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giovedì 25 gennaio 2018

I iIbri del Nastro Azzurro n. 5 Russia Parte Terza

PARTE III
L’OPERAZIONE “OSTROGOZSK-ROSSOSCH”


Il grafico mostra la potenza d'urto delle forze attaccanti contro le due divisioni binarie di fanteria italiane


Il 20 dicembre Stalin aveva ordinato al Generale Golikov (Comandante del settore che fronteggiava la 2^ Armata ungherese e il Corpo d’Armata Alpino) di predisporre un’altra offensiva, alla quale era stato dato il nome di Operazione “Ostrogozsk Rossosch”.1
L’obiettivo era quello di circondare e distruggere le unità tedesche, ungheresi e italiane ancora attestate sul medio Don e liberare i tronchi ferroviari LISKI KANTEMIROVKA e LISKI VALUJKI necessari per l’avanzamento dell’esercito sovietico verso KARCOV e il DONEC.
Erano previsti due attacchi principali: uno a nord, contro la 2a Armata ungherese, ed uno a sud, muovendo dalla zona di KANTEMIROVKA, per raggiungere dopo una grande manovra a tenaglia la città di ALEKSCJEVKA. Erano previsti anche quattro attacchi sussidiari, due interni e due esterni a quelli principali. Quelli esterni dovevano puntare su VALUIKI e POKROWSKOJE a sud di ALEKSEJEVKA. Quelli interni avevano come obiettivo a nord KAMENKA e a sud ROSSOSCH, dove il Generale Nasci aveva dispiegato il Comando del Corpo d’Armata Alpino.
Il XXIV Corpo corazzato di Vatutin aveva ridotto l’aeroporto di TAZINSKAJA in un immenso braciere, condannando così alla fame l’Armata di Von Paulus, già allo stremo dentro Stalingrado. I russi erano penetrati per 200 chilometri nello schieramento degli italiani e dei tedeschi ed avevano liberato 1.246 città e villaggi, annientate 11 divisioni e 3 brigate, catturati 60.000 prigionieri e un bottino di 368 aerei, 178 carri armati e 1.927 cannoni. Per il momento i compiti delle armate di Sud Ovest erano terminati. Adesso l’iniziativa toccava a Golikov.
Von Weichs stava abboccando in pieno all’amo che Golikov gli andava porgendo con astuzia e pazienza. La ricognizione aerea e i servizi di informazione lo avevano convinto che i russi si preparavano ad attaccare le posizioni tenute sul Don dalla 2^ Armata ungherese schierata alla sinistra del Corpo d’Armata Alpino. E questo lo aveva indotto a mettere a disposizione degli ungheresi il Gruppo Cramer composto da due divisioni di fanteria tedesche e una divisione corazzata. Il comandante del Gruppo dì Armate B, inoltre, aveva ordinato che la maggior parte delle armi controcarro di cui disponeva il XXIV corpo d’Armata fossero assegnati al Corpo d’Armata Alpino.

