“In Siria non si può fare né la guerra, né la pace”. Questa è stata la risposta di un collega dell’Usaf, un amico sin dai tempi di Desert Storm, quando gli ho chiesto di spiegare come mai nei giorni scorsi fossero stati attaccati alcuni mezzi dell’esercito di al-Assad, nonostante la tacita condivisione degli accordi scaturiti dall’ultimo round della conferenza di Astana.
Risposta eloquente, che ben caratterizza i precari equilibri politico-militari nell’area. In questi sei anni di “non-guerra”, si devono proprio agli equilibri artificialmente creati centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi. Un tempo, le guerre si vincevano o si perdevano. Oggi non è più così: l’ipocrisia del politically correct non lo consente.
I colloqui di Astana del 3 e 4 maggio Dopo tanti anni di cattive notizie, sulla Siria ne esce finalmente una potenzialmente buona, ma sui media occidentali, anche italiani, la diffusione è scarsissima. Il perché si può anche intuire. L’accordo, a prescindere da quello che ne sarà effettivamente il seguito, non è stato raggiunto su iniziativa e proposte dell’Onu, che a Ginevra sinora ha sempre fallito. Viceversa, Mosca, Teheran e Ankara sono riuscite a riunire e a fare dialogare quasi tutti gli attori del massacro siriano. Un successo? Non ancora.
Sebbene a tavoli separati, erano per la prima volta insieme sia i rappresentanti governativi, sia quelli delle fazioni non jihadiste all’opposizione. La presenza di alcuni osservatori di rango dell’Onu, degli Usa e della Giordania (nel cui territorio vi è alta densità di profughi siriani) servirà in seguito a legittimare gli accordi, travasandoli - almeno nelle intenzioni – al Palazzo di Vetro.
Il memorandum siglato dai tre garanti prevede la creazione in aree strategiche del Paese di quattro zone-cuscinetto (de-escalation zones) dove dovranno cessare combattimenti e bombardamenti. Tuttavia, è stato precisato che le operazioni militari contro le forze jihadiste (Isis e Hayat al Tahiral-Sham, ex al-Nustra) continueranno finché necessario.
Le quattro zone, i cui contorni dovranno essere definiti entro il prossimo 4 giugno, insistono sull’area di Idlib, al confine con la Turchia, sull’area a nord di Homs, su quella di Ghouta, a est di Damasco e su un’area a Sud che comprende Deraa e Quneitra, nel Golan.
Tra i problemi, importante è quello di separare le forze dei ribelli “buoni” da quelli “cattivi”. Al-Assad, che sinora obtorto collo ha accettato tutto, non vuole nemmeno sentir parlare di intervento dell’Onu. Pare che i tre garanti stiano pensando a truppe kazake, o addirittura brasiliane, con l’intendimento evidente di coinvolgere Paesi Brics.
Dopo Astana, nuovi equilibri in Siria È ancora presto per capire se i risultati di Astana (perfino gli Stati Uniti hanno fatto sapere di essere d’accordo) potranno davvero essere implementati e, in caso positivo, quale effetto potranno indurre sulla situazione umanitaria, politico-militare e squisitamente politica.
Le forze rimangono tutte sul campo: oltre a russi, iraniani, turchi, americani, pochi sauditi, hezbollah libanesi e curdi, sono attive una decina di fazioni anti-governative locali, delle quali almeno due di fede jihadista. Queste sono ora chiaramente indicate come il primo obiettivo da battere; e si stanno creando tutte le condizioni perché ciò possa davvero accadere. Le forze di al-Assad, seppur provate, hanno ricevuto aiuti che consentono loro di mantenere non solo l’iniziativa nei combattimenti, ma anche un certo grado di favore popolare.
Sotto il profilo politico, invece, qualche nuovo equilibrio si sta già delineando. Il primo significato di Astana è che Bashar al-Assad, per ora, resterà in sella. Russia e Iran sono divenuti definitivamente arbitri della situazione in Siria, per di più con una silente benedizione degli Stati Uniti. A meno, naturalmente, di improbabili future impennate del presidente Trump.
La Turchia ha avuto ciò che voleva, visto che il pericolo di un “congiungimento” dei curdi, almeno per ora, sembra scongiurato: Ankara non chiede altro. La Giordania, con la propria presenza, ha acquistato prestigio, e si appresta a vedere risolto il problema dei profughi. Hezbollah ha diritti acquisiti. Certamente li eserciterà in Libano, con un maggior peso all’interno della compagine governativa.
Tutti contenti?, allora … Non tutti. L’Onu non lo può essere. Una volta di più, al di là dell’inutile, continua assertività nell’affermare i grandi principi universali, è apparsa in tutta evidenza la sua inadeguatezza a risolvere in modo serio problemi reali. Potrebbe forse arrivare a proporre una tripartizione delle influenze in Siria, com’è già accaduto in altre parti del mondo. Ma ciò serve solo a perpetuare i problemi, non a risolverli. Per ora, dovrà accontentarsi di fare il notaio di Russia, Iran e Turchia.
Nemmeno gli Stati Uniti possono essere contenti, sebbene la loro attenzione sia ormai rivolta al Pacifico e alla Cina, in futuro vera e unica concorrente globale, piuttosto che al Medioriente. In quanto all’Unione europea, a parte i dannosi pasticci creati in Siria da alcuni dei Paesi membri, si trova a dover incassare per l’ennesima volta la patente di complessiva irrilevanza.
È possibile che gli equilibri politici e di forze derivanti da Astana, qualunque sia l’esito finale, siano solo l’inizio di un rinnovamento che va molto oltre ogni aspetto regionale. Potrebbero davvero segnare solo la fase iniziale di un processo di sovvertimento geo-strategico globale, dopo il quale nulla sarà più come prima.
Mario Arpino, ufficiale pilota in congedo dell’Aeronautica Militare, collabora come pubblicista a diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. È membro del Comitato dei Garanti dello IAI.
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