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giovedì 11 giugno 2020

Senza miti e senza eroi: la Grande Guerra in celluloide

DIBATTITI
Una nota riguardante
il rapporto tra il cinema e la prima 
guerra mondiale
di Giovanni Cecini


Il cinema come forma di espressione artistica, nei suoi oltre cento anni di onorato servizio, ha raccontato, stimolato emozioni, fatto rivivere esperienze e dato ampio spazio alla fantasia umana. Per questo la violenza e la guerra non potevano che essere componenti essenziali e muse ispiratrici per sceneggiatori e registi nel modo di narrare caratteri e momenti di vita vissuta. In questo contesto, se la “polizia” e la “criminalità” sembrano sempre i principali protagonisti degli scontri armati e del sangue versato, anche gli avvenimenti bellici hanno saputo accattivare i finanziamenti dei produttori e riempire le sale. Come è ovvio, il conflitto più “raccontato” è stato la Seconda guerra mondiale, sia per l’unicità del suo lungo dipanarsi, sia per le ambientazioni così lontane tra loro, sia per la sua impareggiabile crudeltà dentro e fuori i campi di battaglia. Se nell’immaginario collettivo delle generazioni post 1945 la guerra viene rappresentata di massima dalla battigia macchiata di rosso di Omaha Beach e Navarone è identificata solo dai suoi cannoni, anche la Grande Guerra nella sua glaciale staticità ha saputo dare un contributo attivo e significativo alla proiezione in celluloide.
Ecco quindi interessante analizzare, magari in comparazione, tre pellicole nel loro genere diverse per ambientazione e stile, ma accomunate dal sapore amaro della trincea e dei climi plumbei e soffocanti di un’individualità massificata: Orizzonti di gloria (1957) di Stanley Kubrick, La grande guerra (1959) di Mario Monicelli e Uomini contro (1970) di Francesco Rosi.


Nel 1957 Kubrick era ancora un giovane regista, sconosciuto ai più. Tuttavia fu capace non solo di districarsi con un soggetto altamente difficile e scomodo come quello militare (ambiente verso il quale in seguito continuerà a essere molto critico), ma anche a riuscire a ottenere un successo espressivo, osteggiato da opposizioni e censure. La trama nella sua brutale semplicità pone in risalto l’eterno contrasto non tanto tra il bene e il male, che nella guerra spesso è confuso e indifferenziato, ma tra l’egoismo e la “gloria” di pochi despoti frapposti al sacrificio inutile di tanti comuni mortali. Ecco quindi la denuncia contro quel mondo che vorrebbe misurare il valore militare solo dalla capacità di adattare la propria uniforme a nuove decorazioni e stellette dorate, piuttosto che nel ponderare con saggezza ed equilibrio le responsabilità di un comandante di uomini. Ordini folli diventano quindi, a seconda degli ufficiali che li ricevono, sciagurate perdite sopportabili a fronte di una generosa promozione nel caso del generale Mireau oppure oggetto di aspre critiche nel caso del saggio e paterno colonnello Dax, che solo per necessità si trova a dover obbedire. In questa logica, la gerarchia militare autoreferenziale inverte arbitrariamente le parti: le sontuose stanze piene di cristallo e stucchi, dove la guerra si fa solo sulla carta, vorrebbero rappresentare il massimo dell’eroismo, declassando a vile codardia l’impossibilità di avanzare, causata dalla pesantezza del fango in trincea e dal micidiale fuoco di sbarramento del nemico. L’inevitabile insuccesso dell’azione suicida ordinata viene quindi fatto ricadere in toni snobistici sull’inettitudine dei soldati, aprendo un processo farsa, finalizzato solo a dare un simulacro di legalità a una situazione che ha del paradossale. Sarà proprio Dax a prendere le difese di tre comuni fanti, presi a caso come capro espiatorio e già destinati al plotone d’esecuzione, pur di scaricare la vergognosa colpa dal Comando sulla truppa. La cronaca del processo viene integrata dalla descrizione dei personaggi, ciascuno a suo modo in balia degli eventi, in un gioco degli inganni più grande di loro. Il dramma del carcere si sostituisce all’asfissiante trincea, mostrando il meglio e il peggio di ognuno, nell’evitabile epilogo della condanna dei tre. Dax tuttavia, nella sua disperata indagine, riesce a dimostrare le autentiche responsabilità di Mireau, lasciando però l’amaro in bocca perché nella logica dei «comandanti in poltrona», egli rigetta con disgusto l’incarico dell’ormai estromesso Mireau, che il generale Broulard gli offre, convinto che l’avvicendamento fosse stato da sempre l’unico obiettivo dell’ingenuo colonnello-avvocato.


