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venerdì 9 giugno 2017

VI Incontro con l'Autore promosso dal CESVAM

NOTIZIE CESVAM

LE SPADE DI ALLAH I 
Mujaheddin nel conflitto russo-afgano

Nota a commento dell'incontro di Eleonora Palone*

La vigilia di Natale del 1979 è ricordata in Afghanistan come l'inizio di un incubo, poiché fu in questa occasione che l'Unione Sovietica diede l'ordine al proprio esercito di invadere il Paese centro-asiatico. Il conflitto russo-afgano perdurò per circa un decennio, causando morte e distruzione, e portò alla ritirata dell'Armata Rossa. Quello sovietico si dimostrò ben presto un atto di forza inutile e tragico, una sorta di “Vietnam russo”, che preannunciò la definitiva caduta dell'Unione Sovietica e devastò lo Stato afgano.

Quello che raramente viene approfondito è il ruolo che i Mujaheddin, cioè i combattenti per la fede, ebbero nella lotta contro l'Armata Rossa a cui impartirono una dura lezione, tra le montagne impervie del Paese centro-asiatico, e che alla fine la costrinsero a rientrare sconfitta nell'Unione Sovietica. Questa è una prospettiva inedita del conflitto russo-afgano discussa il giorno mercoledì 7 giugno a Roma nell'Istituto del Nastro Azzurro che ha dato il via “al VI 

Incontro Con l'Autore Gianluca Bonci” dove è stato presentato il suo volume “LE SPADE DI ALLAH I Mujaheddin nel conflitto russo-afgano”. Libro che illustra il ruolo da protagonisti che ebbero i Mujaheddin, si apre con una descrizione delle fasi del conflitto e del panorama politico afgano dell'epoca, e presenta le caratteristiche generali e gli obiettivi strategici del movimento di resistenza afgano, con l'approfondimento delle tattiche di combattimento offensive e difensive utilizzate.

Gianluca Bonci è Tenente Colonnello, ha frequentato l’Accademia Militare di Modena, è laureato in Scienze dell’Informazione e in Scienze Strategiche. Assolve gli incarichi di Comandante di Plotone e di Compagnia presso i reparti operativi e ha partecipato a 7 missioni di stabilizzazione fuori dai confini nazionali di cui due proprio in Afghanistan. Oggi presta servizio presso lo Stato Maggiore dell’Esercito.

Nell'intervista con l'autore, che mi ha gentilmente concesso, egli ha risposto a varie domande trale tra le quali questa iniziale: 
“Come e perché è nato il libro e se si tratta di un libro di storia o di geopolitica”. 

Il tenente colonnello Bonci ha spiegato che la sua idea iniziale riguardava lo studio delle tattiche di impiego e degli sviluppi operativi dell'Armata Rossa durante l'invasione dell'Afghanistan. Solo in un secondo momento, dopo il successo ricevuto dal lavoro svolto, con lo stesso metodo, cioè quello di tipo storico militare, egli ha deciso di approfondire anche la controparte ovvero la guerriglia afgana.

Durante la presentazione del libro egli ha sottolineato l'evoluzione dell'insorgenza afgana dai tempi dell'Armata Rossa ad oggi, individuando analogie e tratti distintivi. I Mujaheddin in funzione antisovietica erano suddivisi sostanzialmente in 7 fazioni tribali rivali caratterizzate da dispute personali per il potere e per il controllo del territorio, ognuna di esse era profondamente legata alla terra natia, perseguivano interessi diversi, spesso si combattevano tra loro ma tutte combatterono contro il nemico comune sovietico. Fazioni in cui difficilmente si poteva stabilire un sistema gerarchico, i ruoli spesso venivano assegnati, allora come ora, secondo l'influenza nella tribù piuttosto che dalla posizione della famiglia di provenienza ma sicuramente non per meritocrazia militare. Divisioni che ancora oggi vanno a vantaggio di questo Paese perché non permettono di stabilire da parte esterna dei legami concreti. I Mujaheddin non lottarono per la patria, visto che ogni fazione vedeva la patria a modo suo. Sicuramente avevano un'innata vocazione al combattimento, abituati ad utilizzare qualsiasi arma, spesso prodotte in modo artigianale. Coraggiosi e temprati al sacrificio, ma soprattutto conoscevano perfettamente il territorio montuoso afgano e le innumerevoli grotte di cui è disseminato, utilizzate soprattutto come rifugio. 

