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sabato 17 giugno 2017

La Liberazione dell'Alleato

ARCHIVIO

di Alessia Biasiolo*

Continuando l’analisi della politica tedesca degli anni Trenta e Quaranta e, nel caso specifico, del rapporto con l’alleato italiano, riprendiamo il viaggio del 28 luglio 1943 di Benito Mussolini verso l’isola di Ponza.
Salpati dal Molo Ciano sulla corvetta “Persefone”, la prima tappa fu all’isola di Ventotene, ritenuta inadatta al “soggiorno” dell’ospite del Re, perché vi era presente un presidio germanico ed era sede di una colonia di massa di confinati antifascisti, probabilmente in vista di essere liberati a breve, e di certo quindi poco adatta a ricevere l’illustre ospite.
Il viaggio via mare continuò, pertanto, fino a Ponza, dove Mussolini arrivò verso le 13; venne diretto ad una casa seminascosta da pescherecci in disarmo, semi-abbandonata, un “domicilio temporaneo” in località Santa Maria, come l’ebbe a definire Polito. L’arrivo del dittatore d’Italia era segretissimo, tanto che l’isola si animò di gente alle finestre, munita di binocoli, per osservare al meglio la faccia del Capo. Tutti sapevano di quel segreto, pertanto la scelta di Ponza assumeva sempre più l’aura del segreto di Pulcinella, mentre Mussolini si rendeva conto di essere stato vittima di una congiura. E che se tanto era stato il comportamento nei suoi confronti, allora c’era da aspettarsi che l’Italia venisse consegnata al nemico.
A Ponza c’erano dei confinati antifascisti, come Nenni che lo vide chiaramente con il cannocchiale, e tra gli addetti alla custodia dell’ormai ex Duce c’erano dei fascisti che non gli nascondevano la loro solidarietà. Ad esempio, vennero forniti a Mussolini dei giornali, che gli erano vietati, così come l’ascolto della radio e la trascrizione dei bollettini di guerra. Inoltre, gli concedevano più di quanto gli fosse consentito anche in termini di sicurezza, come qualche passeggiata e qualche bagno in mare.
Mussolini chiese che gli fosse consentito di assistere alla santa messa in memoria del figlio Bruno, di cui il 7 agosto ricorreva l’anniversario della morte, ma non poté farlo, dato che nella notte tra il 6 e il 7 agosto venne trasferito a La Maddalena.
La questione di dovere salvaguardare Mussolini dagli Alleati sembra del tutto infondata, dal momento che non avevano idea di dove fosse. Invece, sin da subito i tedeschi, ancora alleati del duce, cercavano sue notizie per ogni dove. I ritardi nell’individuare il luogo della vera e propria detenzione dell’ex capo d’Italia da parte dei nazisti, sembrano dovuti alla rivalità che esisteva tra capi e reparti. Secondo de Felice, Himmler aveva addirittura incaricato degli astrologi per conoscere il luogo esatto dove potere cercare di andarlo a liberare, in sintonia con quanto abbiamo scritto circa le appartenenze anche a sette occulte di alcuni gerarchi. L’operazione di ricerca dell’alleato Mussolini venne nominata “Eiche” e dannava i tedeschi incapaci di venirne a capo, mentre l’Italia vedeva manifestazioni di ogni sorta.
