Usa/Russia Siria: tra battaglia finale e spiraglio negoziale Laura Mirachian 23/06/2017 |
Ci si chiede come mai, dopo oltre sei anni di quella che continuiamo a chiamare ‘guerra civile’, ben sapendo che trattasi di una ‘proxy war’ tra i referenti regionali e internazionali dei rispettivi protagonisti interni, come mai si sia arrivati da ultimo, nei pressi di Tabqa, grande bacino idrico sull’Eufrate a ovest di Raqqa, all’abbattimento di un jet SU-22 siriano da parte di un F-18 americano, entrambi teoricamente a caccia di militanti del sedicente Stato islamico, l’Isis.
Dopo gli oltre 9.000 raid condotti in questi anni dalla coalizione a guida americana, non si è certo trattato di un incidente involontario. Né come tale è stato del resto presentato. Preceduto da un ennesimo richiamo a Mosca perché freni l’alleato Assad, e seguìto dall’annuncio di Washington che altre misure del genere saranno adottate ove dovessero verificarsi nuovi attacchi contro forze ribelli sostenute dagli Usa, l’abbattimento ha indotto Mosca a replicare duramente diffidando Washington dall’oltrepassare la linea dell’Eufrate verso ovest e sospendendo le intese military-to-military- cosiddette‘deconflictingrules’ - destinate appunto ad evitare incidenti.
Annoto che Mosca non aveva fiatato nel precedente caso, in aprile, dei raid americani contro la base siriana di Shayrat in risposta ad attacchi con armi chimiche a Khan Sheikoun. Siamo entrati in una nuova, e più rischiosa, fase della guerra siriana. Uno showdown finale? Oppure l’aprirsi di una rinnovata prospettiva negoziale?
Le ragioni dell’acuirsi delle frizioni
Possiamo tentare un elenco delle ragioni che hanno determinato l’episodio in parola.
In primis, metterei la scelta di campo operata dall’America di Trump a Riad il 21 maggio. Non più ‘leading from behind’ e ‘no boots on the ground’ dell’era Obama, non più ricerca di un equilibrio di influenze trai maggiori protagonisti regionali Arabia saudita e Iran, ma un deciso appoggio alla prima e una chiara indicazione che l’Iran è un avversario da combattere, equiparabile ai terroristi.
Se questa è la nuova visione-Trump, il vero obiettivo strategico è impedire all’Iran di controllare il corridoio che corre dal confine siro-iracheno al Mediterraneo attraverso il Libano, lungo la cosiddetta ‘mezzaluna sciita’. La battaglia di Al-Tanf, posto di confine tra Siria e Iraq in pieno deserto siriano, ne è riprova da settimane. Così come quella per il controllo della cittadina di Deir-er-Zoor, situata al centro della traiettoria verso l’Iraq e ancora occupata dall’Isis. Scontri dall’esito ancora incerto. Nei deserti siriani si sono sempre insabbiate anche le truppe corazzate del colonialismo francese.
In secondo luogo, l’avvicinarsi della battaglia campale per la presa di Raqqa, capitale ed ultima roccaforte dell’Isis in Siria. Raqqa non è Mosul, seconda grande città irachena con oltre un milione di abitanti: è un centro di media grandezza che prima della guerra aveva circa 150.000 abitanti, ma è collocata sull’Eufrate, che permette l’irrigazione di mezza Siria, in particolare della ‘Siria Utile’ ora sostanzialmente controllata da Assad (che accanto ai bombardamenti sta praticando ‘intese di evacuazione’ dei ribelli).
Su Raqqa stanno confluendo da Nord i combattenti curdo-arabi delle Sdf, Syrian Democratic Forces, sostenuti dall’aviazione della coalizionee da un migliaio di soldati americani giunti a rinforzo in marzo, e preme da Sud e da Ovest l’esercito di Damasco sostenuto da milizie filo-iraniane e copertura aerea russa.
La Turchia punta, ancorché con certa inquietudine, sull’impegno americano, oltre che sull’appoggio politico-militare conferito a taluni gruppi dell’opposizione. Chi riconquista Raqqa ha un ruolo di primo piano nel futuro della Siria. Per Assad significa anche, e forse soprattutto, non lasciare agli americani e ai turchi il monopolio dei destini curdi.