Era il 10 gennaio e Gariboldi – che non condivideva affatto le valutazioni del Comandante del Gruppo di Armate B - era dell’opinione che oltre a quella prevista contro gli ungheresi, i russi stavano per scatenare un’offensiva non contro il settore degli alpini, ma contro l’ala meridionale del XXIV Corpo, il cui indebolimento doveva essere evitato a tutti i costi.
Per Von Weichs invece lo schieramento delle fanterie italiane e tedesche bilanciava in quel settore quello dei russi, i quali a suo avviso avevano successo soltanto quando attaccavano con un largo impiego di unità corazzate.
Von Weichs non immaginava che Golikov a sua insaputa aveva concentrato nella zona del XXIV Corpo d’Armata tutte le grandi unità della 3^ Armata Corazzata e schierato, lungo i 65 chilometri del fronte tenuto dal Corpo d’Armata Alpino, soltanto una divisione di fucilieri ad organici ridotti.
Fu questa la mossa vincente dell’offensiva che sarebbe scattata il 13 gennaio, con tre giorni di anticipo rispetto al programma predisposto a Natale.
Il piano russo, aveva come obiettivo l’accerchiamento e l’annientamento delle forze tedesche, ungheresi e italiane schierate nell’area tra OSTROGOZSK e ROSSOSCH. Nello stesso tempo prevedeva di raggiungere le cittadine di REPJEVKA, ALEKSEJEVKA, VALUJKI e URAZOVO per controllare la linea ferroviaria SVOBODA KANTEMIROVKA. Su un fronte di 260 chilometri, Golikov aveva ammassato tre aliquote di forze: a nord, al centro e a sud. In tutto, 11 divisioni e 3 brigate fucilieri, 3 corpi corazzati, un reggimento corazzato e un corpo di cavalleria. Come aveva ribadito ai suoi ufficiali durante un rapporto nel suo Quartier Generale, si trattava di una classica operazione a tenaglia, la cui caratteristica era di effettuare contemporaneamente l’avvolgimento e l’eliminazione delle forze avversarie, in modo da annientarle prima ancora di chiuderle dentro la sacca. Golikov aveva tenuto ben presente quanto era accaduto in dicembre sul Don durante l’offensiva di Vatutin, quando i tedeschi si erano rifiutati di adottare una “difesa elastica”: nell’elaborare il suo piano, aveva puntato sul fatto che von Weichs avrebbe ripetuto lo stesso errore, reso inevitabile dagli ordini di Hitler (come in effetti accadde). In particolare, era convinto che il Comandante del Gruppo di Armate B sarebbe caduto nel tranello che gli stava tendendo. Approfittando delle ore notturne e della nebbia, egli aveva occultato i movimenti facendo credere che l’attacco russo sarebbe partito a VORONEZ.
La Stavka assegnò al Fronte di WORONESH anche la 3^ armata corazzata, oltre a svariate altre unità direttamente dipendenti dal Fronte. Mentre Golikov fu incaricato di frantumare innanzitutto l’armata ungherese per poi procedere all’accerchiamento (compito principale), il compito del Fronte di Sud-ovest era di spingersi avanti sul fianco sud del Fronte di WORONESH, appoggiando il suo sforzo. Considerando che anche le altre grandi unità di Golikov destinate all’operazione furono rinforzate con unità della riserva centrale, le truppe sovietiche si vennero a trovare in vantaggio sull’avversario2.
Venne posta particolare cura anche in alcune misure preparatorie per rendere possibile l’avanzata dietro le linee nemiche superando sia la scarsa mobilità delle truppe russe sia le particolari condizioni invernali3.
Nel rapporto finale che venne inviato a Stalin alla fine della pianificazione da Zukov e Vassilevski il 7 gennaio, si indicavano di massima anche le direttive date alla 3^ armata di Rybalko, il cui asse principale di penetrazione veniva spostato ad ovest della linea ferroviaria KANTEMIROWKA ROSSOSCH, in maniera poi da seguirla senza attraversarla ed avere un riferimento per l’accerchiamento del nemico. Compito fiancheggiante del VII corpo di cavalleria e delle brigate sciatori era la conquista di WALUIKI e URASOWO per assicurare il controllo di questi importanti nodi ferroviari.
Completati i previsti congiungimenti, la 3^ armata corazzata doveva costituire un fronte verso ovest e completare l’accerchiamento delle truppe nemiche nella sacca.
Lo schieramento in atto e la valutazione delle mosse avversarie
Al centro era schierato il Corpo d’Armata alpino con le tre divisioni Tridentina, Vicenza e Cuneense (che, malgrado la scarsità di forze, avevano costruito nei mesi autunnali una linea di resistenza abbastanza robusta) ed un reggimento di artiglieria a cavallo.
A destra del Gruppo d’Armate B, le unità del XXIV Panzer (Pz.) Korps erano ancora schierate su posizioni speditive, senza aver avuto la possibilità di costruire una linea con lavori difensivi, sia per i continui attacchi dei russi, sia perché le condizioni climatiche rendevano difficile questa attività.
La pratica della maskirowka (inganno del nemico) sul fronte del Gruppo d’Armate B fu un successo per il Fronte di Woronesh, che applicò i procedimenti già dall’offensiva di Stalingrado in poi. L’operato della ricognizione aerea tedesca non arrivò a scoprire alcuna particolare concentrazione di truppe sul settore del XXIV Pz.Korps, perché di giorno i mezzi rimanevano occultati e le truppe dovevano stare al coperto, sotto la minaccia della pena di morte.
Al comando del Gruppo d’Armate B erano convinti che i russi avrebbero attaccato le linee tra la 2^ armata ungherese e l’8^ italiana, anche in virtù dell’ormai accettato assioma che i russi avrebbero colpito, con ogni probabilità, solo gli alleati4.
Gariboldi aveva fatto una valutazione diversa e l’8 gennaio aveva scritto al gruppo d’armate per far presente che a suo parere i russi avrebbero avuto maggiori vantaggi attaccando il XXIV Pz. Korps in corrispondenza della brigata Fegelein.


