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Di Federico Mammarella
Tradizionalmente si fa riferimento alla guerra
franco prussiana del 1871 come all’ultimo grande conflitto europeo che
insanguinò il continente nel suo cuore pulsante. Con la vittoria prussiana si
aprì infatti un periodo di equilibrio e armonia nota come “Concerto europeo”
orchestrato dal cancelliere tedesco Otto von Bismarck, artefice
dell’unificazione del Reich.
Bismark era consapevole di una cosa: l’equilibrio
fra le grandi potenze era tutto; Germania, Austria-Ungheria, Francia, Russia e l’Italia
(che stava proprio in quegli anni completando il percorso di unificazione, come
del resto stava facendo la Germania) avevano il compito di fungere da
contrappeso allo stragrande potere della Gran Bretagna sui mari e nei territori
coloniali. L’equilibrio tra “Terra e Mare”, citando il giurista tedesco Carl
Schmitt, era stato riprodotto nei fatti. La Germania guglielmina e l’Italia di
Vittorio Emanuele II erano da poco emerse come nuovi competitors dello
scacchiere europeo, dando il via all’ultimo grande sconvolgimento territoriale
in Europa fino alla Prima guerra mondiale.
Da Sedan in poi la guerra, il conflitto armato,
scompare dal suolo continentale ma, sia ben chiaro, non significò che essa
scomparve del tutto dalla faccia della Terra; semplicemente si spostò e trovò
una nuova valvola di sfogo al di fuori della vecchia Europa, manifestandosi in
tutta la sua brutalità contro nuovi e vecchi nemici: ecco allora il conflitto
russo turco del 1877-78, la guerra anglo boera di fine secolo, la campagna
coloniale italiana in Etiopia del 1896 e in Libia nel 1911, il genocidio degli
Armeni nei primi anni del ‘900 da parte del morente impero Ottomano…
Tornando a citare Schmitt se si va a leggere le
pagine del “Nomos della Terra” o di “Terra e Mare” appare in tutta la sua
complessità il fenomeno che passò alla storia come “Belle Époque”. Il giurista
tedesco nella sua magistrale produzione analizzò lo sviluppo ed il declino
dello IUS PUBLICUM EUROPAEUM, ovvero la base del moderno diritto internazionale
nato dalle sue ceneri. Ma quello che interessa vedere a noi è il concetto
schmittiano di guerra e la sua evoluzione nei secoli.
Negli anni bui del Medioevo la guerra era
essenzialmente una guerra di distruzione e di annientamento contro un nemico
che era definito “giusto”, essendo colui che minacciava il mondo cristiano e
contro il quale era lecito utilizzare qualsiasi mezzo e dove non c’è era alcuna
limitazione alla violenza: l’unico obbiettivo era la guerra totale.
Con la nascita dello stato moderno, sul modello di
quello amministrativo francese del ‘600, la guerra muta, diventando una guerra en forme, limitata, combattuta tra Stati
che ora si riconoscono a vicenda e tra i quali, e solo tra di essi, è possibile
condurre una guerra che non comporti la definitiva eliminazione del nemico: ora
con lo sconfitto è possibile stringere accordi, trattati, alleanze… Ma questa è
la guerra europea, combattuta esclusivamente tra stati europei ed altri stati
europei; al di fuori dello scenario continentale la guerra continua a mantenere
il suo volto più feroce e bestiale, era ancora guerra totale e distruttiva
contro popoli e razze ritenute, nell’ottica eurocentrica, inferiori e non degni
di assurgere al rango di stato moderno.
La “guerre en forme” tra stati nazione continuò per
tutto il XVII, XVIII e buona parte del XIX secolo, fino a quando si giunse
all’ultimo grande scontro campale in ambito europeo: Sedan appunto, combattuta
ancora con tecniche e strategie tipicamente da guerra limitata. Con
l’incoronazione di Guglielmo I nella sala degli Specchia della reggia di
Versailles fu posta la parola fine agli scontri armati che potevano minacciare
l’equilibrio così faticosamente costituito. La Germania divenne arbitro unico
garantendo un equilibrio di forze in grado di sfogare la propria forza bruta al
di fuori dei suoi confini: la guerra totale coloniale continuava infatti.
