GEOPOLITICA DELLE PROSSIME SFIDE
Il carisma
iraniano e la Rivoluzione Islamica.
Silvia Nicolardi
Alla luce dei rivolgimenti che
hanno interessato il quadrante mediorientale, dal 2010 in poi, non si può fare
a meno di volgere lo sguardo alla Repubblica Islamica dell’Iran.
Con un anticipo di circa trent’anni
rispetto agli altri Stati del quadrante mediorientale, l’Iran ha messo in atto
quella sua particolare Primavera dalle sfumature sciite, rendendo ancora
attuale e interessante l’analisi delle dinamiche che nel 1979 hanno plasmato e
caratterizzato il suo assetto istituzionale.
Il presente scritto avrà
dunque il suo focus sugli anni
immediatamente precedenti la Rivoluzione khomeinista e sulle modalità di
transizione della monarchia iraniana verso lo Stato islamico. Modalità di
transizione che ricordano, in particolare, quanto sta accadendo nell’Egitto dei
Fratelli Musulmani dal novembre del 2012 fino ad oggi.
La prima
rottura negli equilibri della società iraniana fu segnata dalla cosiddetta Enqelab-e Sefid, o Rivoluzione Bianca. Avviata
nel 1963, l’Enqelab costituì un
processo di modernizzazione ed occidentalizzazione forzata, suggerito
dall’amministrazione Kennedy allo Shah Mohammed Reza Pahlavi.
Le ragioni
che spinsero Washington e Teheran ad avviare il piano di riforme[1]
sottostavano a due differenti logiche di potenza. Dal lato statunitense, la
presenza di un forte partito comunista[2]
in Iran prospettava il pericolo di un’ipotetica “contaminazione” sovietica del
Paese, per cui agganciare il Paese a Washington con ingenti finanziamenti a
programmi di modernizzazione, appariva come il modo migliore per allontanare la
società iraniana da un’evoluzione in senso socialista.
Da parte
iraniana, lo Shah vedeva nel legame con gli Stati Uniti, una risorsa da
sfruttare al fine di incrementare il peso geopolitico del proprio Paese e per
risanare il deficit nella bilancia dei pagamenti nazionale.
I
disequilibri sociali cui portò il programma si tradussero nella rottura della Taqiyya[3]
da parte del clero sciita, tradizionalmente quietista, preludio di quanto
sarebbe accaduto un decennio più tardi. E precisamente nel convulso Giugno 1963,
emerse la figura dell’Ayatollah
Ruhollah Khomeini: risoluto avversario dello Shah e delle sue riforme anti
islamiche, attaccò pubblicamente il regime, invitando il clero a rompere con il
quietismo[4].
In esilio
in Iraq per i dissensi manifestati verso lo Shah, l’Ayatollah sviluppò il proprio pensiero politico fino a giungere
all’elaborazione del principio del Velayat-e
Faqih, il governo del giurisperito. L’Ayatollah
tenne a Najaf, nel 1970, una serie di lezioni raccolte nel testo Velayat-e Faqih: Hokumat-e Islami (La
Tutela del Giureconsulto: il Governo Islamico). Qui, alla luce della minaccia
mossa dalla monarchia all’etica islamica della società iraniana, egli sostenne
l’ineludibilità di uno Stato islamico per ricreare sul piano terreno la
“società dei migliori” voluta dal Profeta. Uno Stato retto dal migliore tra i
dotti religiosi avrebbe ricreato un ambiente pronto ad accogliere il Mahdi, il
dodicesimo Imam occultato. Uno Stato islamico sarebbe poi stata la più efficace
risposta alla forzosa introduzione dei principi politici, economici e culturali
occidentali.
Khomeini s’impossessò
di slogan e temi delle altre forze d’opposizione attive nell’arena politica
iraniana, ricreando un composito programma politico, condiviso da un ampio
strato della popolazione. Egli rivestì con l’immediatezza e semplicità di un
linguaggio afferente all’antica e radicata tradizione sciita, temi mutuati dal
movimento democratico-liberale, dal Tudeh
e dal Fronte Nazionale. La lotta contro un potere politico arbitrario e
oppressivo, l’obiettivo della giustizia sociale, la difesa della sovranità
iraniana costituirono i punti nodali della propaganda khomeinista.
