DIBATTITI
Il 22 giugno 2019 si terrà a Jesi
l'incontro annuale del Club Ufficiali Marchigiani
Nel quadro delle sinergie in essere tra questo Club
e il Cesvam si presenta una nota
dedicata ai risvolti militari della cittadina marchigiana
II Parte
di Osvaldo Biribicchi*
Gli
anni tra le due guerre
Nel primo dopoguerra, a
testimonianza della propria vocazione aviatoria, Jesi ebbe modo di mettersi in
evidenza dando assistenza e sostegno alle spedizioni di Nobile al Polo Nord. Di
questo prezioso aiuto Nobile fu sempre grato a Jesi. Dopo il brillante successo
della transvolata del “Norge”, partito da Roma, che aveva dimostrato che
l’Artide era un immenso mare ghiacciato, il grande esploratore ritornato in
Italia fra gli onori generali, volle mantenere la promessa di rendere grazie
alla Madonna di Loreto, che dal 1920 era stata eletta protettrice della gente
dell’Aria. Nel settembre 1926 tornò nelle Marche con prima tappa a Loreto dove
visitò il santuario lauretano. Il mattino seguente accompagnato dai suoi
familiari si trasferì a Jesi dove trascorse l’intera giornata accolto dalle
autorità e dalla cittadinanza. A pranzo fu ospite dello jesino Riccardo
Ponzelli, pioniere del volo (nel 1910 aveva preso parte a Buenos Aires alla
giornata dell’aviazione in occasione dei festeggiamenti del centenario dell’indipendenza
dell’Argentina). In serata, in Municipio fu conferita a Nobile la Cittadinanza
onoraria di Jesi, a significare come la città era considerata e si considerava
una “culla” o una “città” aeronautica.
Tramontata
definitivamente l’epoca dei dirigibili, l’aeroscalo/aeroporto di Jesi fu
completamente ristrutturato. Nel 1938 fu demolito il grande Hangar per
dirigibili per far posto ad un vero e proprio aeroporto con pista di
atterraggio ed elementi di supporto, tanto che divenne uno dei più importanti
dell’Italia centrale. Fu intitolato alla memoria del capitano pilota Carlo
Simeoni, Caduto in Africa Orientale; ne assunse il comando il capitano pilota
Roberto Fiacchino. Questi, nel 1939, durante una visita del Duce, arrivato da
Forlì pilotando il suo aereo, fece presente la assoluta mancanza di posti di
lavoro nella vallata dell’Esino e prospettò al Capo di Governo la precarietà e la
fragilità economico-sociale della vallata. A seguito di quell’incontro si avviò
il processo di costruzione dello Stabilimento Savoia-Marchetti Aeronautica
Marchigiana, che portò un grosso contributo alla occupazione di maestranze
locali. Jesi, grazie anche all’interessamento di personalità della città presso
lo stesso Mussolini (peraltro ben orientato anche per il comportamento
improntato al massimo valore militare nella guerra d’Etiopia di alcuni jesini),
riuscì a vincere la concorrenza di altri centri importanti quali Arezzo, Terni
e la stessa Ancona (Falconara e Varano) che si erano attivati per la costruzione
della fabbrica di aerei.
La Savoia-Marchetti
Aeronautica Marchigiana ebbe vita corta in quanto svolse la sua attività solo
per quattro anni; lo stabilimento fu completamente distrutto dall’esercito
tedesco in ritirata nel giugno-luglio 1944. Ma il retaggio rimase. Nel
dopoguerra le industrie Merloni che fiorirono nella vallata dell’Esino si
avvalsero anche dell’esperienza delle maestranze e delle capacità espresse a
Jesi per creare quel distretto industriale che fu uno dei fiori all’occhiello
della rinascita marchigiana nel secondo dopoguerra.
La
Seconda Guerra Mondiale e la Guerra di Liberazione.
I cittadini di Jesi
vissero la seconda guerra mondiale come quelli di tutte le altre città
italiane. Inizialmente come un diversivo dal quotidiano, nel clima bellicoso
del regime, che con il passare del tempo si trasformò in una cosa ben più seria
fino ad arrivare alla tragedia della crisi armistiziale del settembre 1943. L’occupazione
tedesca e l’instaurazione
della Repubblica Sociale andò dal settembre 1943 al 20 luglio1944, giorno in
cui Jesi ebbe il suo momento culminate da protagonista nella storia del Corpo
Italiano di Liberazione. E quindi dell’Esercito Italiano e delle Forze Armate
Italiane.