Il film si conclude con un fugace momento di svago dei soldati che, ignari del loro futuro, prima sbeffeggiano e poi trovano comune commozione per un’impacciata ragazza tedesca, che nella veste di fenomeno da baraccone, viene proposta come comica esibizione canora in una locanda per reduci. Il dramma umano valica quindi i confini e il nemico vero non necessariamente indossa un’uniforme di colore diverso dalla propria; anche perché in tutto il film i tedeschi non si vedono mai!
Per il suo ostentato anticonformisto il film venne bandito nella Francia di De Gaulle fino al 1975, rompendo con il tradizionale senso di aurea nobiltà attribuito al Primo conflitto mondiale. L’interpretazione di Kirk Douglas, alter ego sul set dello stesso Kubrick, dà al film quel tono deciso al personaggio che sa unire e smorzare a vicenda i due mondi opposti che sono quello degli stivali sporchi e lacerati e quello delle giacche lustre e tirate. Il bianco e nero, le musiche marziali, le ampiezze delle inquadrature, l’incalzare degli eventi in una kafkiana lotta contro il tempo e contro l’arbitrio generalizzato rendono Orizzonti di gloria un caposaldo del genere bellico, senza miti e senza eroi.

Inserito in un filone completamente diverso è La grande guerra dove la scanzonata vivacità della commedia all’italiana, di cui Monicelli è un maestro, viene bilanciata dall’umorismo nero che Sordi e Gassman riescono a infondere nei loro personaggi. Anche qui l’eroismo è solo lambito nel suo significato più usuale, per acquisire la veste di un coraggio quotidiano di saper tirare a campare, senza per questo dimenticare di essere soldati in guerra. Ecco quindi i due protagonisti, “volontari” più per necessità delle circostanze che per decisione propria, desiderosi solo di portare a casa la pelle, possibilmente senza mettere a rischio quella degli altri ed egoisti a tal punto da farsi venire scrupoli di coscienza e quindi rivelarsi generosi verso il prossimo. Se la commedia all’italiana ha saputo dipingere la varietà del carattere dei tipi abitanti dalle Alpi alla Sicilia, in questo film mostra come il Carso e il Piave non sono stati solo bandiere al vento e canzoni patriottiche, ma incontro-scontro di realtà regionali anche difficili e conflittuali tra loro. Spesso il grottesco sfida il drammatico: una raffica di mitragliatrice può rivelarsi il mezzo per abbrustolire castagne; lo scambio epistolare amoroso tra un tenente di fanteria e un curato di campagna l’unico modo per far comunicare due fidanzati analfabeti separati dalla guerra. La descrizione struggente e neorealista avvolge lo spettatore, che ride e si diverte, ma che allo stesso tempo si commuove e si identifica nelle trovate e nelle situazioni dei due eclettici protagonisti.
Molti episodi, divenuti ormai classici nell’antologia comica del nostro cinema, evidenziano ancora di più la maestria degli attori e del regista nell’alternare i singoli momenti ed emozioni dei combattenti al fronte: ora allegri per aver ricevuto una lettera o per aver ottenuto un permesso, ora affranti e scoraggiati dopo la battaglia o per la lontananza dello Stato dalle loro quotidiane difficoltà. Anche qui l’uso didascalico di motivetti, di musiche popolari e del formato scope accompagna lo spettatore in un’ambientazione verosimile e molto vicina alla realtà storica narrata.
Al fianco dei due mattatori una serie di validissimi attori (Mangano, Valli, Murgia, Blier), che nella loro semplice genuinità hanno saputo dare un’armonia alla storia, cogliendo tutto ciò che di più autentico emerge in guerra: la paura di morire e il desiderio di poter tornare presto a casa.
Ecco quindi solo una rottura apparente, rispetto alla descrizione dei due protagonisti fatta in precedenza, nella loro finale immolazione eroica, più atto d’orgoglio, che azione patriottica, lontana anni luce dagli esempi risorgimentali e dannunziani, che invece il mito e la cronaca tradizionale ergevano a bella morte. Proprio per questo motivo, aver dipinto il soldato italiano come vigliacco e fragile ruppe uno scomodo tabù e comportò problemi di censura al film, per una società come quella nostrana negli anni Cinquanta desiderosa di valori forti, dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale e il crollo del regime fascista. Tuttavia fu un completo successo, ottenendo ampio consenso anche all’estero, tanto da raggiungere la nomination all’Oscar, ancora oggi citato e apprezzato da esperti cinefili e da non addetti ai lavori.

