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sabato 2 maggio 2020

Minestrone, cucina e colera

DIBATTITI
La storia e la vita di
Pellegrino Artusi

Di Alessia Biasiolo

Nell’agosto 1820, duecento anni fa, nacque Pellegrino Artusi, l’autore de “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, caposaldo della letteratura gastronomica italiana, datato 1891. Pellegrino Artusi, nato nell’allora Stato Pontificio, aveva ricevuto studi irregolari perché il padre lo voleva avviare all’attività familiare di commerciante e, secondo lui, per quel lavoro non servivano tanti studi. Artusi non fu d’accordo con quel punto di vista, rendendosi invece conto che un’istruzione solida e ampia “in qualunque caso è sempre giovevole”. Quindi, pur vendendo stoffe e spezie, Pellegrino viaggiò e si istruì. Nel 1851, il famoso brigante detto il Passatore (Stefano Pelloni), aggredì Forlimpopoli dove la famiglia Artusi viveva e aveva la propria attività, e penetrò in casa loro con i propri sgherri. Pellegrino venne picchiato mentre i ladri razziavano ogni cosa e le donne di casa vennero violentate, tra cui sua sorella. Per questo motivo tutta la famiglia si trasferì nella più sicura Firenze, allora nel Granducato di Toscana. Gli Artusi continuarono a vendere stoffe, anche di seta, e in breve tornarono molto ricchi. Nel giro di pochi anni, Firenze divenne capitale del Regno d’Italia e Pellegrino decise di ritirarsi a vita privata per godere delle sue fortune ma, soprattutto, anche per potersi dedicare a ciò che amava di più: gli studi classici e le Belle Lettere. Scrisse testi su autori italiani, ma il suo diletto era la cucina e così nacque il suo capolavoro indiscusso.

In Italia l’Artusi è citato come Dante, secondo Alberto Capatti, perché nel suo libro sono raccolte le tradizioni culinarie di un Paese ricco e complesso in tal senso, ma soprattutto si tratta di un volume scritto bene, in italiano semplice e puro. Gli stessi Benedetto Croce e Giovanni Gentile lo citeranno in una corrispondenza privata. La grande operazione di Artusi fu proprio di scrivere in Lingua Italiana per un Paese che si era unificato territorialmente quasi del tutto, ma viveva di lingue differenti, come erano diversi i territori politici che lo componevano fino a pochi anni prima. Pertanto leggere un libro di ricette e di arte della buona tavola scritto in modo fluido e facilmente leggibile, fece sì che intorno alla tavola, veramente, ci si unisse. Altra operazione interessante di Artusi fu quella di non voler creare una cucina nazionale, intorno a dei piatti specifici e tradizionali, come aveva fatto la Francia con i suoi grandi cuochi: i cugini d’Oltralpe codificarono le ricette, spiegarono come si doveva o non doveva cucinare e soprattutto cosa, offrendo nei propri ricettari metodi oggettivi a cui il lettore si doveva attenere. Artusi, invece, nel suo lavoro raccontava soltanto la cucina italiana, con pietanze ricche per ogni angolo e, soprattutto, così legate alla singola realtà che sarebbe stato impossibile darne regole uniformi in tutto il territorio. Questa fu la fortuna del libro, molto amato e punto di riferimento per la gastronomia, oltre che tradotto in molte lingue straniere. Ancora oggi, con i tanti famosi chef che popolano il nostro immaginario e il nostro quotidiano, Artusi è un punto di riferimento proprio per il suo sapere non omologato e rispettoso del particolare.
Un’altra caratteristica de “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” è la sua modernità. Artusi si fece inviare contributi da lettori e lettrici che gli fornirono ben 475 ricette per la prima edizione, diventate 790 per l’ultima di vent’anni più tardi, rifinita nei dettagli e negli aggiustamenti. Nella sua opera, Artusi identificò il ruolo centrale della pasta nell’alimentazione italiana, pasta che avrà un ruolo essenziale nella Dieta Mediterranea e nella sua codificazione, e riconobbe il lato positivo di quel “fai da te” e della personalizzazione che metteranno le basi per la grande gastronomia italiana, conosciuta e riconosciuta in tutto il mondo.

Molto interessante sarà anche la testimonianza di Pellegrino Artusi riguardante l’epidemia di colera che colpì Livorno nel 1855. Un tempo le epidemie erano ricorrenti e il nostro si trovava proprio a Livorno per gli usuali bagni, quando cominciò a manifestare strani tormenti di pancia. Lo scrittore li attribuì, forte della propria ferratezza gastronomica, all’aver mangiato un minestrone la sera prima, ma scoprì, una volta rientrato a Firenze dove abitava, che il suo ospite livornese era stato infettato dalla terribile malattia contagiosa. Per tutta risposta, Artusi capì che era meglio scrivere una personale ricetta del minestrone.

L’epidemia di colera che ricorda Artusi nel suo aneddoto, colpì l’Italia a ondate successive nel 1854 e nel 1855.
Nel 1854 aveva colpito gli Stati sardi, parte della Lombardia e il Sud, mentre l’anno seguente colpirà tutta la penisola causando migliaia di morti.