Firmato l’”armistizio
lungo” a Malta il 29 settembre 1943, il dramma per l’Italia era rappresentato
dalla volontà punitiva inglese di affossare l’Italia in contrapposizione al
desiderio statunitense di dare agli Italiani una possibilità di riscatto. Alla
fine prevalse pragmaticamente il punto di vista americano nella considerazione
che Vittorio Emanuele III ed il Governo Badoglio, avendo firmato l’armistizio,
avrebbero rappresentato la giustificazione di ogni azione in Italia degli
Alleati che in tal guisa sarebbero stati considerati dei “liberatori” e non “occupatori”.
Fu pertanto autorizzata la formazione di una piccola forza combattente da
impiegare contro i tedeschi. I britannici
erano dell’opinione che questo poteva diventare un pegno da pagare all’Italia
al tavolo del Trattato di Pace che si doveva evitare. L’unico ruolo che Londra
riconosceva all’Italia era quello di fornire le cosiddette “divisioni
ausiliare”, cioè manovalanza logistica di retrovia. L’Italia doveva essere
liberata dai tedeschi senza il concorso degli Italiani.
Per volere degli
americani, dopo che il generale Messe ed il generale Berardi rientrati dalla
prigionia erano stati messi a capo delle forze armate italiane del Regno del
Sud, l’8 dicembre 1943 entrò in combattimento a Montelungo il I Raggruppamento
Motorizzato, unità dell’esercito
costituita il 27 settembre 1943 e posta al comando del generale Dapino, composto
da 5000 uomini di cui solo la metà combattenti. L’attacco non riuscì a conseguire
l’obiettivo prefissato e fu ripetuto, questa volta con successo, il 16 dicembre
con il supporto degli americani. Dopo questa azione, assunse il comando
dell’unità operativa il generale Utili che nel marzo 1944 la guidò con successo
in un’altra battaglia importante quella di Monte Marrone. Il 18 aprile 1944, il
1o Raggruppamento Motorizzato cambiò la propria denominazione in
Corpo di Liberazione Italiano (C.I.L.) e la propria consistenza passò da 5000
uomini a 25000, ovvero a livello divisionale.
Assegnato al II Corpo
Polacco, come terza divisione, accanto alla 3a Divisione “Fucilieri
dei Carpazi” ed alla 5a Divisione “Kresowa” il C.I.L. è destinato ad
operare con il Corpo Polacco sulla direttrice adriatica. Nel giugno del 1944 il
Corpo Italiano di Liberazione era negli Abruzzi, concentrato nell’area
Pescara-Chieti. Mentre i polacchi avanzavano lungo la statale 16, via di
facilitazione marittima, il Corpo Italiano di Liberazione avanzava per la via
pedemontana. Liberò Teramo, poi Ascoli Piceno, entrando nelle Marche, Abbazia
di Fiastra e Tolentino, fino a giungere con le sue avanguardie al fiume Potenza.
I polacchi, anche loro in progressione verso nord, avevano come obiettivo la
liberazione di Ancona e la conquista del suo porto, per alleviare il peso
logistico degli Alleati. Ogni cosa doveva essere sbarcata a Brindisi Bari e
Taranto e poi portata via terra alle linee che si allungavano sempre di più.