Scatta l’offensiva: lo sfondamento del fronte ungherese e del XXIV Pz. Korps
L’inizio agli attacchi di ricognizione in forze, dopo un’ora di preparazione di artiglieria, fu dato dal Generale Moskalenko alle 10.00 del 12 gennaio 1943 in corrispondenza della testa di ponte di URYW. La fine del bombardamento veniva contraddistinta da una salva di lanciarazzi per far comprendere alla massa della truppa quale fosse il momento in cui muovere all’assalto. I battaglioni di punta di quattro divisioni di fanteria, appoggiati da carri, ebbero ragione abbastanza presto delle posizioni ungheresi, quanto meno sulla loro ala destra.
L’attacco russo contro le linee del XXIV Pz.Korps iniziò il mattino del 14 gennaio sul fronte del gruppo Fegelein e della 27^ Pz.Div., in corrispondenza del Fúhrer Begleit Bataillon, che da questa dipendeva. Col favore della nebbia, carri e fanteria russi si infiltrarono nella linea tedesca e alle 14.30 l’avevano penetrata con circa 20 30 carri che proseguivano verso nord tenendosi ad ovest della linea ferroviaria. Non c’erano riserve per contrattaccarli. Alla 19^ Pz.Div fu ordinato di attaccare sul fianco il nemico che avanzava, ma la divisione era già troppo premuta dai russi. La sera del 14 questa proposta fu inoltrata al gruppo d’armate, con quella di ritirare il XXIV Pz.Korps verso ROSSOSCH. Intanto, parte della 387^ ID era stata accerchiata nel corso della giornata, assieme al Fúhrer Begleit Bataillon ed alla brigata Fegelein.
Solo in serata (alle ore 20.00 ca.), il Gen. Nasci viene vagamente informato dal Gen. Schlemmer (Ufficiale di collegamento tedesco presso il Corpo d’Armata alpino) della penetrazione. Il Comando dell’8^ Armata italiana, sottovalutando palesemente il nemico, emana un ordine che prevede per la 19^ Pz.Div e la 320^ ID di attaccare. Ma la gravità dello sfondamento non è nota nemmeno al Comando del XXIV Pz.Korps. Quella stessa sera, carri russi e fanteria motorizzata piombano di sorpresa sul posto di comando tattico del XXIV Pz.Korps a SHILIN: nello schieramento tedesco si era aperta una falla che, ormai, era impossibile tamponare. Le truppe corazzate russe si trovavano già ad una cinquantina di chilometri sulle retrovie del Corpo d’Armata Alpino, il quale rischiava di essere aggirato anche sulla sinistra per il crollo immediato degli Ungheresi.
L’attacco su Rossosch
Gli avvenimenti incominciarono ad assumere un andamento convulso. Alle 5 del mattino di venerdì 15 gennaio, una formazione di carri armati sovietici piombò su ROSSOSCH sede del Quartier Generale del Corpo d’Armata Alpino. Nasci inviò un messaggio urgente a Gariboldi per segnalargli quell’avvenimento incredibile e chiedere l’intervento degli Stukas tedeschi, i quali un’ora dopo comparvero nel cielo della città bombardando i carri sovietici. ROSSOSCH era rimasta in mani italiane, ma l’incursione si protrasse per una decina di ore fino all’imbrunire. Dei 20 T-34 che avevano preso parte all’operazione, 12 erano stati distrutti mentre altri 8 si erano allontanati verso nord.
Nasci intuendo che a nord e a sud del Corpo d’Armata Alpino il fronte stava crollando, aveva fatto avvertire i comandanti della Tridentina, della Cuneense e della Julia di tenersi pronti a giungere “al più presto e con la maggiore efficienza possibile l’allineamento VALUJKI ROVENKI, per schierarvisi a difesa, fronte a nord est, saldando le proprie forze con le grandi unità tedesche in corso di schieramento in tale zona”. Quell’ordine era stato recapitato integralmente soltanto al Generale Battisti, comandante della Cuneense, mentre i comandanti della Tridentina (Riverberi), della Vicenza (Pascolini), e della Julia (Ricagno) ne avevano avuto una sintesi per telefono, in quanto gli ufficiali incaricati di consegnarlo non erano riusciti a passare tra le maglie dei carri russi. Quanto alle grandi unità tedesche cui Nasci aveva accennato e sulle quali faceva affidamento, esistevano soltanto sulla carta. Nasci, comunque, aveva deciso di trasferire il suo comando a PODGORNOJE per avere più sotto controllo le divisioni ancora schierate sul Don con l’ordine di non arretrare di un palmo. Il giorno dopo, all’alba, un’intera brigata di carri russi suddivisa in tre tronconi ricomparve a ROSSOSCH. Un troncone attaccò i capisaldi del “Cervino”, uno si diresse verso il centro della città, mentre il terzo verso il campo d’aviazione. Due compagnie di alpini appena giunte dall’Italia (la 604^ e 601^), furono sterminate dai T-34, fino all’ultimo uomo. La situazione si aggravava di ora in ora e, dopo soli due giorni dall’inizio dell’offensiva, i russi stavano già sviluppando con successo la manovra avvolgente che li avrebbe portati ad ALEKSEJEVKA, circa 75 chilometri in linea d’aria dal corso del Don.
Alle 20.00 del 15 gennaio il XXIV Pz.Korps inizia il movimento autorizzato di ripiegamento verso KALITWA.

