UNA FINESTRA SUL MONDO
di
Stefano Ricci
(2014)
Fra i temi più attuali del dibattito politico
comunitario, quello relativo alla recente adesione dei Paesi dell’area centro –
orientale del continente europeo (non ultima la Croazia) alle strutture di
Bruxelles costituisce, di fatto, un argomento centrale nel quadro di sviluppo
di quello spirito europeista che attualmente è stato abbracciato da ben
ventotto paesi.
Eppure, nonostante le promesse d’una rapida integrazione, non solo economica,
ma anche politica e culturale, proprio il cammino verso il conseguimento d’una
comune visione europea, tenuta in considerazione anche una devastante crisi
economica, sembra farsi sempre più difficile; un discorso, questo, che tende ad
ampliarsi e, inevitabilmente, complicarsi se messo in relazione alla condotta
dei governi di quei paesi dell’Europa Orientale che, più di tutti, hanno, negli
ultimi anni, fatto domanda d’ingresso nell’area UE.
Una soluzione, questa, che però non sembra aver trovato il riscontro positivo
delle proprie opinioni pubbliche: nessun plebiscito, ad esempio, ha infatti
avuto luogo in Ungheria, Slovenia, Repubblica Ceca, Slovacchia o Polonia.
A tal proposito, in un clima di evidente sfiducia verso tutta la dimensione
politica europea, sorprende constatare come l’attenta letteratura geopolitica continentale,
da sempre all’avanguardia nell’analizzare simili frizioni, abbia prestato
scarsa attenzione alle cause di quella che, ad oggi, può esser definita come “autentica
ostilità”, da parte di questo blocco di paesi, all’intero assetto comunitario
(il caso Orbán, in Ungheria, non ne costituisce che l’esempio più evidente).
Una deriva, questa, che potrebbe seriamente compromettere l’intero progetto contenuto
nella lontana Dichiarazione Schuman, specie se si collegano tali orientamenti
con le complesse vicende economico – finanziarie che, ormai dal 2007, attanagliano
le strutture governative della stragrande maggioranza degli Stati mondiali;
vicende a cui, questi paesi, hanno risposto con un considerevole aumento di
nazionalismo, autoritarismo, protezionismo e populismo.
Non basta, dunque, per capire questa deriva, tenere unicamente in
considerazione le strategie elettorali ed i principi ideologici delle classi
politiche dell’Europa centro – orientale, come si è pure ampiamente fatto, ma
bisogna scavare a fondo nel loro contesto storico, economico e sociale.
«È la ricerca», soleva ripetere Socrate ai suoi discepoli, «a condurre alla
verità».
I punti di partenza per una simile analisi sono, dunque, essenzialmente tre: la
forte identità nazionale tipica di
questi Stati, la loro disabitudine
all’esperienza democratica e l’influente
presenza dei ceti agrari sulle
politiche interne nazionali; un elemento, quest’ultimo, che trasforma l’intero
panorama partitico orientale rispetto a quello occidentale.
Solo una volta presi in considerazione questi fattori sarà possibile proiettare
la staticità dei metodi storici ed economici verso la dinamicità dell’analisi
geopolitica; solo comprendendo a fondo meccanismi che trovano radice nel
passato secolare di queste popolazioni sarà possibile capire quale sarà il
ruolo che tali paesi potranno giocare in un’ottica non solo europea, ma
internazionale.
Un esempio, potrebbe facilitare queste osservazioni.
Orbán, grazie soprattutto al consenso di cui gode in patria (un successo,
questo, conquistato attraverso una politica fortemente nazional –
conservatrice, vicina all’estrema destra magiara e smaccatamente autoritaria,
ferocemente attaccata in tutta Europa per i suoi modi anti – democratici), ha
da poco avviato una “new innovation strategy”, un nuovo corso economico, cioè,
votato a far confluire gli investimenti esteri nel paese; così, aziende leader
di vari settori industriali, come Mercedes, Audi e Siemens, ora hanno delocalizzato
la produzione dei propri prodotti di punta nell’area delle grandi pianure di
Budapest (lo stesso CERN, del resto, ha lì inaugurato la sua seconda, nuovissima,
sede).
Dopo i recenti, fortissimi, successi economici polacchi, slovacchi e cechi, l’Ungheria
è, dunque di fatto, entrata nell'insieme di quella Mitteleuropa che sta velocemente surclassando tutti i paesi dell’area
mediterranea, con un conseguente processo di “destabilizzazione” che coinvolge
paesi come Italia, Spagna o Grecia.
Un tempo, si era soliti parlare di “Europa a due motori”; adesso, questi
motori, sembrano quasi esser diventati tre: quello mediterraneo, in evidente
difficoltà; quello orientale, risorto dopo il crollo dell’Unione Sovietica,
democraticamente giovane, e quello centro – occidentale, sempre più legato alla
sua controparte polacco – danubiana.
Quale sarà, dunque, il futuro dell’Europa, da un lato colpita dallo scetticismo
dei suoi figli più giovani e, dall’altro, divisa da una sfrenata competizione
economica?
È su queste basi, pertanto, che deve lavorare il processo di integrazione
europeo: se si vogliono mantenere intatti quei meccanismi tanto esaltati nei
vari trattati comunitari che, da Maastricht in poi, hanno dato nuova importanza
al concetto di spirito europeo,
allora bisogna partire dall’analisi delle problematiche che ne frenano il compimento,
mettendo da parte la mera osservazione economica in favore d’un approccio
finalmente culturale.
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