Il 1° luglio le due
divisioni polacche, passato il fiume Potenza attaccarono le alture di Loreto e
Castelfidardo, con obiettivo Ancona. Era la prima Battaglia per Ancona che si
risolse in una sconfitta imprevista. Su 200 carri armati in due giorni ne
furono persi oltre 50, senza riuscire a fare progressi di sorta. Il generale
Anders, comandante del Corpo Polacco, riconsiderò il piano generale e dovette
prendere in considerazione gli italiani, ovvero il Corpo Italiano di
Liberazione disseminato dal fiume Potenza all’area di Chieti-Pescara. Il 4
luglio 1944 Anders diede disposizione al Corpo Italiano di Liberazione, che si
muoveva “per via ordinaria” cioè a piedi, di concentrarsi sul Potenza per partecipare
all’attacco di Ancona previa conquista del crocevia di Filottrano, premessa
indispensabile per attaccare
la piazzaforte dorica. L’attacco
fu lanciato l’8 luglio, con criteri totalmente diversi rispetto alle tattiche precedenti
in uso presso il Regio Esercito. Per la prima volta cinque battaglioni di
fanteria furono sostenuti da dieci gruppi di artiglieria, con un rapporto
fanteria-artiglieria di 1 a 2. Mai nei precedenti quattro anni di guerra vi era
stato per le forze italiane un simile rapporto. La battaglia di Filottrano si
risolse dopo aspri combattimenti il 9 luglio 1944 con la completa vittoria
italiana. Le forze alleate serrarono su
Ancona e predisposero un piano di attacco che poneva sullo stesso piano le
forze polacche britanniche ed italiane. Il piano prevedeva l’impiego di tre
gruppi di forze a livello divisionale: la 5a Divisione doveva attaccare a
destra, con compiti di fissaggio ed inganno (asse della statale adriatica 16,
essendo la via più breve e facile per giungere ad Ancona); la 3a Divisione polacca
doveva attaccare, partendo da Casenove di Osimo secondo la direttrice
Polverigi-Agugliano prendere alle spalle lo schieramento tedesco a difesa di
Ancona e chiudere l’accerchiamento. Per dare sicurezza e protezione alla 3a
Divisione, il Corpo Italiano di Liberazione doveva avanzare su Mazzangrugno e
puntare risolutamente su Jesi e conquistarla, costringendo le forze tedesche a
retrocedere da tutta l’area dell’anconetano. Classica manovra di Corpo
d’Armata, dopo che i polacchi erano stati sconfitti nella I Battaglia di Ancona
per aver attaccato con sole due divisioni.
Il 18 luglio 1944 i Lancieri di Carpazia del II Corpo
d’Armata polacco grazie al contributo determinante del Corpo Italiano di
Liberazione facevano il loro ingresso ad Ancona; due giorni dopo, il mattino del
20 luglio, gli alpini del Battaglione «Piemonte» entrarono dopo duri
combattimenti a Jesi. Nell’azione svolta dalle unità italiane il 18 e 19 luglio
va ricordato anche l’apporto dato dal battaglione “Bafile” del Reggimento San
Marco della Regia Marina.
Gli Alleati, che dopo
l’armistizio si erano dimostrati comprensibilmente restii a costituire unità
combattenti italiane di una certa consistenza da impiegare contro i tedeschi,
dopo il sacrificio ed il valore dimostrato dai soldati del rinato esercito
italiano da Montelungo alla conquista di Jesi misero da parte le residuali
riserve ed in un clima di manifesta fiducia autorizzarono lo scioglimento del
Corpo di Liberazione Italiano e la formazione dei Gruppi di Combattimento (Legnano, Folgore, Cremona, Friuli, Mantova e
Piceno; armati ed equipaggiati con materiale inglese) unità di livello divisionale
con un organico di 9.500 uomini. Il contributo italiano di combattenti salì pertanto
ad oltre 250.000.
Con l’arrivo degli
Alleati fu riattivato il porto di Ancona ove iniziarono ad affluire tutti i
rifornimenti via mare e costruito un oleodotto per rifornire le unità che
avanzavano verso nord, a Falconara furono riattivati gli impianti della
raffineria, a Jesi fu ripristinato l’aeroporto distrutto dai tedeschi in
ritirata ed allungata la pista per l’atterraggio ed il decollo dei bombardieri.
Dopo la fine della guerra, l’aeroporto funzionò fino al 1947. Da quella data
l’aeroporto fu via via dismesso fino a che tutta l’area aeroportuale fu messa a
disposizione della ZIPA.
Jesi, con la chiusura
dell’aeroporto ha perso la sua caratteristica di città “aeronautica” assunta
agli inizi del Novecento e ha perso anche la connotazione di città militare,
non essendovi stanziato alcun reparto delle tre forze armate. Tuttavia il
monumento ai Caduti di Jesi in tutte le guerre rappresenta non solo la silenziosa
testimonianza del glorioso passato militare della città ma anche la
testimonianza di quelle virtù civiche che unite a tenacia, laboriosità e senso
pratico hanno consentito agli jesini, dopo ogni guerra, di risollevarsi e riaffermare
il proprio valore in tutti gli ambiti, economici e non, contribuendo alla
creazione del “modello marchigiano”.
* Colonnello Membro associato del CESVAM
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