTITI
Il 22 giugno 2019 si terrà a Jesi
l'incontro annuale del Club Ufficiali Marchigiani
Nel quadro delle sinergie in essere tra questo Club
e il Cesvam si presenta una nota
 dedicata  ai risvolti militari della cittadina marchigiana
II Parte

di Osvaldo Biribicchi*

Gli anni tra le due guerre
Nel primo dopoguerra, a testimonianza della propria vocazione aviatoria, Jesi ebbe modo di mettersi in evidenza dando assistenza e sostegno alle spedizioni di Nobile al Polo Nord. Di questo prezioso aiuto Nobile fu sempre grato a Jesi. Dopo il brillante successo della transvolata del “Norge”, partito da Roma, che aveva dimostrato che l’Artide era un immenso mare ghiacciato, il grande esploratore ritornato in Italia fra gli onori generali, volle mantenere la promessa di rendere grazie alla Madonna di Loreto, che dal 1920 era stata eletta protettrice della gente dell’Aria. Nel settembre 1926 tornò nelle Marche con prima tappa a Loreto dove visitò il santuario lauretano. Il mattino seguente accompagnato dai suoi familiari si trasferì a Jesi dove trascorse l’intera giornata accolto dalle autorità e dalla cittadinanza. A pranzo fu ospite dello jesino Riccardo Ponzelli, pioniere del volo (nel 1910 aveva preso parte a Buenos Aires alla giornata dell’aviazione in occasione dei festeggiamenti del centenario dell’indipendenza dell’Argentina). In serata, in Municipio fu conferita a Nobile la Cittadinanza onoraria di Jesi, a significare come la città era considerata e si considerava una “culla” o una “città” aeronautica.
Tramontata definitivamente l’epoca dei dirigibili, l’aeroscalo/aeroporto di Jesi fu completamente ristrutturato. Nel 1938 fu demolito il grande Hangar per dirigibili per far posto ad un vero e proprio aeroporto con pista di atterraggio ed elementi di supporto, tanto che divenne uno dei più importanti dell’Italia centrale. Fu intitolato alla memoria del capitano pilota Carlo Simeoni, Caduto in Africa Orientale; ne assunse il comando il capitano pilota Roberto Fiacchino. Questi, nel 1939, durante una visita del Duce, arrivato da Forlì pilotando il suo aereo, fece presente la assoluta mancanza di posti di lavoro nella vallata dell’Esino e prospettò al Capo di Governo la precarietà e la fragilità economico-sociale della vallata. A seguito di quell’incontro si avviò il processo di costruzione dello Stabilimento Savoia-Marchetti Aeronautica Marchigiana, che portò un grosso contributo alla occupazione di maestranze locali. Jesi, grazie anche all’interessamento di personalità della città presso lo stesso Mussolini (peraltro ben orientato anche per il comportamento improntato al massimo valore militare nella guerra d’Etiopia di alcuni jesini), riuscì a vincere la concorrenza di altri centri importanti quali Arezzo, Terni e la stessa Ancona (Falconara e Varano) che si erano attivati per la costruzione della fabbrica di aerei.
La Savoia-Marchetti Aeronautica Marchigiana ebbe vita corta in quanto svolse la sua attività solo per quattro anni; lo stabilimento fu completamente distrutto dall’esercito tedesco in ritirata nel giugno-luglio 1944. Ma il retaggio rimase. Nel dopoguerra le industrie Merloni che fiorirono nella vallata dell’Esino si avvalsero anche dell’esperienza delle maestranze e delle capacità espresse a Jesi per creare quel distretto industriale che fu uno dei fiori all’occhiello della rinascita marchigiana nel secondo dopoguerra.
La Seconda Guerra Mondiale e la Guerra di Liberazione.
I cittadini di Jesi vissero la seconda guerra mondiale come quelli di tutte le altre città italiane. Inizialmente come un diversivo dal quotidiano, nel clima bellicoso del regime, che con il passare del tempo si trasformò in una cosa ben più seria fino ad arrivare alla tragedia della crisi armistiziale del settembre 1943. L’occupazione 