Giubilo anche scomposto da parte di coloro che vedevano nella caduta di Mussolini la fine dei loro problemi. Alcuni che si erano proclamati fascisti fino al giorno prima, adesso si dicevano sollevati dalla situazione e, inneggiando alla vittoria o alla liberazione, distruggevano i simboli fascisti. Altri, che da sempre si erano detti critici nei confronti della politica fascista, cercavano di organizzarsi. Altri, scesi per le strade e nelle piazze, si lasciavano andare a regolamenti di conti, aggredendo fascisti o collaboratori, anche in gruppi, malmenandoli e a volte rendendoli in fin di vita. Alcuni fascisti reagirono, altri furono presi dallo sconforto, altri si organizzarono per la fuga, anche rivolgendosi all’ambasciata tedesca per poter lasciare il Paese. Insomma, la situazione era caotica, ma si risolse in una sorta di tranquillità in breve tempo, pur mantenendosi l’incertezza del non sapere bene cosa fare. Alcuni militari, che avevano giurato fedeltà al governo fascista, erano pronti a scendere in armi a Roma per ripristinare l’ordine perduto, ma vennero fermati. Anche coloro che si erano detti favorevoli a Mussolini nella fatidica notte del Gran Consiglio, adesso erano restii a prendere posizione. Badoglio, del resto, aveva sciolto il partito e l’aveva praticamente messo fuori legge, tramutando in ricercati coloro che avevano condannato molti al silenzio per anni. Quindi, ci furono alcuni fascisti che si organizzarono clandestinamente sin da subito, per poter riprendere in mano le sorti d’Italia; anche nelle zone già occupate dagli Alleati anglo-americani, la situazione non era del tutto certa, dal momento che molti fascisti pensavano di riportare presto in carica ancora il loro duce. L’Italia cominciava a dimostrarsi divisa, forse in modo molto più complesso di come siamo soliti immaginarcela, già negli ultimi giorni di agosto e le testimonianze comuni accusavano la mancanza di chiarezza, la mancanza di ordini che diverranno drammatici con l’8 settembre. Tornando, però, alla vicenda umana più che politica di Mussolini in quei giorni, già il 28 luglio circolavano voci tra i tedeschi che fosse a Ventotene o a Ponza. Il 29 agosto, Herbert Kappler era stato informato da un marinaio tedesco in licenza a Gaeta, che Mussolini era stato imbarcato sul “Persefone”. Kappler, allora capo dei servizi segreti di polizia nazisti a Roma, raccolse ulteriori informazioni in tutte le isole Pontine, fino a convincersi che Mussolini fosse stato trasferito a La Spezia, a bordo della “Littorio”; avendo allarmato anche i servizi segreti italiani, questi riuscirono a depistarlo, perché naturalmente ne avevano la convenienza.
Mussolini non voleva cadere nelle mani dei tedeschi.
All’una di notte del 7 agosto, venne svegliato dal maresciallo Antichi che gli gridò che dovevano muoversi, dato che alcune segnalazioni luminose dalle colline avevano fatto pensare a qualche colpo di mano, non si sapeva da parte di chi. Mussolini salì su un barcone che lo portò sul “Pantera”, una nave da guerra, dove seppe dal comandante che Badoglio aveva sciolto il suo partito. Dopo alcune ore, gli dissero che la meta era La Maddalena dove arrivò verso le due del pomeriggio. L’incontro con il comandante della base, Bruno Brivonesi, non fu dei più cordiali, dato che quest’ultimo era stato nominato là per motivi disciplinari. L’ospite venne inviato fuori paese, nella villa Webber, dove trascorse giorni solitari, dal momento che la zona era già stata sfollata in maggio. Gli venne concesso di scrivere, ma di quel materiale non rimase nulla. Antonio Basso, comandante della Forze Armate in Sardegna, era molto preoccupato, tuttavia, perché La Maddalena era troppo vicina alle zone controllate dagli Alleati, pertanto chiedeva che “il personaggio residente” venisse trasferito.
In occasione del compleanno, tuttavia, inaspettato, arrivò il dono del Führer. Accompagnato da una lettera del maresciallo Kessereling, il regalo consisteva in un cofanetto dell’opera completa di Nietzsche in 24 volumi, con dedica autografa.
Era stato possibile consegnare il regalo, a detta di Kesserling, per la benevolenza di Badoglio; Hitler sperava che l’opera del filosofo potesse recargli un po’ di gioia ma, soprattutto, il gesto voleva rassicurare Mussolini sul “personale attaccamento del Führer”. Kesserling esprimeva poi il personale ossequio. Altra sorpresa fu un aereo tedesco, proveniente dalla Corsica, che volò a bassissima quota sulla casa, al punto che il pilota gli fece un cenno di saluto e Mussolini poté vederlo bene in faccia.