Fino a quel momento, del Corpo d’Armata Alpino soltanto la Divisione Julia era stata impegnata duramente, perché inviata a tamponare la falla che si era aperta sul fronte del II Corpo d’Armata. Le altre, integrate dall’evanescente Vicenza, erano rimaste sul Don, lungo la linea dell’acqua, limitando la loro attività alle azioni di pattuglia oltre il fiume verso le postazioni russe. Ma ora la situazione era precipitata. La guerra si era improvvisamente spostata alle spalle degli alpini, il cui schieramento sul Don stava diventando drammaticamente assurdo. Gli ordini di von Weichs erano inequivocabili, tanto che Gariboldi, ancora alle 16,30 del 16 gennaio, aveva dovuto inviare a Nasci che premeva per un arretramento delle sue divisioni, un laconico fonogramma: “Lasciare la linea del Don senza un preciso ordine è assolutamente proibito. Vi faccio responsabile personalmente dell’esecuzione”. Per colmo di ironia, a causa della confusione che oramai regnava nelle retrovie, quest’ordine sarebbe stato recapitato a Nasci soltanto alle 9 del giorno seguente.
Questo divieto incredibile cadde 24 ore dopo. Un fonogramma di Gariboldi recapitato a Nasci che si era trasferito a PODGORNOJE diceva: “In conseguenza ripiegamento grandi unità ungheresi anche Corpo d’Armata Alpino deve iniziare stasera all’imbrunire noto ripiegamento”.

La ritirata degli Alpini
Le divisioni alpine che avevano lasciato sulle rive del Don alcuni reparti “civetta” per simulare che nulla stava accadendo, incominciarono a ripiegare5: la Tridentina su PODGORNOJE, la Cuneense e la Julia che risaliva da NOVO KALITVA, su POPOVKA, mentre la Vicenza convogliava verso PODGORNOJE e POPOVKA i due tronconi nei quali si era divisa. L’ordine era di dare la precedenza alle armi, alle munizioni, ai carburanti ed ai viveri. Bisognava distruggere tutto quello che non poteva essere caricato sulle camionette, sui muli, sulle slitte. La tenaglia delle divisioni meccanizzate russe però, assieme a reparti corazzati, oramai stritolava i fianchi degli alpini in ritirata, i cui reparti si stavano infilando dentro strade strette e gelate in una enorme confusione.
Il comando del Corpo d’Armata Alpino nel frattempo si era trasferito a OPYT, e Nasci, via radio, aveva assegnato alla Julia e alla Cuneense il compito di puntare su VALUJKI lungo l’itinerario KULESOVA SCELJAKINO. La Vicenza invece doveva risalire verso SAMOJLENKOV per aiutare la Tridentina, prima che i russi riuscissero ad ispessire il catenaccio che avevano chiuso attorno alle divisioni italiane.