tedesca e l’instaurazione della Repubblica Sociale andò dal settembre 1943 al 20 luglio1944, giorno in cui Jesi ebbe il suo momento culminate da protagonista nella storia del Corpo Italiano di Liberazione. E quindi dell’Esercito Italiano e delle Forze Armate Italiane.
Firmato l’”armistizio lungo” a Malta il 29 settembre 1943, il dramma per l’Italia era rappresentato dalla volontà punitiva inglese di affossare l’Italia in contrapposizione al desiderio statunitense di dare agli Italiani una possibilità di riscatto. Alla fine prevalse pragmaticamente il punto di vista americano nella considerazione che Vittorio Emanuele III ed il Governo Badoglio, avendo firmato l’armistizio, avrebbero rappresentato la giustificazione di ogni azione in Italia degli Alleati che in tal guisa sarebbero stati considerati dei “liberatori” e non “occupatori”. Fu pertanto autorizzata la formazione di una piccola forza combattente da impiegare contro i tedeschi.        I britannici erano dell’opinione che questo poteva diventare un pegno da pagare all’Italia al tavolo del Trattato di Pace che si doveva evitare. L’unico ruolo che Londra riconosceva all’Italia era quello di fornire le cosiddette “divisioni ausiliare”, cioè manovalanza logistica di retrovia. L’Italia doveva essere liberata dai tedeschi senza il concorso degli Italiani.
Per volere degli americani, dopo che il generale Messe ed il generale Berardi rientrati dalla prigionia erano stati messi a capo delle forze armate italiane del Regno del Sud, l’8 dicembre 1943 entrò in combattimento a Montelungo il I Raggruppamento Motorizzato, unità dell’esercito costituita il 27 settembre 1943 e posta al comando del generale Dapino, composto da 5000 uomini di cui solo la metà combattenti. L’attacco non riuscì a conseguire l’obiettivo prefissato e fu ripetuto, questa volta con successo, il 16 dicembre con il supporto degli americani. Dopo questa azione, assunse il comando dell’unità operativa il generale Utili che nel marzo 1944 la guidò con successo in un’altra battaglia importante quella di Monte Marrone. Il 18 aprile 1944, il 1o Raggruppamento Motorizzato cambiò la propria denominazione in Corpo di Liberazione Italiano (C.I.L.) e la propria consistenza passò da 5000 uomini a 25000, ovvero a livello divisionale.
Assegnato al II Corpo Polacco, come terza divisione, accanto alla 3a Divisione “Fucilieri dei Carpazi” ed alla 5a Divisione “Kresowa” il C.I.L. è destinato ad operare con il Corpo Polacco sulla direttrice adriatica. Nel giugno del 1944 il Corpo Italiano di Liberazione era negli Abruzzi, concentrato nell’area Pescara-Chieti. Mentre i polacchi avanzavano lungo la statale 16, via di facilitazione marittima, il Corpo Italiano di Liberazione avanzava per la via pedemontana. Liberò Teramo, poi Ascoli Piceno, entrando nelle Marche, Abbazia di Fiastra e Tolentino, fino a giungere con le sue avanguardie al fiume Potenza. I polacchi, anche loro in progressione verso nord, avevano come obiettivo la liberazione di Ancona e la conquista del suo porto, per alleviare il peso logistico degli Alleati. Ogni cosa doveva essere sbarcata a Brindisi Bari e Taranto e poi portata via terra alle linee che si allungavano sempre di più.
Il 1° luglio le due divisioni polacche, passato il fiume Potenza attaccarono le alture di Loreto e Castelfidardo, con obiettivo Ancona. Era la prima Battaglia per Ancona che si risolse in una sconfitta imprevista. Su 200 carri armati in due giorni ne furono persi oltre 50, senza riuscire a fare progressi di sorta. Il generale Anders, comandante del Corpo Polacco, riconsiderò il piano generale e dovette prendere in considerazione gli italiani, ovvero il Corpo Italiano di Liberazione disseminato dal fiume Potenza all’area di Chieti-Pescara. Il 4 luglio 1944 Anders diede disposizione al Corpo Italiano di Liberazione, che si muoveva “per via ordinaria” cioè a piedi, di concentrarsi sul Potenza per partecipare all’attacco di Ancona previa conquista del crocevia di Filottrano, premessa indispensabile per attaccare 