Il
carismatico Ayatollah comprese come
veicolare efficacemente un messaggio politico a masse estranee dalla res publica iraniana: facendo riferimento
alla tradizione nota e condivisa della Shi’a,
trasmise abilmente gli stessi messaggi che i partiti politici iraniani non erano
riusciti a diffondere.
Dal 1963
dunque, si verificò un’inversione di tendenza nell’approccio del clero alla
politica. Questo si unì poi ad una saldatura, nell’azione dei destabilizzazione
del regime monarchico, del clero con i Bazari,
l’attiva classe sociale legata al Bazar,
il mercato, danneggiata dalle riforme economiche dell’Enqelab.
Man mano
che le proteste sociali crescevano, il prestigio dell’Ayatollah in esilio andava aumentando fino ad ottenere, da parte delle
maggiori forze politiche del Paese, il riconoscimento di leader indiscusso dell’opposizione alla monarchia Pahlavi.
Con
l’avvento della presidenza Nixon nel 1969 e la sua politica estera di détente[5],
l’Iran, al confine meridionale dell’Unione Sovietica, affacciato sul Golfo e
ricco di risorse energetiche, si presentava come il candidato ideale per
svolgere il compito di sentinella dell’Occidente nello scenario mediorientale.
Con un viaggio
a Teheran, nella primavera del 1972, il presidente Nixon e il segretario di
Stato Kissinger conclusero con lo Shah il sodalizio.
La
disponibilità del sovrano ad assecondare le richieste statunitensi era dettata
non solo dall’esigenza di alleviare la compromessa situazione economica del
Paese e di attenuare i disagi della popolazione, ma anche, e soprattutto, dall’opportunità
di fare dell’uscita di scena britannica dal Golfo Persico, l’occasione d’oro
per assurgere allo status di potenza regionale nel quadrante[6].
Divenire il maggior partner degli Stati Uniti significava, per l’Iran, detenere
la posizione egemone nell’area, permettendogli di liberamente agire e sfruttare
a proprio vantaggio, con il benestare e il supporto – economico e tecnico –
degli amici americani, una regione ricchissima e strategicamente ubicata.
L’identificazione della politica estera iraniana con quella americana aumentò ulteriormente
l’impopolarità dello Shah presso un Paese in cui orgoglio nazionale e
sentimento antiamericano, legato al colpo di Stato ai danni di Mossadeq[7],
erano molto forti.
Nel
frattempo, l’aumento degli introiti petroliferi a causa dell’impennata del
prezzo del greggio nel 1973[8],
non acquietò gli animi degli iraniani, nemmeno alleviarono la crisi economica
in cui versava il Paese da ormai un decennio[9].
Il popolo protestò contro l’imponente spesa nazionale destinata all’acquisto di
armamenti, futile in un settore già ampiamente potenziato. Gli iraniani
chiesero di dar priorità alle politiche sociali di cui aveva bisogno, e di
mettere in secondo piano le politiche di difesa. Inoltre gli acquisti di
armamenti avevano luogo negli Stati Uniti, portando dunque ad un ritorno in
mano statunitense di quei fondi sottratti a Washington stessa per mezzo delle
abili manovre in sede OPEC.
A fronte della
celere perdita di consensi presso la popolazione, a metà degli anni ’70 l’immagine
della monarchia appariva completamente deteriorata. Sotto l’incalzare della
dura repressione e dell’inesorabile marcia dello Shah verso l’Occidente,
religiosi e componenti politiche secolari si unirono in un connubio
antimonarchico e antiamericano.
L’evento
che spinse definitivamente il clero a scendere in piazza al fianco degli
iraniani, il 9 gennaio 1978, fu la pubblicazione di un articolo, su un
quotidiano controllato dal governo, che accusava Khomeini di essere una spia
britannica e di essere omosessuale. Muovendosi in difesa dell’Ayatollah in esilio, il popolo dette avvio
ad una serie di manifestazioni e scioperi che si protrassero durante tutto
l’anno.