Quell’apparizione non poteva essere auspicio di altro se non di un’altra partenza, che infatti venne annunciata la sera del 27 agosto. Alle 4 del mattino del 28 agosto, a bordo di un aereo della Croce Rossa, Mussolini lasciò La Maddalena diretto a Vigna di Valle sul lago di Bracciano. Lì, Mussolini venne fatto salire su un’ambulanza diretta verso Roma, ma giunta ad una circonvallazione, svoltò verso la Flaminia e quindi verso la Sabina. Il viaggio durò fino a L’Aquila, quando tutti furono costretti a scendere dall’ambulanza per un allarme aereo. In quell’occasione, Mussolini poté vedere come anche i soldati fuggivano assieme ai civili, dando il senso dello sbando che regnava. Un uomo gli si avvicinò, definendosi fascista, annunciando il disgusto per un nuovo governo che pure non aveva dato la pace. Il viaggio finì ai piedi della funicolare per  il Gran Sasso, in una villetta, sotto sorveglianza ancora più rigorosa, ma venne concesso all’ospite di leggere la “Gazzetta Ufficiale”.  Ad un certo punto, Mussolini chiese perché fosse lì e gli venne risposto che veniva considerato come detenuto comune. Alcuni giorni dopo, di nuovo pronti i pochi bagagli per andare all’albergo rifugio del Gran Sasso, a 2112 metri di altitudine, “la più alta prigione del mondo”, come l’ospite stesso la definì. La funivia e l’albergo Campo Imperatore che sarebbe stato la sua nuova prigione, erano stati costruiti in epoca fascista.
Sul Gran Sasso attendevano Mussolini, già dalla sera del 26 agosto, 43 carabinieri e 30 guardie di pubblica sicurezza ai quali si sarebbe aggiunto un gruppo cinofilo. Troppi per non dare nell’occhio, dato che nell’albergo risiedevano una ventina di turisti (poi sgomberati) e che la funivia aveva continuato a funzionare, visto il periodo estivo, pertanto non era possibile non notare quel dispiegamento di forze. In tutti i suoi giorni da detenuto e durante i suoi trasferimenti, con momenti di lunga solitudine, Mussolini pare fosse molto prostrato, che si sentisse tradito e che non volesse avere notizie da un mondo che lo aveva abbandonato, ingannato, trattato come sciocca preda di un nuovo corso molto confuso. Dalle sue lettere inviate a varie persone, tra le quali la moglie e la sorella, si avverte il distacco e l’amarezza, mentre è meno probabile il riavvicinamento alla fede. Infatti, tra i pochi libri che aveva a disposizione, c’era una “Vita di Gesù Cristo” che risulta sottolineata soprattutto nei passaggi riguardanti il tradimento di Giuda, come riferimento alla propria vicenda personale; così come la volontà di fare celebrare e possibilmente di assistere alla messa commemorativa per il figlio Bruno, era dettato forse più dalla tradizione che da un vero ritorno alla fede. Altro importante pensiero era di non cadere nelle mani degli Alleati, perché non sapeva che sorte gli avrebbero riservato, così come non si aspettava nulla di buono da parte di Badoglio che non si sarebbe stupito di sapere lo volesse morto. Ormai da Badoglio, infatti, era convinto di potersi aspettare qualsiasi cosa.
Nello stesso modo non vedeva affatto di buon occhio l’idea, se mai gli fosse passata per la testa, di una liberazione da parte dei tedeschi.
