DIBATTITI
Hiroshima,
una scommessa costata migliaia di vite
di
Valentina
Trogu
Negli ultimi anni dell’800 a Lamar, in
Missouri, lavorava la terra un bambino, figlio di agricoltori. Quel bambino era
determinato, poco accomodante e aveva il forte desiderio di cambiare la sua
vita per dedicarsi a principi più nobili e accontentare il suo spirito
combattivo. Harry Truman, così si chiamava, si impegnò ogni giorno duramente
per raggiungere i suoi obiettivi; lesse tantissimi libri, coltivò la passione
per la musica svegliandosi all’alba per esercitarsi al pianoforte e riuscì a
dimostrarsi un valoroso soldato durante la prima guerra mondiale nonostante i
problemi alla vista gli abbiano impedito di accedere all’Accademia di West
Point.
Pian piano, giorno dopo giorno, quel
bambino che lavorava la terra costruì la sua carriera mattone su mattone fino a
diventare Presidente degli Stati Uniti. Chissà se la sua storia sarebbe stata
la stessa sapendo che un giorno, lontano dal Missouri e catapultato al comando
di una nazione, avrebbe dovuto decidere di sganciare una bomba nucleare su una
città del Giappone uccidendo più di centomila persone.
Probabilmente il percorso non sarebbe
cambiato, Harry Truman si è sempre mostrato convinto delle decisioni prese e
non ha mai accennato pentimento dato che viveva in lui la certezza che se la
guerra fosse durante anche un solo anno in più avrebbe causato molte più morti
del singolo attacco su Hiroshima. E dopo Hiroshima anche Nagasaki per
distruggere completamente il potenziale bellico giapponese.
Truman,
da presidente, è stato investito di un potere e di tante responsabilità che
difficilmente altre persone sarebbero riuscite a gestire. C’erano in lui le
doti del leader, capace di prendere decisioni dopo aver valutato attentamente
le circostanze, le conseguenze e le dinamiche in gioco e individuato la
strategia migliore per tutelare la sua gente, i suoi soldati. Lo stesso
presidente ha più volte sottolineato la sua capacità di prendere una decisione
per poi dimenticarla subito dopo; l’introspezione non rientrava nei compiti
della presidenza mentre era un obbligo dimostrare il potere delle verità.
Harry Truman si è sempre assunto la
responsabilità delle sue azioni, anzi le ha urlate al mondo nel suo stile, con
un discorso chiaro, diretto, senza far trapelare alcuna emozione. Dopo aver
dato l’ordine di sganciare la bomba atomica su Hiroshima, il presidente ha
informato tutto il mondo del tragico evento tramite un comunicato letto a bordo
di una nave mentre faceva ritorno dalla conferenza di Postdam. Le sue parole
hanno descritto la scelta di utilizzare una nuova arma dal potenziale
distruttivo devastante per annientare un paese, il Giappone, il cui leader
aveva precedentemente rifiutato la resa; Truman non si sofferma sulle morti
causate dalla bomba atomica ma verte il discorso sulla conquista raggiunta
dalla scienza e sull’obiettivo centrato solamente grazie all’uso del nuovo
strumento bellico dalla potenza superiore a quella di ben venti tonnellate di
TNT, l’annullamento del potere del Giappone di fare la guerra.
Il nemico era sconfitto, l’idea di un
altro anno di combattimenti era stata debellata, le vite di tanti soldati
americani salvate; non contava altro. Il prezzo che i civili giapponesi, donne,
anziani e bambini, hanno pagato si è reso, secondo Truman, necessario per porre
fine ad un conflitto iniziato dai Giapponesi stessi con l’attacco a Pearl
Harbor. Il dare la colpa agli altri può essere servito al presidente per
elaborare una perfetta analisi dei fatti; giustificare le proprie azioni
individuando criticità, limiti e potenzialità di un nemico è il modo più facile
per gli esseri umani di reagire ad una difficoltà, di percepire il senso di
controllo sulla situazione e di scaricare tutte le emozioni negative che
impedirebbero di agire.
Il
mondo ha ascoltato le parole di Truman, ha ascoltato le motivazioni e le
giustificazioni dell’utilizzo della bomba atomica ma difficilmente ne avrà
compreso il senso fino a quando non avrà osservato le conseguenze
dell’esplosione, devastanti e terribili. Le immagini di Hiroshima, un’intera
città rasa al suolo in un attimo dall’impatto con Little Boy, questo il nome
dell’ordigno, rappresentano un punto di non ritorno, una tremenda spada di
Damocle presente sulle teste di tutti. Quel 6 agosto 1945 l’America di Truman
ha scritto la storia, ha firmato una pagina del ‘900 da protagonista al potere
che ha fatto comprendere ad ogni nazione che non conveniva essere nemici degli
americani. Hiroshima è stata la sfortunata vittima di una dimostrazione di
forza bellica da parte dell’esercito americano, ha rappresentato la più grande
scommessa scientifica della storia, come la definì Truman.