Il terzo argomento è tutto interno alla nuova Amministrazione americana. Trump deve pur dimostrare che tiene fede alla parola data all’energico principe saudita Mohammed bin Salman, ora elevato al rango di principe ereditario, e soprattutto contrastare la percezione di essere in qualche modo condizionato dallo scenario del Russiagate. Deve gestire Putin come se nulla fosse; e qualche reazione di assertività militare è funzionale allo scopo.
Una partita da giocare anche al tavolo dei negoziati
Ma tra parole e fatti c’è grande differenza. La Russia non può permettersi uno scontro con gli Stati Uniti, tanto meno nel momento in cui cerca piuttosto un alleggerimento del suo impegno militare in Siria. E peraltro il suo interesse è diverso da quello dell’Iran e consiste essenzialmente nel preservare le basi aereo-navali di Tartous e Palmira e nel non cedere il terreno politico-diplomatico che ora domina (da utilizzare possibilmente anche nella partita ucraina). Non a caso, Mosca ha rapidamente convocato per il 4 luglio il gruppo di Astana per la ripresa dei negoziati.
Anche Washington, dal canto suo, sembra intenta a mitigare i toni e ha auspicato la ripresa dei contatti military-to-military. Evidentemente, uno scontro militare diretto non è stato messo in conto né a Mosca né a Washington. Pentagono e Dipartimento di Stato sono al lavoro per assorbire eventuali irrazionali intemperanze di Trump.
Il rischio di una nuova avventura militare americana non è tuttavia trascurabile, al contrario: ma potrebbe coinvolgere non tanto i russi quanto i loro alleati iraniani. Perché allora i conti tornerebbero, la traiettoria della ‘mezzaluna sciita’ verrebbe interrotta, Israele e Arabia saluterebbero con soddisfazione, come pure l’opposizione siriana che per anni ha sperato in un più consistente punto d’appoggio a Washington.
Ad Astana, dunque, la Russia avrà il difficile compito di rilanciare le intese del 4 maggio sulle de-escalation zones, di ricercare una mediazione con l’Iran e con la Turchia e, non ultimo, come ripetutamente chiestole da Washington, di frenare Assad che sta cercando di estendere il più possibile il proprio controllo sul territorio a prescindere dalle intenzioni degli alleati. Un suo successo sarebbe anche un successo di Trump.
Laura Mirachian, Ambasciatore, già Rappresentante permanente presso l’Onu, Ginevra.
Dopo gli oltre 9.000 raid condotti in questi anni dalla coalizione a guida americana, non si è certo trattato di un incidente involontario. Né come tale è stato del resto presentato. Preceduto da un ennesimo richiamo a Mosca perché freni l’alleato Assad, e seguìto dall’annuncio di Washington che altre misure del genere saranno adottate ove dovessero verificarsi nuovi attacchi contro forze ribelli sostenute dagli Usa, l’abbattimento ha indotto Mosca a replicare duramente diffidando Washington dall’oltrepassare la linea dell’Eufrate verso ovest e sospendendo le intese military-to-military- cosiddette‘deconflictingrules’ - destinate appunto ad evitare incidenti.
Annoto che Mosca non aveva fiatato nel precedente caso, in aprile, dei raid americani contro la base siriana di Shayrat in risposta ad attacchi con armi chimiche a Khan Sheikoun. Siamo entrati in una nuova, e più rischiosa, fase della guerra siriana. Uno showdown finale? Oppure l’aprirsi di una rinnovata prospettiva negoziale?
Le ragioni dell’acuirsi delle frizioni
Possiamo tentare un elenco delle ragioni che hanno determinato l’episodio in parola.
In primis, metterei la scelta di campo operata dall’America di Trump a Riad il 21 maggio. Non più ‘leading from behind’ e ‘no boots on the ground’ dell’era Obama, non più ricerca di un equilibrio di influenze trai maggiori protagonisti regionali Arabia saudita e Iran, ma un deciso appoggio alla prima e una chiara indicazione che l’Iran è un avversario da combattere, equiparabile ai terroristi.