Appena ci si rese conto di avere anche in Sardegna un caso di malattia, si formò una commissione medica che aveva lo scopo di coordinare le operazioni di soccorso e di studiare quel nuovo fenomeno patologico. L’eccessiva disponibilità ad ospitare in zone libera dall’infezione dei sassaresi immigrati, fece diffondere l’epidemia, almeno così pensò la popolazione alla morte per colera di uno dei sassaresi ospiti. Il morbo si diffuse con una rapidità impressionante. A Ozieri ci furono casi di caccia all’untore, come da manzoniana memoria. Subito il paese sardo colpito dall’epidemia venne cordonato per impedirne l’accesso e l’uscita, in modo da circoscrivere il danno. I negozi vennero chiusi, tranne le spezierie e un caffè, e venne vietato il consumo di cocomeri, cetrioli e meloni, oltre che di ortaggi in genere, perché erano stati individuati come i principali responsabili del veicolo del morbo; le case degli ammalati vennero trattate a calce, per disinfettarle. Vietati i salassi a chi era nella prima fase della malattia, come pure l’esposizione dei cadaveri in piazza prima del funerale; ogni settimana si doveva sezionare un cadavere, evidentemente per studiarne gli effetti della malattia.
I più colpiti erano i poveri, come spesso accadde, e in fretta si diffuse di nuovo, come già nella ricorrenti epidemie precedenti, il sospetto di veleni diffusi a scopo politico. Dalle colonne della “Gazzetta medica italiana” Gaetano Strambio diffondeva le sue idee contagiste, contestate da Cavour che sollecitò il deputato e medico Angelo Bo, a controbattere l’assurda credenza della propagazione della malattia con un contagio ad arte.

In particolar modo, era credenza comune nella povera gente che fosse proprio il governo a volerla ammazzare tutta, attraverso i medici che avrebbero dovuto curarla. Addirittura i deputati comunali o i parroci altalenavano nelle credenze, combattuti all’idea che nelle teorie complottiste ci fosse qualcosa di vero. Spesso scoppiavano disordini, perché si temeva l’uso politico di una malattia diffusa appunto dai politici e le persone, oltre ad organizzare le rivolte, rifiutavano l’ospedalizzazione per timore di essere ammazzate in ospedale. Soltanto lo spaventoso numero dei morti, salito ad oltre ventimila nella città di Torino ad esempio, farà sedare gli animi e li rese più disponibili ad ascoltare le parole del sindaco. In Sardegna, il colera fece scattare una forte opposizione antipiemontese, data l’unione delle due regioni in un unico Regno. Nella colta e civilissima Firenze, come veniva definita al tempo, il caso di colera tra i carcerati fece diffidare dei pubblici poteri. Al Sud, si pensava male dei Piemontesi, alludendo alla guerra di Crimea da dove molti soldati erano in effetti tornati ammalati, ma si pensava anche a un “veleno” sparso tra la popolazione dalle autorità napoletane per sfoltire la popolazione e intimorire i sopravvissuti, memori della pesante azione antiliberale messa in atto dopo i moti del 1848 che avevano portato con sé fucilazioni e arresti. Anche a livello politico si vigilava affinché non ci fosse utilizzo del colera come arma contro il governo, o di una parte politica contro l’altra. Nel 1856, una lettera anonima accusava un deputato di avere avvelenato l’acqua con il verderame e di avere attribuito a Ferdinando II il colera-veleno. Altri avevano diffuso la voce che un fornaio, a Silvi, aveva avvelenato il pane, sperando così di causare un’insurrezione e di mettere a sacco il forno. Nei territori di Chieti e Pescara, venne fatta comminare una buona dose di legnate a chi propagava notizie sediziose sul morbo. Altri gridavano all’avvelenamento delle spighe di grano con fosfato di fiammiferi. Lo smarrimento dinanzi all’impossibilità di azioni contro la malattia, faceva aumentare il timor panico, l’odio verso qualcuno, il pregiudizio e a volte si innestava sulla criminalità usuale. Spesso si rispondeva al contagio dicendo di stare in casa, a finestre tappate, soprattutto laddove si pensava che nubi di aglio bruciato stessero vagando portando il colera.

Purtroppo un’epidemia di colera colpisce l’Italia anche nel 1884-85, ma il Paese risponde in maniera meno impreparata. Infatti, nel 1883 Koch ha scoperto la causa del morbo, un vibrione, che si debella già portando a ebollizione l’acqua. Il governo, guidato da Depretis, mette in atto una azione efficace, con una strategia precisa e coerente: l’urto contro la malattia è la scrupolosa igiene personale, dei locali, l’isolamento, la disinfezione, la distruzione degli oggetti infetti. Malgrado l’attacco delle opposizioni, la vigilanza in tutta Italia porta sicuri risultati, ma spiegabili anche con l’aumentata istruzione, una buona profilassi e buoni progressi economici.

Tuttavia, l’idea degli avvelenamenti non passa: si crede ancora che gli ampollini dei medici, le polverine, le caraffine per contenere il colera, fossero un’azione politica o di qualcuno contro il popolo. Il “Corriere della Sera” titola “Cose da Medioevo”, anche quando si credeva che l’Italia fosse cresciuta abbandonando le superstizioni. Addirittura si assicurava che gli avvelenatori, medici e farmacisti, venissero pagati 25 lire al giorno.
All’idea dell’avvelenamento politico si rifaranno in Italia anche nel 1910-11, in occasione di un’altra epidemia, mentre si ricorrerà ancora all’idea di untori o di avvelenatori nel caso dell’epidemia di spagnola che colpirà l’Europa tra la fine della prima guerra mondiale e i primi mesi di pace.
Proprio quando un amico di Pellegrino Artusi, Olindo Guerrini, nome d’arte Lorenzo Stecchetti, pubblica il suo libro “L’arte di utilizzare gli avanzi della mensa”, manualetto molto diffuso, anche se non ebbe la fortuna del manuale dell’amico.


prof. ssa Alessia Biasiolo, associata al Cesvam

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