Molto più simile a Orizzonti di gloria è la pellicola di Rosi, dichiaratamente pacifista e anticonformista, in linea con l’epoca di contestazione e di chiari riferimenti alla guerra del Vietnam. L’impiego di un giovane attore come Mark Frechette, reduce dal successo di Zabriskie Point di Antonioni, e di uno impegnato in tematiche sociali e collaudato come Gian Maria Volonté mostrò sin da subito il tono critico, che il regista continuava a voler infondere nel suo cinema d’inchiesta e di protesta. Il film, liberamente tratto da Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu, alterna tematiche prettamente politiche, dai toni socialisti e antiautoritari, alla sottile narrazione di fatti e di uomini. Come nella pellicola di Kubrick, anche qui si ha una totale dicotomia tra la dura guerra dei soldati e i pindarici sogni del generale Leone, che vorrebbe trasformare i suoi uomini più che in carne da macello in robot forniti di corazze, archetipo delle liriche futuriste, solo per appagare la sua gloria personale. In questo caso però, se il colonnello Dax manteneva una sua identità borghese lottando i suoi superiori con il diritto e con la forza morale, gli ufficiali subalterni in Uomini contro sposano a pieno la causa proletaria e rivoluzionaria, perché «coscienti» che il nemico vero non era rappresentato dai “crucchi”, ma dalla «classe» dei generali e dei politicanti, affamatori e criminali di Stato. Per i soldati l’obiettivo non è più vincere la guerra, ma uccidere Leone e farsi fare prigionieri dagli austriaci al grido di «Kameraden». La parabola che porta anche i più riottosi ufficiali a porsi in contrasto con la dura legge marziale, esemplificata con i concetti di «ammutinamento» e «decimazione», riprende la drammaticità degli episodi precedenti e successivi alla rotta di Caporetto e ai motivi che portarono alla sostituzione di Cadorna.
Anche in questo caso, Uomini contro venne bersagliato da numerose critiche, perché troppo diretto e troppo smaccatamente provocatorio. Due anni dopo il cinquantesimo anniversario della battaglia di Vittorio Veneto, mostrare nella più drammatica e scandalosa veste la «Quarta guerra d’indipendenza», facendo fucilare i gloriosi ufficiali del Regio Esercito per insubordinazione, non sembrava corretto e opportuno non fosse altro per questioni di pacificazione nazionale. Questa inusuale rappresentazione dell’esperienza della trincea venne giudicata pericolosa e da evitare, soprattutto a fronte dei movimenti politici che agli inizi degli anni Settanta riempivano le piazze e terrorizzavano i palazzi della poli

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