La marcia delle quattro divisioni italiane e di tutto il corpo tedesco sulle poche strade disponibili controllate dai russi costringe alla decisione di abbandonare i veicoli che non siano fuoristrada e di sfruttare le doti di mobilità alpine per portarsi verso ovest, cercando di salvare gli elementi essenziali per proseguire, cioè i cannoni anticarro.
Tutti i camion e i mezzi di collegamento del Corpo d’Armata erano stati distrutti, e il comandante degli alpini poteva oramai contare soltanto su una stazione radio tedesca montata su un autocarro semicingolato per rimanere in contatto con Gariboldi. A questo punto gli era chiaro che i russi stavano manovrando sui fianchi per accerchiarlo, accingendosi a sbarrargli la strada verso ovest. Per questo, il 20 gennaio aveva formato un forte scaglione d’avanguardia comandato da Reverberi6.
Gli ordini erano di continuare la marcia senza soste sia pure a prezzo di sforzi sovrumani, prevalentemente di notte per sfuggire agli aerei e ai carri, evitare strade e abitati, separare i reparti che erano in grado di combattere dalle migliaia di fuggiaschi che venivano avanti in disordine intralciando i movimenti della divisione.
Il 21 gennaio Nasci aveva cambiato l’itinerario della ritirata. Gariboldi gli aveva comunicato con un radiogramma che VALUJKI era stata occupata dai russi. Pertanto era NIKITOVKA il nuovo punto di sbocco del Corpo d’Armata Alpino. Nasci per tutta la notte aveva cercato di mettersi in contatto con la Julia e la Cuneense per informarle del cambiamento di programma, ma queste erano già state distrutte7.
Conclusioni
Al fine di individuare alcuni insegnamenti dall’evento storico trattato, si è ritenuto di dover fare riferimento a cinque principi classici dell’arte della guerra: “offensiva (iniziativa)”, “manovra”, massa, “sicurezza” e “sorpresa”.
In merito all’iniziativa, l'8^ Armata (ormai in difensiva da mesi) aveva deciso di riprendere le operazioni per la successiva primavera. Ma tale decisione determinò una sorta di disarmo psicologico fra i Comandi e le truppe8, facendo venir meno i vantaggi di tale principio (l’iniziativa) a causa di un adattamento ai rigidi criteri di difesa statica fissati dal Comando del Gruppo d’Armate. Le intenzioni degli alti comandi erano infatti finalizzate a bloccare i sovietici nelle fasi di attraversamento del Don: in altre parole, gli attacchi nemici dovevano essere stroncati davanti alle linee difensive e solo alcune eccezioni erano tollerate o autorizzate dal Comando Supremo”9. Il venir meno dell’iniziativa precludeva ogni forma di ripiegamento e i reparti dovevano solo preoccuparsi di resistere ad oltranza sul posto, in attesa del “contrattacco liberatore” che, di fatto, non sarebbe mai arrivato. Ed è ciò che venne tenuto ben presente dall'avversario, allorché concepì le varie manovre a tenaglia che provocarono il tracollo delle nostre truppe.
Per quanto attiene alla manovra, in fase difensiva doveva essere realizzata da contrattacchi “istintivi ed immediati”10, facendo uso delle riserve (unità dotate di elevata mobilità). Nel caso in esame, non solo le riserve non erano mobili, ma erano del tutto inesistenti. A livello C.do Div. e C.A, non vi erano riserve precostituite; a livello Armata, la sola Grande Unità inizialmente non schierata sul Don - la Div. “Vicenza” - era indisponibile perché impegnata nella difesa delle retrovie e non aveva artiglierie; la “Celere” - unica Grande Unità motorizzata - era stata impiegata staticamente sul Don; a livello Gruppo Armate nessuna riserva era tempestivamente disponibile e la 385^ Divisione tedesca arriverà in zona a battaglia conclusa; la 21^ Div. tedesca, la sola disponibile a partire dal 15 dicembre, disponeva invece di soli 50 carri. In sintesi, mancando a tutti i livelli la riserva, è mancata la possibilità di mantenere una libertà di manovra, inficiando così sull’efficacia e l’operatività di tutte le unità.
Circa l’impiego della massa, tenuto conto delle poche forze a disposizione in relazione agli enormi settori da presidiare, l'8^ Armata non poteva che schierarsi a cordone sul Don, con il risultato che “l'unica massa che si poteva ottenere era una non massa”.
II dispositivo era estremamente rado, mentre la dottrina dell’epoca prevedeva che una Divisione binaria poteva presidiare un settore di 13,5 km di ampiezza (circa metà settore assegnato alle Divisioni sul Don). Tutte le poche forze disponibili erano quindi proiettate in avanti, sulle posizioni difensive (e ciò spiega anche l’assenza delle riserve anche ai livelli più bassi). Questo fattore offrì al nemico l’opportunità di esercitare con estrema facilità la “sua massa”, trovando ovunque facilità di sfondamento.