A questo periodi di pace europea viene comunemente
affiancato un periodo di pace e serenità indistinto, con risvolti in ogni
ambito sociale. Sono gli anni del Positivismo,
gli anni in cui le scienze sociali si affacciano ad osservare la realtà,
sono gli anni dello sviluppo scientifico ed industriale ad un livello che non
aveva mai avuto precedenti nella storia; si fanno grandi passi avanti nella
medicina, nella tecnica, nell’industria. Sono gli anni del Concerto europeo e della Pax
Britannica: Berlino e Londra sono i due poli d’equilibrio. Sono gli anni
della II Rivoluzione industriale dove petrolio, elettricità, gomma ed acciaio
fanno prepotentemente il loro ingresso nella vita di tutti i giorni; viene
istituito il Premio Nobel, l’Esposizione Universale di Parigi consacra la Tour Eiffel
a simbolo di una nuova civiltà, facendo nel contempo nascere il mito della Ville Lumiere. Sembrava di essere
finalmente giunti ad una periodo di pace e prosperità destinato a non avere
fine, la cui parola d’ordine era “fiducia
nel progresso”.
Ma non tutto il mondo era scintillante come Parigi.
Se infatti andiamo ad analizzare più nello specifico
questa realtà e, armati di lente d’ingrandimento, osserviamo con cura questo
dagherrotipo propostoci dalla storiografia tradizionale, vedremo che non tutto
era così luminoso.
Abbiamo già visto come la guerra sia stata una spia
di questo perbenismo e di questa positività, che ci indica come in realtà essa
non fosse mai stata debellata; anzi è proprio in questi anni che le guerre
coloniali raggiunsero il massimo grado di crudeltà ed efferatezza,
imperversando in ogni angolo del pianeta e causando crudeltà e atrocità mai
viste prima su popolazioni spesso inermi e incapaci di resistere alla
superiorità tecnologica europea. In America sono questi gli anni della
conquista della Frontiera, sono gli anni del Far West e del generale Custer,
gli anni dei fuorilegge e degli sceriffi con la stella di latta, gli anni dei genocidi delle popolazioni indigene
americane e di sanguinosi scontri… No, la guerra non è scomparsa, ha
semplicemente cambiato palcoscenico ed attori.
La società europea stessa non può essere tutta
classificata a catalogata sotto il nome di borghesia
(la classe per eccellenza di quel periodo); il borghese rappresenta sicuramente
colui che incarna quell’idea di Belle Époque,
ma il bracciante agricolo della campagna della Loira o della Pianura Padana,
l’operaio di Londra e quello di Milano, vivono una realtà ben più tetra e
oscura, caratterizzata da una povertà estrema e da condizioni di lavoro
proibitive.
L’economista e sociologo italiano Vilfredo Pareto,
calcolò nel 1891 che lo stipendio di un bracciante agricolo italiano di quegli
anni era uguale se non inferiore (paragonato con i tempi) a quello di un
contadino italico di 2000 anni prima. Ciò dimostra quale fosse la reale condizione
della stragrande maggioranza della popolazione.
In Italia, per continuare, stava cominciando allora
la migrazione verso le città ed i maggiori poli industriali; i contadini,
ingannati dalle promesse di migliori condizioni di vita, a migliaia lasciarono
le campagne riversandosi come un fiume in piena nelle città, scontrandosi con
la dura realtà, a loro quanto mai estranea e difficile. La vita dell’operaio si
dimostrava essere non tanto migliore di quella della campagna: le ore di lavoro
erano infinite (un operaio delle acciaierie di Bagnoli arrivava anche a 15-16
ore di lavoro ininterrotto), la sicurezza sul lavoro era completamente assente,
così come pure una qualsivoglia forma di previdenza sociale e tutela del
contratto; il lavoro minorile era una pratica comune; le abitazioni in cui
questi ex contadini erano costretti a vivere erano tuguri di una o due stanze,
sovraffollate, senza acqua corrente e servizi igienici, spesso anche senza
corrente elettrica. Le condizioni igieniche delle grandi città erano
estremamente precarie: grandi città come Londra e Parigi , ma pure realtà
italiane come Milano e Torino, furono costrette
a fare i conti con un aumento vertiginoso della popolazione urbana, non
riuscendo a far fronte ai nuovi arrivati, che si ammassavano in baraccopoli ai
margini delle città, creando situazioni di degrado e promiscuità che spesso sfociavano
in focolai di epidemie e scontri sociali; le strade diventavano fogne a cielo
aperto, dove branchi di ratti e nullatenenti scorrazzavano da un capo all’altro.
E’ in questo clima che nascono appunto le scienze sociali, grazie ad eminenti
studiosi quali Auguste Comte (sebbene egli faccia parte della prima metà del
XIX secolo), Carl Marx e soprattutto Emile Durkheim.