Mohammed
Reza Shah rispose introducendo la legge marziale e contemporaneamente, premendo
le autorità irachene a trasferire Khomeini a Parigi, al fine di allontanare dal
Medio Oriente l’Ayatollah rivoluzionario. Questa fu la mossa fatale alla
dinastia: anziché isolare Khomeini, il trasferimento lo pose sotto i riflettori
dell’opinione pubblica mondiale. La sua voce ebbe ancor più risonanza in tutto
il Medio Oriente e il popolo iraniano, incalzato dalla guida, si spinse
completamente alla rottura con il sistema monarchico.
Seguirono massicci
scioperi fino all’Ottobre del 1978, mese in cui l’Iran cadde in ginocchio con
l’interruzione delle produzioni industriale e petrolifera e con l’arresto degli
afflussi di capitale nel Paese. L’erogazione di energia elettrica fu sospesa e
il sistema dei trasporti si arrestò: l’apparato statale era paralizzato. Il 5 Novembre
ebbe luogo la protesta più imponente del periodo di fermento antimonarchico: l’ambasciata
britannica fu attaccata, gli uffici del governo e i negozi saccheggiati, una
statua dello Shah nell’ateneo di Teheran rovesciata. Il sovrano nominò un
governo militare, e, nell’estremo tentativo di salvare le simpatie della classe
media e laica del Paese, nominò premier Shapour Bakhtiyar, membro del laico
Fronte Nazionale.
Da Parigi,
Khomeini continuava a incoraggiare gli iraniani e a demandar loro di non cessare
la mobilitazione totale del Paese. Gli eventi continuarono a precipitare, fino
al Dicembre 1978, quando prese avvio una dimostrazione popolare, con a capo due
Ayatollah, Talaqani e Sanjabi, che
coinvolse circa due milioni di iraniani. La protesta continuò fino al Gennaio
del 1979, accompagnata da ricorrenti diserzioni nell’esercito. Gli iraniani chiedevano
le dimissioni del premier, l’abdicazione dello Shah e soprattutto, il ritorno
dell’Ayatollah Khomeini in patria.
Egli rientrò in Iran il primo
Febbraio 1979. Nei giorni seguenti, quel
che restava dell’establishment precedente
si avviò al disfacimento. Su impulso di Khomeini e del Comitato Rivoluzionario
Islamico (Cri)[10], il
clero operò per la creazione di nuove, parallele istituzioni, smantellando definitivamente
gli ereditati resti dell’assetto istituzionale monarchico.
Con
l’esecutivo affidato a Mehdi Bazargan e a ministri provenienti dal suo partito,
il Movimento di Liberazione dell’Iran, e dalla corrente laica del Fronte
Nazionale, le forze più attive della rivoluzione, quelle religiose e quelle di
sinistra, furono escluse dalla compagine governativa. La loro assenza
dall’arena politica invece di danneggiarle, le avvantaggiò, consentendo loro
un’ampia libertà di manovra e di non assumersi la responsabilità delle
difficoltà che il Paese viveva.
L’azione del Cri, i cui
obiettivi erano lo svuotamento di potere delle istituzioni nazionali e la
liquidazione delle forze politiche liberali e nazionalistiche dalla nuova scena
politica, indebolì Bazargan che cercava, con scarsi risultati, di rafforzare la
propria autorità. Egli fu dapprima posto di fronte all’esautorazione del quadro
istituzionale ufficiale con la nascita dei Komiteh,
i comitati rivoluzionari sorti su impulso delle sinistre[11].
In seguito, dovette fare i conti con l’impossibilità di controllare gli
islamisti e il clero khomeinista[12].
Per mezzo del Cri, Khomeini divenne centro politico dell’assetto istituzionale che
andava creandosi e assunse la direzione dei Komiteh[13],
divenuti parallele istituzioni rappresentative a base locale.