Pur pensando di voler esercitare “massa” con il fuoco, ciò non fu possibile in quanto le artiglierie disponibili (insufficienti e obsolete) non potevano realizzare concentrazioni di fuoco massicce e tempestive e le forze aeree (per lo più tedesche) erano concentrate nella fornace di Stalingrado.
La carenza di forze non offrì altresì obiettive garanzie alla sicurezza delle forze. I rapporti di forza erano decisamente a favore del nemico (in termini di battaglioni, il rapporto era di 5:1; in termini di carri armati addirittura di 10:1)
In difesa, specie in presenza di enormi spazi, la dottrina suggeriva di predisporre un dispositivo profondo - o comunque, in previsione di reiterare l'azione in profondità - utilizzando le posizioni più convenienti. In campo logistico, inoltre, il dispositivo doveva essere arretrato, scaglionato in profondità e pronto, se del caso, a ripiegare ulteriormente per non essere coinvolto dalle puntate avversarie. Sul Don, invece, come accennato venne seguito il criterio opposto di proiettare tutto in avanti (anche gli assetti logistici), senza minimamente pensare a predisporre una seconda posizione difensiva (e di tempo, ce ne era stato). Ciò fu determinato da precise disposizioni di Hitler, secondo cui le prime linee dovevano disporre in loco di scorte, viveri, munizioni e materiali pari a due mesi dì autosufficienza, ancorando le truppe sul Don (che, ghiacciato, anziché rappresentare un ostacolo, facilitava i movimenti nemici).
Infine, ancorata a difesa a tempo indeterminato sul Don, appiedata, priva di riserve, con limitate artiglierie e senza “ombrello aereo”, l'8^ Armata non poteva neanche realizzare alcuna forma di sorpresa. In questo campo qualcosa avrebbe potuto essere fatto per disorientare l'avversario: ad esempio, anziché insistere con una resistenza ad oltranza, si sarebbe potuto far cadere nel “vuoto” gli attacchi nemici, attuando un repentino arretramento delle linee difensive. In alternativa, si sarebbe potuto accennare, o quanto meno simulare, un attacco nei punti deboli (settore della 270^ Divisione sovietica che fronteggiava pressoché da sola il Corpo d'Armata alpino). In altre parole, si sarebbe potuto sviluppare un'azione lungo la direttrice Pawlowsk - Werch Mamon per accerchiare tutte le forze sovietiche (pari ad un'Armata) che si erano addensate in corrispondenza del nostro II Corpo d'Armata. La contromanovra tedesca, anche solo abbozzata, avrebbe presentato molti lati favorevoli: il più importante sarebbe stato quello, come già detto, di partire dal vuoto cioè dagli 80 chilometri presidiati dalla sola Divisione che fronteggiava gli alpini. Inoltre, se il Don - ormai gelato - non era più un ostacolo per i russi, non lo sarebbe stato neanche per i tedeschi (certo, l'azione non poteva essere affidata a truppe alpine, appiedate e quindi non idonee ad azioni rapide in pianura, né all'Armata priva com'era di riserve, ma a forze motocorazzate tedesche quali ad esempio le Divisioni inutilmente sottratte al Gruppo Armate e mandate a sacrificarsi a Stalingrado).
Un’ulteriore “lesson learned”: l'unitarietà di comando, in teoria è stato l'unico principio ad essere stato rispettato, anche se in modo esasperato ed accentrato nella figura di Hitler. In tal senso, il vertice della piramide ebbe una visione panoramica della situazione ma perse la sensazione delle concrete possibilità dei reparti sul campo. Soprattutto quando si è in carenza di forze (come lo erano i tedeschi) è essenziale che la situazione sia valutata in loco, perché solo in loco possono essere adottati i migliori e più convenienti correttivi (compreso l’impiego delle riserve), evitando peraltro gli inconvenienti dei ritardi nelle comunicazioni e nell’acquisizione delle informazioni.
Di certo, le condizioni del morale non hanno aiutato il corso degli eventi. Le motivazioni erano molteplici: l'inverno e il freddo, la guerra non era sentita, le famiglie e la Patria erano lontani migliaia di chilometri.
In sintesi, a nostro avviso, le motivazioni principali che hanno portato al fallimento delle operazioni in Russia sono da ricercarsi nel non aver rispettato alcuni principi dell’arte della guerra, principi che potrebbero essere considerati validi ancor oggi.
Inoltre, dall’esame di queste vicende, possiamo e dobbiamo evidenziare che, senza dubbio, tutte le nostre Grandi Unità e i nostri soldati hanno scritto pagine significative della nostra storia, rappresentando tuttora un grande esempio per tutti gli italiani.