la piazzaforte dorica. L’attacco fu lanciato l’8 luglio, con criteri totalmente diversi rispetto alle tattiche precedenti in uso presso il Regio Esercito. Per la prima volta cinque battaglioni di fanteria furono sostenuti da dieci gruppi di artiglieria, con un rapporto fanteria-artiglieria di 1 a 2. Mai nei precedenti quattro anni di guerra vi era stato per le forze italiane un simile rapporto. La battaglia di Filottrano si risolse dopo aspri combattimenti il 9 luglio 1944 con la completa vittoria italiana.  Le forze alleate serrarono su Ancona e predisposero un piano di attacco che poneva sullo stesso piano le forze polacche britanniche ed italiane. Il piano prevedeva l’impiego di tre gruppi di forze a livello divisionale: la 5a Divisione doveva attaccare a destra, con compiti di fissaggio ed inganno (asse della statale adriatica 16, essendo la via più breve e facile per giungere ad Ancona); la 3a Divisione polacca doveva attaccare, partendo da Casenove di Osimo secondo la direttrice Polverigi-Agugliano prendere alle spalle lo schieramento tedesco a difesa di Ancona e chiudere l’accerchiamento. Per dare sicurezza e protezione alla 3a Divisione, il Corpo Italiano di Liberazione doveva avanzare su Mazzangrugno e puntare risolutamente su Jesi e conquistarla, costringendo le forze tedesche a retrocedere da tutta l’area dell’anconetano. Classica manovra di Corpo d’Armata, dopo che i polacchi erano stati sconfitti nella I Battaglia di Ancona per aver attaccato con sole due divisioni.
Il 18 luglio 1944 i Lancieri di Carpazia del II Corpo d’Armata polacco grazie al contributo determinante del Corpo Italiano di Liberazione facevano il loro ingresso ad Ancona; due giorni dopo, il mattino del 20 luglio, gli alpini del Battaglione «Piemonte» entrarono dopo duri combattimenti a Jesi. Nell’azione svolta dalle unità italiane il 18 e 19 luglio va ricordato anche l’apporto dato dal battaglione “Bafile” del Reggimento San Marco della Regia Marina.
Gli Alleati, che dopo l’armistizio si erano dimostrati comprensibilmente restii a costituire unità combattenti italiane di una certa consistenza da impiegare contro i tedeschi, dopo il sacrificio ed il valore dimostrato dai soldati del rinato esercito italiano da Montelungo alla conquista di Jesi misero da parte le residuali riserve ed in un clima di manifesta fiducia autorizzarono lo scioglimento del Corpo di Liberazione Italiano e la formazione dei Gruppi di Combattimento (Legnano, Folgore, Cremona, Friuli, Mantova e Piceno; armati ed equipaggiati con materiale inglese) unità di livello divisionale con un organico di 9.500 uomini. Il contributo italiano di combattenti salì pertanto ad oltre 250.000.
Con l’arrivo degli Alleati fu riattivato il porto di Ancona ove iniziarono ad affluire tutti i rifornimenti via mare e costruito un oleodotto per rifornire le unità che avanzavano verso nord, a Falconara furono riattivati gli impianti della raffineria, a Jesi fu ripristinato l’aeroporto distrutto dai tedeschi in ritirata ed allungata la pista per l’atterraggio ed il decollo dei bombardieri. Dopo la fine della guerra, l’aeroporto funzionò fino al 1947. Da quella data l’aeroporto fu via via dismesso fino a che tutta l’area aeroportuale fu messa a disposizione della ZIPA.
Jesi, con la chiusura dell’aeroporto ha perso la sua caratteristica di città “aeronautica” assunta agli inizi del Novecento e ha perso anche la connotazione di città militare, non essendovi stanziato alcun reparto delle tre forze armate. Tuttavia il monumento ai Caduti di Jesi in tutte le guerre rappresenta non solo la silenziosa testimonianza del glorioso passato militare della città ma anche la testimonianza di quelle virtù civiche che unite a tenacia, laboriosità e senso pratico hanno consentito agli jesini, dopo ogni guerra, di risollevarsi e riaffermare il proprio valore in tutti gli ambiti, economici e non, contribuendo alla creazione del “modello marchigiano”. 


* Colonnello Membro associato del CESVAM

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