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sabato 2 aprile 2022

Luigi Marsibili. Volume: "La Vittoria ed i suoi artefici". Nota a margine

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Il libro di cui viene presentata la recensione fa parte di una triade dedicata alle “Riflessioni sulla Grande Guerra”. I tre volumi integrano e completano il “Dizionario minimo della Grande Guerra”.

Il primo volume, intitolato “Né alleati né amici. Verso la guerra”, offre spunti di riflessione sul ruolo geopolitico dell’Italia all’inizio del secolo scorso. Come noto, per il primo mezzo secolo unitario l’Italia non ebbe alleati in quanto la Triplice Alleanza, di cui facevamo parte, era semplicemente una assicurazione sulla propria sopravvivenza. Tanto è vero che nel 1914 la Germania e l’Austria non ci vollero al loro fianco per conquistare l’Europa. In particolare l’Austria, la cosiddetta nemica ereditaria, che continuava nella sua politica di considerare l’Italia “una semplice espressione geografica”. Né tantomeno avevamo amici, in quanto la Francia era ancora arrabbiata con noi per la vicenda di Roma, che secondo loro doveva rimanere con il patrimonio di San Pietro; la Gran Bretagna era lontana nel suo splendido isolamento. Sostanzialmente rimanemmo soli sulla scena europea.

Nel secondo volume, intitolato “Una vittoria sul campo. La guerra”, sono riportate riflessioni sulla condotta della guerra da parte dell’Italia. Noi vi entrammo impreparati proprio per volontà altrui ed adottammo criteri operativi e di impiego adottati da tutti i belligeranti, ovvero la guerra di logoramento e l’attacco frontale.

Il terzo volume, intitolato “La vittoria ed i suoi artefici”, descrive in modo molto dettagliato il quadro ordinativo del vertice militare italiano, con gli incarichi ricoperti durante la Grande Guerra dai generali del Regio Esercito ed i relativi periodi di permanenza.

Nel primo capitolo vengono messi a confronto i due capi supremi militari, Luigi Cadorna ed Armando Diaz, con una descrizione delle rispettive personalità e le loro capacità nella condotta delle operazioni.

La figura di CADORNA.

Nato nel 1850 a Pallanza sul lago Maggiore, da una famiglia nobile piemontese, per lui la carriera militare era una missione oltreché una componente importante della tradizione familiare. Era figlio del “liberatore di Roma” dal dominio dei papi, uomo fermo nei principi e nella volontà di realizzarli, per nulla incline al compromesso personale o politico.

Il generale aveva un carattere autoritario, spigoloso, intollerante decisionale e spietato, che lo rendeva affatto simpatico e cordiale.

Prese un esercito scassato e svenato dalla guerra libica e con tenace volontà lo forgiò a sua immagine e somiglianza. Tre milioni di uomini gli obbedivano, o per convinzione o perché temevano la punizione che sarebbe puntualmente arrivata. Dal 24 maggio 1915 alla rotta di Caporetto, nell’autunno del 1917, egli guidò, praticamente solo, la più potente Armata della storia unitaria d'Italia. Aveva previsto, come tutti gli interventisti, una guerra facile e vittoriosa. Purtroppo l’inopinato trinomio: reticolato, trincea, mitragliatrice, trasformarono i suoi sogni napoleonici in una guerra di posizione logorante e sanguinosa. Fu nominato Capo di Stato Maggiore nel 1914, quando era ormai prossimo ai limiti di età ed in un momento estremamente delicato per gli equilibri internazionali. Dovette sostituire, da un giorno all’altro, il tenente generale Alberto Pollio mancato improvvisamente per un attacco cardiaco.

Allo scoppio del conflitto il governo, impegnato nella non facile operazione di ribaltamento delle alleanze, si disinteressò dell’Esercito, demandando di fatto al nuovo Capo di Stato Maggiore ogni responsabilità e potere. Cadorna fù così libero di impostare l’organizzazione di comando a suo piacimento: disciplina ed autorità furono i pilastri della sua azione di comando. Fu grave miopia del Governo il non aver voluto riconoscere a Cadorna con la promozione a Generale d’Esercito (Maresciallo d’Italia), il potere che realmente deteneva. Solo l’incarico e l’anzianità lo distinguevano dai Comandanti d’Armata, un cosiddetto primus inter pares. L’organizzazione del Comando Supremo, responsabile della condotta delle operazioni, fu improntata da Cadorna alla totale mancanza di collegialità. Vi era un capo che dava ordini, tutti gli altri dovevano eseguire al meglio, il capo non aveva bisogno né di consigli né di idee né tantomeno di discussione. Egli si sentiva e si credeva di essere il migliore generale italiano e quindi l’unico in grado di condurre l’Esercito in guerra. Durante le operazioni, anche di fronte agli scarsi successi delle spallate offensive e ai modesti risultati delle battaglie dell’Isonzo, egli non perse la fiducia nell’offensiva. Talvolta ne ridusse la portata e lo sviluppo, accrebbe l’importanza del fuoco, accusò taluni comandanti di inettitudine e di scarsa energia e ne sostituì più di qualcuno, ma l’offensiva rimase per Cadorna il credo vincente.