1 Vds. Allegato “L” – Schema dell’Operazione Ostrogozsk-Rossosch.
2 I russi erano in vantaggio per numero di carri ed artiglierie, mentre il rapporto di forze aeree non fu mai a loro favore. Da precisare che la terminologia militare riferita alle unità dell’Armata Rossa potrebbe trarre in inganno (gli organici delle unità russe non corrispondono a quelle italiane, ungheresi o tedesche): il Fronte russo corrisponde al gruppo d’armate, ma può raggruppare molte armate ed unità autonome, o essere a livello di un’Armata dell’Asse; un’Armata russa è come un corpo d’armata dell’Asse (formata da poche divisioni, con effettivi inferiori a quelle dell’Asse in genere e dell’esercito tedesco in particolare); una Div. di fanteria russa (gennaio 1943) contava 9.619 uomini, su 3 reggimenti, con 24 cannoni da 76mm e 12 da 122 (una notevole parte del volume di fuoco era costituito da mortai, 56 da 50 mm, 83 da 82 mm e 21 da 120 mm.) Il numero di armi automatiche era elevato: 2.398 mitra e 522 fucili mitragliatori; un Corpo corazzato disponeva di 11.900 uomini e 240 tra carri e semoventi d’artiglieria. Ogni Brigata corazzata delle tre che componevano un corpo corazzato aveva 65 carri (in genere, per due terzi T-34 e KV, per un terzo carri leggeri).
3 A tutti vennero distribuiti i valenki, stivali di feltro a pezzo unico particolarmente indicati per camminare sulla neve a temperature molto basse. Inoltre ad ogni divisione vennero assegnate dalle 400 alle 500 slitte per i trasporti. I veicoli vennero dotati con due ordini di catene (mentre le macchine italiane si fermavano perché spesso senza catene). Infine le truppe ebbero in dotazione delle pale da neve in legno per poter liberare le strade durante le avanzate dai mucchi di neve che si accumulavano.
4 La valutazione della situazione del nemico il 7 gennaio (…) diede questo risultato: in profondità davanti all’ala sinistra dell’8^ Armata italiana, il quadro del nemico ancora non è chiaro, mentre davanti alla 2^ ungherese esistono indizi sui preparativi di attacco (senza però elementi precisi su spazi e tempi di inizio dell’attacco). Da questi elementi, si suppone un attacco per il controllo della linea che da SWOBODA conduce verso sud (attacco con numerosi raggruppamenti, su largo fronte); la localizzazione del centro di gravità può essere probabilmente nell’area SWOBODA KOROTOJAK.
5 Vds. Allegato “M”, Allegato “N”, Allegato “O” ed Allegato “P”.
6 Lo costituivano i battaglioni “Vestone” e “Valchiese” del 6° alpini, rinforzati dai gruppi “Bergamo” e “Vicenza”, e da 4 semoventi, più una batteria di lanciarazzi e 5 pezzi di artiglieria da 152: quanto rimaneva del XXIV Corpo corazzato tedesco che Eibl aveva posto sotto il suo comando. Invece il battaglione “Verona” doveva proteggere il fianco destro della Tridentina, l’unica delle quattro divisioni che era riuscita a sganciarsi in modo ordinato dal Don.
7 Vds. Allegato “Q” – La controffensiva russa dell’inverno ’42-’43; Allegato “R” ed “S” – Uniformi, armi ed accessori in dotazione; Vds. Allegato “T” e “U” – Perdite.
8 Si consideri, in proposito, I’asserto del Clausewitz “generalmente nell'attacco ad una sosta necessaria non succede più un secondo slancio”.
9 Direttiva del Comando Gruppo Armate “B”. n 02/2012 del 14 luglio 1942

10 “Direttive impiego GG UU.”, Ed, 1935.

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