La strategia che i Mujaheddin utilizzarono contro i sovietici consisteva in un'unica via d'azione: la guerriglia. Lo scontro diretto e aperto con l'Armata Rossa doveva essere assolutamente evitato, vista la supremazia militare sovietica. Per esempio nel territorio controllato da Massud, il Leone del Panshir, simbolo della resistenza afgana e della lotta contro ogni oppressione, i sovietici per ben 7 volte lanciarono offensive ma non riuscirono mai a penetrare in fondo a questa valle. Inoltre fu cruciale l'appoggio totale della popolazione.
L'attuale insorgenza afgana, invece, viene generalmente identificata dai talebani, una dizione che nasconde però una realtà complessa formata da più gruppi. Ad ogni modo oggi i talebani sono più isolati rispetto ai Mujaheddin (che vennero finanziati da molti paesi del Medio Oriente, dall'Occidente, dal Pakistan, dall'Iran e dalla Cina) ma possono però contare sui proventi del traffico di droga, l'85% del traffico di oppio oggi proviene proprio dall'Afghanistan. A differenza dei Mujaheddin oggi i talebani dialogano, hanno un'influenza diretta negli affari interni del Paese e indiretta nella politica regionale del Pakistan soprattutto nelle province occidentali abitate dai pashtun che vorrebbero la nascita del pashtunistan che dovrebbe inglobare queste aree di confine. Inoltre uno dei fattori determinanti attuali è sicuramente quello religioso che influenza molto i giovani disoccupati che costituiscono la maggioranza dell'insorgenza afgana odierna.

Il tenente colonnello Bonci ha affermato, infine, che l'Afghanistan, dopo quasi 40 anni di guerra (invasione sovietica,  guerra civile e poi intervento statunitense e britannico) è un Paese dilaniato, senza infrastrutture, in cui l'unica possibile strategia per non perderlo definitivamente e farlo uscire dallo stallo in cui si trova, è quella che consiste in un approccio inclusivo che preveda, per quanto possibile, un dialogo con i talebani. Egli ha concluso il suo intervento con una citazione del Vice Ministro degli Esteri dell'Unione Sovietica al titolare del Dicastero, Andrej Gromyko, a Mosca nei primi anni 1980:

“ - Compagno Gromyko, Le faccio presente come le ultime tre invasioni dell'Afghanistan condotte dagli inglesi siano miseramente fallite! - Lei quindi mi vuole far credere che le nostre forze siano in qualche modo paragonabili a quelle inglesi di un secolo fa? - No Signore! ...ma le montagne sono le stesse!”

Una citazione che dimostra come l'Afghanistan sia un Paese, ora come allora, difficilmente controllabile da forze esterne.


A mio avviso, l'invasione sovietica dell'Afghanistan venne interpretata in Occidente come la prima mossa di una grande espansione verso il Golfo Persico con l'obiettivo di controllarne i giacimenti petroliferi. Gli Stati Uniti già nell'aprile del 1979 servendosi dei legami tra autorità pakistane e dissidenti islamisti afgani stabilirono i primi contatti con la resistenza afgana, come poi rivelarono i documenti della CIA e del Dipartimento di Stato trovati dagli studenti iraniani nel novembre del 1979 nell'ambasciata americana a Teheran. La strategia americana era quella di “dare ai sovietici il loro Vietnam” con un'affermazione comune a quei tempi nella CIA, senza che vi fossero perdite umane americane, sarebbero stati i Mujaheddin afgani a combattere . Un'invasione che incontrò sempre maggiore resistenza nelle aree rurali e tribali da gruppi divisi tra loro da varie rivalità etniche e tribali ma uniti per combattere un nemico esterno. I sovietici si resero conto, come prima di loro avevano scoperto gli inglesi, che l'Afghanistan per le sue caratteristiche morfologiche del territorio e dalle tattiche di guerriglia della resistenza era impossibile da controllare in modo stabile. Questa regione per gli Stati Uniti divenne di importanza vitale per i giacimenti petroliferi e per la sua posizione geo-strategica, soprattutto dopo la perdita dell'Iran come alleato dopo la Rivoluzione Khomeinista. I Mujaheddin vennero addestrati nei campi profughi, indottrinati nelle madrasa (cioè nelle scuole islamiche) al jihad e riempiti di armi, tutto questo finanziato direttamente dagli Stati Uniti d'America. Questo  provocò la proliferazioni di gruppi estremisti, la radicalizzazione delle madrasa e la diffusione di armi nelle tradizionali aree autonome pashtun, creando in questi territori una sorta di stato nello stato. Ritengo che quando ormai il conflitto terminò e la dissidenza estremista in Afghanistan aveva raggiunto il suo obiettivo tutti questi combattenti per la fede dovevano essere riorientati altrove per combattere un nuovo jihad. Osama Bin Laden, quando lasciò l'Afghanistan, decise di immettere in un database, che prese il nome di al-Qaeda (il cui significato è appunto “la base”), i nomi di tutti coloro che avevano partecipato al jihad antisovietico. Adesso si dice che le stesse tattiche e le stesse giustificazioni, volte ora contro gli Stati Uniti e la Nato, rappresentino la “malattia” dell'Islam che risale direttamente al Corano o ad altri insegnamenti e precetti islamici. In ogni caso però ci si potrebbe chiedere come mai i manuali del jihad che circolavano allora nei campi profughi e nelle madrasa tra i Mujaheddin fossero redatti dall'Università del Nebraska-Omaha.

*Laureata, dal 1 maggio collaboratrice del CESVAM

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