Fondamentale
nel processo di destrutturazione dell’apparato statale monarchico, fu la
creazione dell’imponente Bonyad-e
Mostazafin, la Fondazione degli Oppressi, che inglobò i beni confiscati
alla Fondazione Pahlavi e i depositi bancari della famiglia regnante e di
quelle ad essa legate. Controllata da ‘Ali Khamenei e da Rafsanjani, la
Fondazione era al servizio di Khomeini e finanziava la rete organizzativa e gli
ufficiosi centri di potere legati al Comitato Rivoluzionario.
L’Iran si ritrovò in breve
tempo imbrigliato in una situazione di doppio Stato. Da un lato, vi erano istituzioni
ufficiali esautorate, manchevoli di credibilità e guidate da una classe
dirigente priva della fiducia e dell’appoggio popolari. Dall’altro lato, vi
erano Khomeini, il Cri e la Bonyad-e
Mostazafin, istituzioni parallele che si occupavano di economia e servizi
sociali, e i Komiteh, strumenti con i
quali l’Ayatollah mise in piedi
l’efficiente rete dei tribunali militari e in seguito il corpo dei Sepah-e Pasdaran-e Enqelab-e Islami,
Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica[14].
La
situazione di dualismo istituzionale appena descritta si avviò verso una
ricomposizione alla fine del Marzo 1979, quando gli iraniani decisero di
abolire la monarchia e instaurare una Repubblica Islamica. Il referendum vide
la partecipazione di oltre venti milioni di cittadini e il 98,2% di essi scelse
la Repubblica.
Il cambio di regime si
consacrò nella nuova Costituzione, espressione del principio khomeinista del Velayat-e Faqih; lo Stato islamico era
nato.
Silvia Nicolardi, laureanda (2014) in Relazioni Internazionali presso l’Università degli studi di Roma “La Sapienza”. Interesse personale ed esperienze lavorative, hanno definito il focus del lavoro finale di tesi sul Medio Oriente e le direttrici di sviluppo del carisma iraniano nella regione.
[1] Il piano di riforme si
sviluppava lungo i seguenti punti: riforma agraria; privatizzazione di numerose
industrie statali; nazionalizzazione delle risorse idriche, delle foreste e dei
pascoli; creazione dell’esercito del sapere, per sconfiggere l’analfabetismo e
migliorare l’assistenza sanitaria nelle aree rurali; estensione del diritto di
voto attivo e passivo alle donne e modifica del tradizionale codice di
famiglia; istituzione di tribunali civili nelle aree rurali, per ridurre il
potere del clero sciita e dei tradizionali tribunali religiosi.
[2] Il partito comunista
iraniano, il Tudeh, era considerato
uno dei maggiori partiti comunisti del Medio Oriente. Nato nel 1941 nella
capitale iraniana, poco dopo la forzata abdicazione di Reza Shah, riscosse
consensi presso intellettuali, studenti, operai delle industrie. Da subito
pedina dell’URSS in Iran, favorì la deriva autoritaria del governo monarchico
con il benestare delle varie presidenze statunitensi, interessate a contrastare
il contagio comunista di quell’area così preziosa per i propri
approvvigionamenti energetici. La fobia del comunismo portò sia lo Shah che la
potenza statunitense a sopravvalutare l’ascendente che il Tudeh aveva sulla società iraniana: difatti, nonostante godesse di
ampi consensi, la sua ideologia era saldamente ancorata a quella sovietica,
dunque fortemente intrisa di ateismo, distante dalla società iraniana. Il
partito propugnava la creazione di un governo popolare, legato a uno Stato collettivista,
privo di classi sociali, completamente laico e slegato da qualsiasi valore
religioso. L’ateismo era, secondo il Tudeh,
condizione necessaria alla liberazione delle masse e la religione condizione di
arretratezza della società e fattore di dominio da parte di un’esigua classe
sociale sul resto della massa, già oppressa da un regime monarchico tirannico.