In realtà, il trasferimento sul Gran Sasso non dipese dal sorvolo da parte dell’aereo tedesco de La Maddalena; infatti, gli italiani non sapevano nulla delle intenzioni tedesche di trovare e liberare Mussolini. Hitler aveva ritenuto che le notizie sulla prigionia di Mussolini a La Maddalena fossero troppo poche per agire, e così venne rimandato il blitz liberatorio. Però, quando dalla terrazza della villa che l’ospitava, accanto ad Antichi, l’ex duce vide l’aeroplano, si lasciò scappare che i tedeschi l’avevano già individuato. Non si sa nulla del tono adoperato, forse sarcastico, ma di certo Mussolini cominciò a lamentarsi del clima de La Maddalena, quasi a intendere che non voleva stare più lì, troppo vicino agli Alleati e scoperto dall’alleato germanico. In ogni caso, dei giorni di detenzione sul Gran Sasso si conosce poco, malgrado siano stati i più importanti di tutta la vicenda di Mussolini prigioniero. Egli era alloggiato al secondo piano dell’albergo, in un appartamento composto da ingresso, una camera da letto, un salottino, un bagno; l’alloggio era comunicante con la stanza dove alloggiava il carabiniere di sorveglianza che fungeva anche da suo attendente. Per pasto Mussolini consumava riso in bianco, uova, cipolle cotte, poca carne, latte e molta frutta; dopo colazione scendeva nella hall dell’albergo a chiacchierare con l’ispettore Gueli e il tenente Faiola, ammirando ogni tanto il panorama con un cannocchiale. Dopo pranzo, sempre accompagnato, usciva per una passeggiata fino alle quatto e mezza, poi rientrava nel suo appartamento dove cenava alle sette di sera. Quindi scendeva di nuovo nella zona giorno dell’albergo per giocare a scopone con i suoi sorveglianti, ascoltando la radio tedesca, inglese e americana. I contatti con Roma diventavano sempre più difficili e, a parte il dispiegamento di forze adatto a difendere la posizione via terra, nessuno aveva pensato ad un attacco aereo. Gueli e Faiola soprattutto, non sapendo che piega avrebbe preso la situazione, pur rispettando alla lettera gli ordini, cercavano di dimostrarsi amici di Mussolini, in caso tutto si fosse risolto in suo favore. Peraltro, la sorveglianza che appariva così stretta, non lo era abbastanza per vietare alla segretaria dell’albergo, Flavia Magnanelli, di telefonare a lungo giornalmente, parlando in tedesco, anche se è sempre stato impossibile sapere se fosse in contatto con i servizi segreti tedeschi. I tedeschi, dal canto loro, avevano da subito notato l’arrivo dell’aereo della Croce Rossa, si erano messi in allarme ed erano scattate le operazioni di sorveglianza per raccogliere informazioni. Questa volta, tutto deponeva perché sull’ambulanza che si era allontanata dall’aereo ammarato ci fosse proprio Mussolini. Questi sul Gran Sasso cominciò a peggiorare, soprattutto psicologicamente, dimostrando segni di cedimento che divennero evidenti dopo l’8 settembre, giorno del fatidico annuncio dell’armistizio da parte di Badoglio. Egli accolse la notizia urlando al tradimento e preannunciando che i tedeschi non avrebbero mai perdonato il voltafaccia, auspicando giorni infausti per l’Italia. L’indomani fu necessario chiamare un medico da L’Aquila perché l’ulcera dava forti dolori, segno proprio della tensione del giorno precedente. Il peggio si ebbe l’11 e 12 settembre, perché quando Mussolini realizzò che tra le clausole dell’armistizio di Cassibile con gli anglo-americani c’era la sua consegna a loro, cercò di tagliarsi le vene dei polsi con una lametta da barba. I carabinieri di guardia intervennero in tempo e sequestrarono ogni tagliente al prigioniero che, comunque, era certo non si sarebbe mai consegnato vivo agli anglo-americani. Quindi gli ospiti di Campo Imperatore seppero dell’occupazione di Roma da parte dei tedeschi e alcuni si chiesero perché nessuno reagiva per impedire che questo accadesse. L’ordine di Badoglio era di non fare cadere vivo Mussolini nelle mani dei tedeschi e quindi, adesso che gli ordini arrivavano a stento e che il Re e Badoglio erano  a Taranto, che fare? Era evidente a tutti che i tedeschi avrebbero cercato Mussolini, non si sapeva bene con quali intenzioni, ma non era chiaro se dovevano difenderlo e impedire che i nazisti se ne appropriassero, oppure se dovevano lasciarglielo.