Una scommessa, dunque, un prodigio della
scienza che è costata all’America due miliardi di dollari e al Giappone
migliaia di morti. Il bombardamento di Hiroshima si può allacciare alla più
basica definizione di “potere” data dalla tradizione hobbesiana, “la capacità
di raggiungere certi scopi indipendentemente dai mezzi impiegati o dallo status
di autorizzazione a prendere decisioni o a prescrivere degli obblighi”.
L’America ha deciso per tutti, Truman ha raggiunto il suo scopo e poco conta
che il mezzo usato sia stato una bomba con al suo interno Uranio 235.
Pochi secondi e la vita di un’intera città
è stata spezzata senza neanche restituire i corpi delle vittime dato che si
sono dissolti in un istante; la temperatura ha raggiunto i 300/500 mila gradi
per poche decine di millesimi di secondi, sufficienti a creare il nulla.
Tralasciando le conseguenze fisiche e psicologiche dei sopravvissuti che si
trovavano lontano dal punto di impatto, è importante capire perché sia stata
scelta proprio Hiroshima, una cittadina del Giappone di 318 mila abitanti.
L’idea di sganciare la bomba atomica per
porre fine al conflitto era nell’aria già da parecchi mesi. La Germania si era
arresa ma il Giappone rifiutava di intraprendere la stessa strada nonostante
fosse militarmente già distrutto. Truman sapeva che attaccare via terra avrebbe
significato continuare a combattere per mesi e mesi mettendo in pericolo tante
vite dei soldati americani. L’unico modo per convincere il Giappone alla resa
era mettere in atto la più grande dimostrazione di forza mai compiuta. La
costruzione della bomba terminò tra la primavera e l’estate del 1945, mancava
solo la scelta del bersaglio da colpire. Dal mese di marzo i bombardieri
americani lanciavano bombe con un gel incendiario di nome napalm su tutte le
città del Giappone; di conseguenza gli obiettivi importanti e degni di nota
erano rimasti ben pochi, risparmiati solo perché considerati riservati,
intoccabili perché altrimenti non ci sarebbe stato più nulla da distruggere.
Hiroshima rientrava tra queste città riservate perché situata vicino al fiume
Ota e dunque poco adatta ad essere colpita da un ordigno incendiario. Inoltre,
era intatta, ricca di industrie militari e sede del quartier generale che
avrebbe difeso la nazione in caso di attacco; rappresentava, dunque, il
bersaglio perfetto per dimostrare il potere devastante nelle mani degli
americani. Gli abitanti di Hiroshima, risparmiati fino a quel momento, non
potevano sapere che il loro destino sarebbe stato il più crudele di tutti,
seguiti, poco dopo, dai cittadini di Nagasaki.
A
porre materialmente fine alle loro vite è stato Thomas Wilson Ferebee, un ragazzo
di 26 anni scelto dal comandante Paul Tibbets per la sua precisione nel mirare
e colpire un obiettivo. Il giovane bombardiere ha obbedito ad un ordine preciso
ma non era a conoscenza della missione speciale assegnata all’Enola Gay e al
suo equipaggio; non sapeva della potenza devastante della bomba nucleare
nascosta nel vano-bombe dell’aereo. Il suo compito era abbassare la leva al
momento giusto e lo ha eseguito alla perfezione; l’attitudine all’obbedienza
imparata durante l’addestramento non lo ha fatto dubitare nemmeno un attimo
della legittimità della sua condotta, né quel 6 agosto 1945 né negli anni
successivi. Solo a distanza di parecchi lustri Ferebee affermò l’importanza di
guadare indietro per ricordare le conseguenze della bomba ed evitare che un
evento del genere accadesse di nuovo. Le vite, le coscienze, le aspettative di
tanti uomini sono state rivoluzionate quel 6 agosto; il conflitto mondiale non
è solo un insieme di scontri armati ma è un susseguirsi di momenti, emozioni,
decisioni che vanno a comporre una nuova quotidianità per milioni di persone.
La guerra ha numerosi risvolti politici, economici, sociologici e psicologici
così come sono molteplici le condizioni e le circostanze da considerare prima
di emettere giudizi e sentenze.
Il bombardamento di Hiroshima è servito a
Truman per dare scacco matto al Giappone, era l’unica mossa che secondo il
presidente poteva portare velocemente l’America ad una vittoria limitando le
perdite dei suoi soldati e dimostrando al mondo la potenza dell’evoluzione
scientifica. E, oggi, che senso viene dato alla devastazione della bomba
atomica? Riguardare quella tragica pagina di storia serve per cercare di non
arrivare più a quel punto di non ritorno, per fermarsi prima di costringere – o
dare la possibilità – ai leader del mondo di compiere stragi di innocenti per
vincere un conflitto e serve per far comprendere il pesante costo che una decisione
può avere. Non dovrebbero essere più concesse giustificazioni eppure l’odio per
l’altro, il desiderio di rivalsa, di dimostrazione di una inutile superiorità
continuano a serpeggiare nell’animo umano. Viene spontaneo chiedersi, dunque,
se ci fosse stata una alternativa che avrebbe evitato l’utilizzo della bomba
nucleare su Hiroshima ponendo ugualmente fine alla guerra con il Giappone,
sarebbe stata seguita o ignorata a favore della più elevata dimostrazione di
potere?
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