DIBATTITI
La storia e la vita di
Pellegrino Artusi
Di Alessia Biasiolo
Nell’agosto 1820, duecento anni fa, nacque Pellegrino Artusi, l’autore de “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, caposaldo della letteratura gastronomica italiana, datato 1891. Pellegrino Artusi, nato nell’allora Stato Pontificio, aveva ricevuto studi irregolari perché il padre lo voleva avviare all’attività familiare di commerciante e, secondo lui, per quel lavoro non servivano tanti studi. Artusi non fu d’accordo con quel punto di vista, rendendosi invece conto che un’istruzione solida e ampia “in qualunque caso è sempre giovevole”. Quindi, pur vendendo stoffe e spezie, Pellegrino viaggiò e si istruì. Nel 1851, il famoso brigante detto il Passatore (Stefano Pelloni), aggredì Forlimpopoli dove la famiglia Artusi viveva e aveva la propria attività, e penetrò in casa loro con i propri sgherri. Pellegrino venne picchiato mentre i ladri razziavano ogni cosa e le donne di casa vennero violentate, tra cui sua sorella. Per questo motivo tutta la famiglia si trasferì nella più sicura Firenze, allora nel Granducato di Toscana. Gli Artusi continuarono a vendere stoffe, anche di seta, e in breve tornarono molto ricchi. Nel giro di pochi anni, Firenze divenne capitale del Regno d’Italia e Pellegrino decise di ritirarsi a vita privata per godere delle sue fortune ma, soprattutto, anche per potersi dedicare a ciò che amava di più: gli studi classici e le Belle Lettere. Scrisse testi su autori italiani, ma il suo diletto era la cucina e così nacque il suo capolavoro indiscusso.
In
Italia l’Artusi è citato come Dante, secondo Alberto Capatti, perché nel suo
libro sono raccolte le tradizioni culinarie di un Paese ricco e complesso in
tal senso, ma soprattutto si tratta di un volume scritto bene, in italiano
semplice e puro. Gli stessi Benedetto Croce e Giovanni Gentile lo citeranno in
una corrispondenza privata. La grande operazione di Artusi fu proprio di
scrivere in Lingua Italiana per un Paese che si era unificato territorialmente
quasi del tutto, ma viveva di lingue differenti, come erano diversi i territori
politici che lo componevano fino a pochi anni prima. Pertanto leggere un libro
di ricette e di arte della buona tavola scritto in modo fluido e facilmente
leggibile, fece sì che intorno alla tavola, veramente, ci si unisse. Altra
operazione interessante di Artusi fu quella di non voler creare una cucina
nazionale, intorno a dei piatti specifici e tradizionali, come aveva fatto la
Francia con i suoi grandi cuochi: i cugini d’Oltralpe codificarono le ricette,
spiegarono come si doveva o non doveva cucinare e soprattutto cosa, offrendo
nei propri ricettari metodi oggettivi a cui il lettore si doveva attenere.
Artusi, invece, nel suo lavoro raccontava soltanto la cucina italiana, con
pietanze ricche per ogni angolo e, soprattutto, così legate alla singola realtà
che sarebbe stato impossibile darne regole uniformi in tutto il territorio.
Questa fu la fortuna del libro, molto amato e punto di riferimento per la
gastronomia, oltre che tradotto in molte lingue straniere. Ancora oggi, con i
tanti famosi chef che popolano il nostro immaginario e il nostro quotidiano,
Artusi è un punto di riferimento proprio per il suo sapere non omologato e
rispettoso del particolare.
Un’altra
caratteristica de “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” è la sua
modernità. Artusi si fece inviare contributi da lettori e lettrici che gli
fornirono ben 475 ricette per la prima edizione, diventate 790 per l’ultima di
vent’anni più tardi, rifinita nei dettagli e negli aggiustamenti. Nella sua
opera, Artusi identificò il ruolo centrale della pasta nell’alimentazione
italiana, pasta che avrà un ruolo essenziale nella Dieta Mediterranea e nella
sua codificazione, e riconobbe il lato positivo di quel “fai da te” e della
personalizzazione che metteranno le basi per la grande gastronomia italiana,
conosciuta e riconosciuta in tutto il mondo.
Molto
interessante sarà anche la testimonianza di Pellegrino Artusi riguardante
l’epidemia di colera che colpì Livorno nel 1855. Un tempo le epidemie erano
ricorrenti e il nostro si trovava proprio a Livorno per gli usuali bagni,
quando cominciò a manifestare strani tormenti di pancia. Lo scrittore li
attribuì, forte della propria ferratezza gastronomica, all’aver mangiato un
minestrone la sera prima, ma scoprì, una volta rientrato a Firenze dove
abitava, che il suo ospite livornese era stato infettato dalla terribile
malattia contagiosa. Per tutta risposta, Artusi capì che era meglio scrivere
una personale ricetta del minestrone.
L’epidemia
di colera che ricorda Artusi nel suo aneddoto, colpì l’Italia a ondate
successive nel 1854 e nel 1855.
Nel
1854 aveva colpito gli Stati sardi, parte della Lombardia e il Sud, mentre
l’anno seguente colpirà tutta la penisola causando migliaia di morti.