Ed è appunto Durkheim che più si adoperò in questi
anni per studiare e capire la nuova società che si stava formando sotto i suoi
occhi: secondo lui essa è fatta di fenomeni,
che definisce fatti sociali, ed ogni
fatto sociale è spiegabile attraverso un altro fatto sociale, che ha causato a
sua volta il primo: in sostanza la realtà si articola di un susseguirsi di
azioni e reazioni a catena che combinati tra loro danno luogo alla società nel
sue essere. I fatti sociali sono azioni, concetti, idee, sono tutto quello che
compone la vita quotidiana, ed essi possono essere sia “fatti sociali normali”,
cioè positivi, condivisi dagli altri attori
sociali, sia “fatti sociali patologici”, ovvero che travalicano il senso
comune, che deviano dalla visione
comunitaria. Ma allo stesso modo, sottolinea Durkheim, un fatto che viene
classificato come normale ad una certa latitudine, può diventare patologico ad una completamente diversa
e viceversa. Con questa teorizzazione Durkheim vuole evidenziare che non esiste
un concetto univoco ed universalmente riconosciuto di società valida erga omnes, bensì esiste una pluralità
di società che si distinguono le une dalle altre.
Allo stesso tempo questa distinzione ha valenza non
solo spaziale ma anche temporale ovvero un azione che un secolo fa aveva una
valenza positiva oggi può averne una completamente negativa e distante dal
senso comune: questo è il mutamento sociale,
il motore della società, ciò che ha permesso la sua stessa evoluzione,
mantenendo la società in un continuo stato di tensione che la porta ad essere
sempre diversa da se stessa, permettendo quindi di arrivare sempre a nuovi
orizzonti e realtà.
Ed è proprio questa evoluzione continua che ha
permesso all’uomo di giungere a questo periodo di pace definito quindi Belle Époque. Ma sempre Durkheim, da
acuto osservatore, sottolinea che proprio in questo epoca di progresso, in cui
la società capitalistica e borghese nutriva una fiducia cieca nel futuro,
nell’ombra si agitavano mostri e pericoli: l’anomia, l’assenza di leggi, di norme, che porta al suicidio.
L’anomia è da vedere come un portato della società moderna dove l’ordine morale
tradizionale, tipico della società preindustriale, che garantiva unità e
coesione sociale tra gli individui, viene ora distrutta dalla conflittualità della
società moderna, dall’individualismo, dalla secolarizzazione, dalle crisi dei
valori religiosi…Le norme morali che garantivano all’uomo stabilità e sicurezza
personale si infrangono e si perdono nel magma urbano, lasciando l’individuo
spaesato e senza punti di riferimento certi, vulnerabile alle sue paure che
possono condurlo anche a compiere il gesto ultimo della disperazione: il
suicidio.
Questa è la società industriale. Questa è
l’alienazione che paventava Marx. Q uesta
è la triste condizione di milioni di persone che affollavano le grandi
metropoli moderne, accomunando Parigi con Londra, Milano con Berlino, New York
con Manchester…
La Belle Époque
è quindi un falso mito che maschera ciò che in realtà era la vera società
di allora. Il vertiginoso progredire scientifico e tecnico lasciò l’uomo indietro,
in quella posizione di spaesamento dove egli faticava a ritrovarsi, dove era
incapace di reagire e affrontare la vita di tutti i giorni.
Questa situazione anomica e di conflitto fu la causa
e il combustibile di tutte le tensioni sociali e sindacali che caratterizzarono
il periodo immediatamente precedente alla Prima Guerra mondiale e che portò al
suo innesco. Le trincee della Grande Guerra funsero da camera di fusione di
queste contraddizioni che portarono poi, nell’immediato dopoguerra, alla crisi
dello stato liberale e democratico nato e consolidatosi appunto sul finire del lungo ottocento. Lo stato liberale
borghese, di matrice anglosassone, si scontrò con l’entrata sulla scena
politica di nuovi attori, ovvero la società di massa, nata nelle trincee e
forgiata nel fuoco delle battaglie; lo stato non seppe reggere allo scontro (se
non in alcuni “campioni” della democrazia, come Gran Bretagna e Francia, che,
seppur con immense difficoltà, seppero arginare il fiume in piena),
determinando un vuoto di potere che aprì la strada ai regimi totalitari e
autoritari.
Ecco quindi come finì la Belle Époque; volendo fare un paragone, forse azzardato, potremmo
descrivere il periodo ad una sfavillante cometa di progresso che si scontrò con
una realtà buia e instabile: l’essere umano.
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