Il Tudeh era perciò avulso dal comune
sentire della maggior parte della popolazione iraniana, che prima ancora di
catalogarsi come facente parte di una società che lottava contro il dispotismo
di un regime indesiderato, si sentiva parte di una comunità religiosa, quella
della Shi’a, elemento questo che
ancora oggi contribuisce a definire identità e sistema valoriale della
popolazione iranica. Il partito vide un declino dei propri consensi negli anni
Settanta, vuoi per la distanza dei suoi programmi dalla forma mentis della
popolazione, vuoi per la crescita di movimenti di sinistra islamisti, che
coniugavano l’islam con temi mutuati dall’ambiente politico di estrema
sinistra, quale quelli della giustizia sociale e della rivoluzione.
[3] La Taqiyya, dissimulazione, delinea originariamente l’atteggiamento di
rinnegamento esteriore della propria religione nel caso in cui l’aperta
professione di fede rischiasse di mettere in pericolo la sopravvivenza dei
fedeli e della religione stessa, ad opera di un potere temporale tirannico che
la soffochi e la calpesti. Nel corso dei secoli, il concetto si è evoluto e
ampliato anche nel senso di copertura del dissenso verso il potere tirannico
che, qualora contestato, comportasse un grave pericolo per la comunità
religiosa. La Taqiyya corrisponde
pertanto a quel principio quietista abbracciato dal clero sciita, secondo cui
sono da evitare sia il diretto coinvolgimento nella politica e negli affari di
Stato, sia il dissenso aperto con il governante di cui non si condividano
scelte e azioni, per evitare la fitna,
il conflitto, che potrebbe sfociare in una guerra civile.
[4] Prima della Rivoluzione del
1979 il clero intervenne nella cosa pubblica iraniana in due altre occasioni:
durante la rivolta del tabacco del 1890 e durante la rivoluzione costituzionale
del 1905. Le sue prese di posizione in queste due occasioni erano finalizzate a
negoziare con il potere uno scambio politico che, sanando i dissensi,
ristabilisse un equilibrio all’interno della compagine istituzionale. Oggetto delle
richieste del clero era, in entrambi i casi, il monopolio del controllo del
diritto, più che la volontà di realizzare uno Stato islamico.
[5] Una volta fallito il containment diretto con l’esperienza
vietnamita, la presidenza americana, sotto impulso del segretario di Stato
Henry Kissinger, abbracciò la cosiddetta détente,
la distesa nei rapporti con l’altro blocco. La détente prevedeva la creazione di legami amichevoli con alleati, di
volta in volta da definire, in ogni quadro regionale, in modo tale da creare un
“guardiano” degli interessi occidentali, ma solo laddove questi ultimi si
configuravano come vitali.
[6] Negli anni Settanta,
difatti, il disimpegno della potenza inglese dallo scacchiere mediorientale
determinò un vuoto di potere, che il Regno era determinato a colmare; ambizione
per quella posizione egemone, per altro, condivisa dall’altra potenza
petrolifera della regione, l’Arabia Saudita, con la quale la monarchia persiana
si avviava ad un contrasto insanabile.