Appena
ci si rese conto di avere anche in Sardegna un caso di malattia, si formò una
commissione medica che aveva lo scopo di coordinare le operazioni di soccorso e
di studiare quel nuovo fenomeno patologico. L’eccessiva disponibilità ad
ospitare in zone libera dall’infezione dei sassaresi immigrati, fece diffondere
l’epidemia, almeno così pensò la popolazione alla morte per colera di uno dei
sassaresi ospiti. Il morbo si diffuse con una rapidità impressionante. A Ozieri
ci furono casi di caccia all’untore, come da manzoniana memoria. Subito il
paese sardo colpito dall’epidemia venne cordonato per impedirne l’accesso e
l’uscita, in modo da circoscrivere il danno. I negozi vennero chiusi, tranne le
spezierie e un caffè, e venne vietato il consumo di cocomeri, cetrioli e
meloni, oltre che di ortaggi in genere, perché erano stati individuati come i
principali responsabili del veicolo del morbo; le case degli ammalati vennero
trattate a calce, per disinfettarle. Vietati i salassi a chi era nella prima
fase della malattia, come pure l’esposizione dei cadaveri in piazza prima del
funerale; ogni settimana si doveva sezionare un cadavere, evidentemente per
studiarne gli effetti della malattia.
I
più colpiti erano i poveri, come spesso accadde, e in fretta si diffuse di
nuovo, come già nella ricorrenti epidemie precedenti, il sospetto di veleni
diffusi a scopo politico. Dalle colonne della “Gazzetta medica italiana”
Gaetano Strambio diffondeva le sue idee contagiste, contestate da Cavour che
sollecitò il deputato e medico Angelo Bo, a controbattere l’assurda credenza
della propagazione della malattia con un contagio ad arte.
In
particolar modo, era credenza comune nella povera gente che fosse proprio il
governo a volerla ammazzare tutta, attraverso i medici che avrebbero dovuto
curarla. Addirittura i deputati comunali o i parroci altalenavano nelle
credenze, combattuti all’idea che nelle teorie complottiste ci fosse qualcosa
di vero. Spesso scoppiavano disordini, perché si temeva l’uso politico di una
malattia diffusa appunto dai politici e le persone, oltre ad organizzare le
rivolte, rifiutavano l’ospedalizzazione per timore di essere ammazzate in
ospedale. Soltanto lo spaventoso numero dei morti, salito ad oltre ventimila
nella città di Torino ad esempio, farà sedare gli animi e li rese più
disponibili ad ascoltare le parole del sindaco. In Sardegna, il colera fece
scattare una forte opposizione antipiemontese, data l’unione delle due regioni
in un unico Regno. Nella colta e civilissima Firenze, come veniva definita al
tempo, il caso di colera tra i carcerati fece diffidare dei pubblici poteri. Al
Sud, si pensava male dei Piemontesi, alludendo alla guerra di Crimea da dove
molti soldati erano in effetti tornati ammalati, ma si pensava anche a un
“veleno” sparso tra la popolazione dalle autorità napoletane per sfoltire la
popolazione e intimorire i sopravvissuti, memori della pesante azione
antiliberale messa in atto dopo i moti del 1848 che avevano portato con sé
fucilazioni e arresti. Anche a livello politico si vigilava affinché non ci
fosse utilizzo del colera come arma contro il governo, o di una parte politica
contro l’altra. Nel 1856, una lettera anonima accusava un deputato di avere
avvelenato l’acqua con il verderame e di avere attribuito a Ferdinando II il
colera-veleno. Altri avevano diffuso la voce che un fornaio, a Silvi, aveva
avvelenato il pane, sperando così di causare un’insurrezione e di mettere a
sacco il forno. Nei territori di Chieti e Pescara, venne fatta comminare una
buona dose di legnate a chi propagava notizie sediziose sul morbo. Altri gridavano
all’avvelenamento delle spighe di grano con fosfato di fiammiferi. Lo
smarrimento dinanzi all’impossibilità di azioni contro la malattia, faceva
aumentare il timor panico, l’odio verso qualcuno, il pregiudizio e a volte si
innestava sulla criminalità usuale. Spesso si rispondeva al contagio dicendo di
stare in casa, a finestre tappate, soprattutto laddove si pensava che nubi di
aglio bruciato stessero vagando portando il colera.
Purtroppo
un’epidemia di colera colpisce l’Italia anche nel 1884-85, ma il Paese risponde
in maniera meno impreparata. Infatti, nel 1883 Koch ha scoperto la causa del
morbo, un vibrione, che si debella già portando a ebollizione l’acqua. Il
governo, guidato da Depretis, mette in atto una azione efficace, con una
strategia precisa e coerente: l’urto contro la malattia è la scrupolosa igiene personale,
dei locali, l’isolamento, la disinfezione, la distruzione degli oggetti infetti.
Malgrado l’attacco delle opposizioni, la vigilanza in tutta Italia porta sicuri
risultati, ma spiegabili anche con l’aumentata istruzione, una buona profilassi
e buoni progressi economici.
Tuttavia,
l’idea degli avvelenamenti non passa: si crede ancora che gli ampollini dei
medici, le polverine, le caraffine per contenere il colera, fossero un’azione
politica o di qualcuno contro il popolo. Il “Corriere della Sera” titola “Cose
da Medioevo”, anche quando si credeva che l’Italia fosse cresciuta abbandonando
le superstizioni. Addirittura si assicurava che gli avvelenatori, medici e
farmacisti, venissero pagati 25 lire al giorno.
All’idea
dell’avvelenamento politico si rifaranno in Italia anche nel 1910-11, in
occasione di un’altra epidemia, mentre si ricorrerà ancora all’idea di untori o
di avvelenatori nel caso dell’epidemia di spagnola che colpirà l’Europa tra la
fine della prima guerra mondiale e i primi mesi di pace.
Proprio
quando un amico di Pellegrino Artusi, Olindo Guerrini, nome d’arte Lorenzo
Stecchetti, pubblica il suo libro “L’arte di utilizzare gli avanzi della
mensa”, manualetto molto diffuso, anche se non ebbe la fortuna del manuale
dell’amico.
prof.
ssa Alessia Biasiolo, associata al Cesvam
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