La vicenda di Caporetto, che si verificò durante la dodicesima battaglia dell’Isonzo, non fù, come molti credono o amano far credere, un errore di Cadorna. Si trattò di un avvenimento improvviso ed imprevisto che diffuse il panico fra le truppe che si credevano circondate, e determinò la paralisi dei Comandi interessati che non si rendevano conto dell’accaduto e vennero superati dalla rapidità degli eventi. Dopo Caporetto la ventata di rinnovamento che percorse tutta la penisola investì anche il Generalissimo, la cui stella cominciò a tramontare.

Con Orlando Capo del Governo che aveva mal sopportato l’autonomia decisionale di Cadorna ed il Generale Alfieri Ministro della Guerra, suo nemico dichiarato, anche l’appoggio del Re si fece precario. A quest’ultimo fu rappresentata l’impossibilità di governare con un capo militare che non accettava nemmeno consigli dal potere politico. A ciò si aggiunse la decisione degli Alleati di non concedere gli aiuti militari richiesti dall’Italia finché Cadorna, ritenuto responsabile di Caporetto, fosse rimasto al suo posto. Il Re, cedendo alle insistenze di Orlando e alla decisione degli Alleati lo sostituì l’8 novembre. Al suo posto fu nominato Armando Diaz.

La figura di Armando DIAZ.

Napoletano di nascita (1861) di discendenza spagnola, apparteneva ad una famiglia della media borghesia. Si affermò quale brillante allievo dell’Accademia Militare e della Scuola di Applicazione di Artiglieria e Genio.

Aveva undici anni in meno del suo predecessore. Di carattere affabile, ben disposto ai rapporti umani, era abbastanza conosciuto ed apprezzato nell’ambiente politico romano. La sua nomina suscitò qualche sorpresa specie tra gli Alleati ma la scelta venne giustificata soprattutto dalla considerazione che dopo Caporetto il massiccio aiuto chiesto agli Alleati sarebbe stato più facilmente ottenibile con le positive doti diplomatiche di Diaz che con l’intransigenza e la scarsa flessibilità di Cadorna. Diaz, che seppe avvalersi in larga misura del consiglio e dell’aiuto dei collaboratori, agì sempre con grande tatto e misura, considerando normale il primato del potere politico ed instaurando un’aperta collaborazione con essa. Oltre a considerare l’uomo come individuo e non solo come numero, curò l’addestramento e lo spirito di corpo, specie dei reparti ricostituiti dopo Caporetto. Applicò tecniche di difesa e di attacco aggiornate e dotò l’Esercito di materiali e mezzi moderni. La situazione generale, rispetto al periodo di Cadorna, era completamente mutata con molteplici segnali a nostro favore. Il rovescio di Caporetto che fu fatale per la fortuna di Cadorna, favorì per contro l’opera di Diaz in quanto determinò una benefica sferzata sul morale delle truppe e sull’opinione pubblica nazionale.

Cadorna e Diaz furono innanzitutto uomini del loro tempo. La guerra aveva accelerato violentemente il processo naturale di rinnovamento di uomini e cose. Gli undici anni di differenza di età riflettevano nella pratica un salto generazionale. Cadorna, per carattere e mentalità, era indubbiamente più legato al passato, mentre in Diaz si avvertiva una mentalità ed una disponibilità alla collaborazione che già risentivano dei fermenti sociali e delle ideologie emergenti.

Nei capitoli successivi viene descritta la struttura ordinamentale del vertice militare italiano al fronte, facenti parte del Comando Supremo, nelle sue varie componenti a livello Stato Maggiore, Armata e Corpo d’Armata.

L’autore in questo ultimo volume mette particolarmente in risalto i risultati positivi conseguiti dalle truppe italiane durante la Grande Guerra, sia sotto il comando di Cadorna che sotto quello di Diaz. Tali esiti furono possibili proprio grazie al vertice militare che era espressione della formazione della classe ufficiali di fine ottocento, la cui fucina era la Scuola di Guerra, creata nel 1867, dopo i fatti di Custoza. I generali italiani seppero condurre le operazioni in modo tale che nell’avversa fortuna non si determinò il crollo e la disfatta; nella fortuna seppero conseguire risultati strategici di portata mondiale.


 

 

 

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