Le conversazioni dei sorveglianti deponevano per non opporre resistenza nel caso di attacco tedesco al fine di liberare Mussolini, che il 12 settembre sembrava sempre più probabile, anche in ottemperanza del nebuloso “agire con prudenza” che veniva dal Viminale, prima che il ministro lo lasciasse. La questione dell’eventuale liberazione di Mussolini da parte tedesca, infatti, era prettamente politica, dal momento che la situazione attuale era così diversa da quella che aveva portato al suo arresto, pertanto non era detto che le disposizioni di allora dovessero valere ancora adesso. Agire con prudenza, lasciando all’andamento dei fatti la scelta, era tipico di quel momento, perché nessuno si voleva prendere la responsabilità di decidere per mettere in atto le disposizioni badogliane sul non lasciarlo vivo nelle mani dei tedeschi. Ora che quelli erano a Roma e Badoglio a Taranto, come si poteva pensare di uccidere Mussolini, gettando ancor più caos in quei giorni concitati e privi di ordini certi? I documenti filo-badogliani deponevano per la dimenticanza da parte del capo del governo, nell’atto di lasciare Roma per seguire il Re al sud, di impartire ordini circa Mussolini; addirittura scrivevano che Badoglio non conosceva la clausola americana che prevedeva la consegna dell’ex duce a loro, fatto assolutamente improbabile. Più probabile è che si aspettasse che le sue originarie disposizioni a Gueli e Faiola venissero obbedite e che, quindi, Mussolini non dovesse e non potesse cadere vivo in mano tedesca.
Alle due e venti pomeridiane del 12 settembre, una colonna composta da circa cinquanta motocarrozzette blindate e armate di mitragliatrice, autoblindo, dieci carri armati, circa quaranta camion e camionette carichi di soldati, tre camion della Croce Rossa, un’ambulanza, travolse il posto di blocco dei carabinieri della stazione base della funivia per Campo Imperatore e se ne impossessò. La colonna era a sua volta protetta da altri armati. Alle due e trenta, su Campo Imperatore apparve un gruppo di aerei da trasporto dai quali vennero sganciati nove alianti che avevano trascinato a rimorchio fino lassù. Mussolini osservava la scena e disse: “Questa non ci voleva”. Con la funivia cominciarono a salire altri tedeschi di rinforzo. Dagli alianti scesero dei paracadutisti, un centinaio, mentre dal primo dei velivoli scese un ufficiale italiano che, senza mettersi carponi come gli altri, andò direttamente verso l’albergo, seguito da un uomo delle SS. Mussolini dalla finestra gridò di non sparare e non spargere sangue. L’operazione era stata ideata da Student, abile e valoroso comandante delle truppe paracadutiste tedesche, ma con Mussolini adesso parlava il capitano delle SS Skorzeny che, proprio per la sua parte attiva nell’azione, alla fine ne ebbe anche i meriti. Nel discorso, in tedesco, veniva ripetuto il nome di Hitler e Mussolini lo ascoltò in silenzio, quasi a volersi rendere conto del reale significato di tutto quanto accadeva. Quindi, il capitano gli chiese dove volesse essere condotto, domanda abbastanza strana e inaspettata per i frangenti; e Mussolini, che espresse ai suoi che avrebbe preferito essere liberato dagli italiani, stupito della domanda, rispose che desiderava recarsi  alla Rocca delle Caminate. I carabinieri raccolsero le sue poche cose, lui infilò un cappotto nero e un cappello floscio e seguì il capitano; quest’ultimo era parecchio sulle spine perché temeva un attacco aereo Alleato. L’uscita di Mussolini dalla prigione venne documentata da un paracadutista tedesco armato di macchina da presa. L’aereo cicogna che lo avrebbe portato alla liberazione era pilotato da Gerlach e, mentre si aspettava di essere portato dalla sua famiglia, Mussolini seppe, invece, che Hitler lo attendeva in Germania. Arrivati a Pratica di Mare, il duce dovette salire su un Heinkel diretto a Vienna; l’indomani mattina partì alla volta di Monaco dove i tedeschi avevano già accompagnato la moglie Rachele e i figli Anna Maria e Romano con i quali poté restare fino al giorno seguente. Il 14 settembre 1943, in aereo, Mussolini fu condotto a Rastenburg dove un cordiale e fraterno Hitler lo accolse.

*Comm. Alessia Biasiolo, Federazione provinciale di Brescia


Bibliografia essenziale
Frederick William Deakin: “Storia della Repubblica di Salò”, Einaudi, Torino, 1970
Renzo De Felice: “Mussolini l’alleato”, Einaudi, Torino, 1997
Benito Mussolini: “Pensieri del Gran Sasso d’Italia”
Arrigo Petacco, Sergio Zavoli: “Dal Gran Consiglio al Gran Sasso”, Mondadori, 2013


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