[7] Mohammad Mossadeq divenne
primo ministro del Regno nel 1951; personaggio politico proveniente dal campo
del nazionalismo, del costituzionalismo e del liberalismo, coordinava il Fronte
Nazionale e il proprio programma politico era incentrato sulla difesa
dell’integrità territoriale iraniana, minacciata tanto a livello interno, dalle
istanze indipendentiste provenienti dalle minoranze presenti sul territorio,
tanto a livello esterno, dalle continue interferenze delle potenze occidentali,
le quali, fra le varie strategie messe in pratica, cercavano anche di dare
impulso alla disgregazione etnica. Il programma di Mossadeq inoltre mirava a
modernizzare i meccanismi di potere
iraniani, riducendo il potere arbitrario dello Shah a vantaggio del Majles e
della Costituzione. A seguito di continue, inascoltate richieste all’establishment inglese di una più equa
ripartizione dei proventi petroliferi e di una maggiore trasparenza nella loro
gestione, nel 1951 egli si adoperò per la nazionalizzazione dell’industria
petrolifera, segnando la fine della Anglo-Iranian
Oil Company (AIOC) e creando la National
Iranian Oil Company (NIOC). La reazione inglese fu quella di isolare l’Iran
dal mercato petrolifero e di paralizzare gli impianti di estrazione con il
ritiro del personale tecnico straniero. Successivamente, la Gran Bretagna si
impegnò nel convincere il conciliante ed attendista Truman che la svolta in
senso nazionalista avrebbe poi coinciso con una saldatura degli interessi
dell’Iran di Mossadeq con quelli sovietici. La situazione critica andò
deteriorandosi fino al 1953, quando lo Shah cercò invano di sostituire Mossadeq
come primo ministro e si autocondannò all’espulsione dal Paese. Poco dopo i servizi
segreti statunitensi e britannici misero in atto l’Operazione Ajax, putsch militare che portò all’arresto di
Mossadeq. Per una trattazione puntuale
della vicenda e sul suo significato nel sentimento nazionale iraniano, Stefano Beltrame, Mossadeq, l’Iran, il Petrolio, gli Stati Uniti e le Radici della
Rivoluzione Islamica; Rubbettino Editore; 2009.
[8] In occasione della
riesplosione del conflitto arabo-israeliano, i Paesi produttori di petrolio
decisero di utilizzare come arma politica la propria risorsa. Lo Shah assunse
il pieno controllo della NIOC e in sede OPEC spinse tutti gli Stati membri alla
fissazione di un prezzo comune, aumentandolo dai 2 dollari del 1971 ai 12
dollari per barile, del 1973. Ciò al fine di raggiungere l’obiettivo di un
imponente trasferimento di fondi dai Paesi consumatori di energia, alleati del
Piccolo Diavolo israeliano o benevoli nei suoi confronti, ai Paesi produttori
di petrolio, la cui maggior parte era decisa invece ad appoggiare il popolo
palestinese, nella lotta contro il neonato Israele, in chiave anti-americana.
[9] Le entrate dell’Iran,
infatti, aumentarono ma furono tutte reinvestite in infrastrutture, progetti
industriali, nella ricerca nucleare e nell’acquisto di armamenti.
[10] Il Comitato venne creato da
Khomeini a Parigi nel Gennaio 1979, poco prima del suo ritorno in Iran. Alla
creazione vi contribuirono chierici combattenti come Behesti e Motahari; anche
laici secolari vi presero parte, ma forte era la partecipazione della corrente
khomeinista del clero sciita. Il Cri ebbe un ruolo decisivo nella
destrutturazione dello Stato e nella delegittimazione delle istituzioni rimaste
ancora in piedi.
[11] Questi, attivi
nell’epurazione delle forze armate, delle università, della pubblica
amministrazione, misero in piedi un’efficace rete di tribunali rivoluzionari,
preposti al giudizio e alla condanna di personaggi legati alla crollata
monarchia.
[12] L’azione di quest’ultimo fu
inizialmente mirata allo smantellamento del sistema giudiziario laico,
creandone uno nuovo, modellato sui principi islamici.
[13] Dopo le prime fasi
rivoluzionarie, in cui esacerbò e fomentò gli animi per servirsene ai fini del
crollo del regime monarchico, Khomeini pose sotto controllo del Cri l’anarchia
dei Komiteh rivoluzionari, al
contempo, sopprimendone alcuni e raggruppandone altri.
[14] Meglio noti come Pasdaran, essi svolsero sin dalla
primavera del 1979, funzioni militari e di polizia sia al fine di contrastare
una possibile restaurazione dello Shah, sia per porre un freno alle ambizioni
politiche della sinistra. Il corpo dei Pasdaran, composto da uomini provenienti
dai ceti più bassi, si considerò, fin dalla sua creazione, devoto all’Imam e la
sua sussistenza dipendeva interamente dai finanziamenti della Fondazione degli
Oppressi. La Bonyad-e Mostazafin arrivò a gestire un’imponente quantità di
denaro e dunque fu in grado di finanziare sia le milizie che i seguaci di
Khomeini.
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