Se questa è la nuova visione-Trump, il vero obiettivo strategico è impedire all’Iran di controllare il corridoio che corre dal confine siro-iracheno al Mediterraneo attraverso il Libano, lungo la cosiddetta ‘mezzaluna sciita’. La battaglia di Al-Tanf, posto di confine tra Siria e Iraq in pieno deserto siriano, ne è riprova da settimane. Così come quella per il controllo della cittadina di Deir-er-Zoor, situata al centro della traiettoria verso l’Iraq e ancora occupata dall’Isis. Scontri dall’esito ancora incerto. Nei deserti siriani si sono sempre insabbiate anche le truppe corazzate del colonialismo francese.
In secondo luogo, l’avvicinarsi della battaglia campale per la presa di Raqqa, capitale ed ultima roccaforte dell’Isis in Siria. Raqqa non è Mosul, seconda grande città irachena con oltre un milione di abitanti: è un centro di media grandezza che prima della guerra aveva circa 150.000 abitanti, ma è collocata sull’Eufrate, che permette l’irrigazione di mezza Siria, in particolare della ‘Siria Utile’ ora sostanzialmente controllata da Assad (che accanto ai bombardamenti sta praticando ‘intese di evacuazione’ dei ribelli).
Su Raqqa stanno confluendo da Nord i combattenti curdo-arabi delle Sdf, Syrian Democratic Forces, sostenuti dall’aviazione della coalizionee da un migliaio di soldati americani giunti a rinforzo in marzo, e preme da Sud e da Ovest l’esercito di Damasco sostenuto da milizie filo-iraniane e copertura aerea russa.
La Turchia punta, ancorché con certa inquietudine, sull’impegno americano, oltre che sull’appoggio politico-militare conferito a taluni gruppi dell’opposizione. Chi riconquista Raqqa ha un ruolo di primo piano nel futuro della Siria. Per Assad significa anche, e forse soprattutto, non lasciare agli americani e ai turchi il monopolio dei destini curdi.
Il terzo argomento è tutto interno alla nuova Amministrazione americana. Trump deve pur dimostrare che tiene fede alla parola data all’energico principe saudita Mohammed bin Salman, ora elevato al rango di principe ereditario, e soprattutto contrastare la percezione di essere in qualche modo condizionato dallo scenario del Russiagate. Deve gestire Putin come se nulla fosse; e qualche reazione di assertività militare è funzionale allo scopo.
Una partita da giocare anche al tavolo dei negoziati
Ma tra parole e fatti c’è grande differenza. La Russia non può permettersi uno scontro con gli Stati Uniti, tanto meno nel momento in cui cerca piuttosto un alleggerimento del suo impegno militare in Siria. E peraltro il suo interesse è diverso da quello dell’Iran e consiste essenzialmente nel preservare le basi aereo-navali di Tartous e Palmira e nel non cedere il terreno politico-diplomatico che ora domina (da utilizzare possibilmente anche nella partita ucraina). Non a caso, Mosca ha rapidamente convocato per il 4 luglio il gruppo di Astana per la ripresa dei negoziati.
Anche Washington, dal canto suo, sembra intenta a mitigare i toni e ha auspicato la ripresa dei contatti military-to-military. Evidentemente, uno scontro militare diretto non è stato messo in conto né a Mosca né a Washington. Pentagono e Dipartimento di Stato sono al lavoro per assorbire eventuali irrazionali intemperanze di Trump.
Il rischio di una nuova avventura militare americana non è tuttavia trascurabile, al contrario: ma potrebbe coinvolgere non tanto i russi quanto i loro alleati iraniani. Perché allora i conti tornerebbero, la traiettoria della ‘mezzaluna sciita’ verrebbe interrotta, Israele e Arabia saluterebbero con soddisfazione, come pure l’opposizione siriana che per anni ha sperato in un più consistente punto d’appoggio a Washington.
Ad Astana, dunque, la Russia avrà il difficile compito di rilanciare le intese del 4 maggio sulle de-escalation zones, di ricercare una mediazione con l’Iran e con la Turchia e, non ultimo, come ripetutamente chiestole da Washington, di frenare Assad che sta cercando di estendere il più possibile il proprio controllo sul territorio a prescindere dalle intenzioni degli alleati. Un suo successo sarebbe anche un successo di Trump.
Laura Mirachian, Ambasciatore, già Rappresentante permanente presso l’Onu, Ginevra.
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