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martedì 8 ottobre 2019

I nemici in casa


APPROFONDIMENTI
 Internamento in USA durante
 la seconda guerra mondiale

 l’internamento di tedeschi e giapponesi negli Stati Uniti



Gli Stati Uniti sono stati costituiti da persone di varia provenienza e molte etnie: la maggior parte era costituita da europei, ma non mancavano gli asiatici. La situazione interna agli U.S.A. non è stata sempre socialmente tranquilla, in modo particolare quando ci si avvicinava ai conflitti e, quindi, quando l’opinione pubblica veniva indirizzata a credere o meno opportuno entrare in guerra, e a fianco o contro chi. Giocoforza dovevano essere creati dei nemici e per farlo non bastavano le opinioni comuni e la politica: era necessario agire sul sentimento nazionale, per convincere a combattere e per convincere che c’era un nemico contro cui farlo per necessità patria. Spesso quel nemico era il vicino di casa, in modo particolare in un grande Paese nato dall’unione libera di persone diverse come gli Stati Uniti.
Dalla data della dichiarazione di guerra alla Germania nell’aprile 1917, ad esempio, negli U.S.A. si sommarono gli atti di stampo terroristico organizzati dai tedeschi lì residenti. Si parlò d’intimidazioni già nel 1914, ma il 3 luglio 1915 il tedesco Holt si presentò al miliardario Pierpont Morgan, banchiere degli Alleati dell’Intesa, e lo ferì a colpi di rivoltella. Lo stesso giorno, un’esplosione avvenne al Campidoglio di Washington, forse sempre organizzata da Holt che, due giorni dopo, venne trovato morto nel carcere dove era stato rinchiuso. Il 12 luglio scoppiarono incendi dolosi in depositi di petrolio e olio a Philadelphia e Boston, mentre gli scioperi alla Standard Oil divennero violentissimi; il 21 luglio ci fu lo sciopero generale nelle fabbriche d’armi di Bridgeport e a Bayonne (New Jersey). Il 28 luglio, l’austriaco Baly cercò di ridare vita allo sciopero del 21, mentre si contarono incendi sulle navi da trasporto.
Sempre nel 1915, il 10 ottobre, quattro incendi distrussero altrettante fabbriche che rifornivano gli Alleati, mentre un quinto rase al suolo la Bethleem Steel che riforniva di acciaio la Francia. In Pennsylvania un incendio distrusse le forniture di grano per l’Europa, mentre nelle officine di munizioni di Topeka si contarono 23 incendi in una settimana. Verso la fine del 1916, gli operai delle acciaierie di East Yonngtown, nell’Ohio, si impadronirono di 250 chili di esplosivo e fecero saltare in aria gli stabilimenti. Si contarono 30 morti e 50 feriti; altre 30 persone morirono nell’incendio di una manifattura di polveri a Wilmington. Per tutti questi atti di sabotaggio vennero incolpati tedeschi residenti in America.
Vennero minate le ferrovie, organizzati attentati al porto di San Francisco e in molti altri luoghi degli Stati Uniti, fino a contare 1.500 attentati nel 1915 e molti ne seguirono, successivamente anche alle drastiche misure di sicurezza messe in atto. I mezzi per ostacolare l’ingresso in guerra degli State a fianco dell’Intesa furono tanti. La signora Walsh, titolare di una polizza di assicurazione sulla vita, intentò causa alla compagnia assicuratrice per divieto legale di interessarsi in qualsiasi modo al prestito franco-inglese. Dirigevano la grandiosa trama tali Dernburg, Bernstorff e Dumba, ma senza esporsi. Usavano come loro principali agenti l’attaché militare von Papen, l’attaché navale capitano Boy-Ed, il capitano von Rintzeler e il luogotenente Wolf von Igel. Boy-Ed e von Papen, troppo compromessi di fronte all’opinione pubblica, lasciarono gli U.S.A., mentre il capitano von Rintzeler venne arrestato nel gennaio 1916 in Inghilterra. Il 18 aprile 1916, von Igel venne arrestato a New York e in casa sua vennero trovati documenti compromettenti per molti tedeschi in America. Dichiarata guerra alla Germania, vennero arrestati circa 60mila tedeschi e austriaci. Fra loro anche agenti stipendiati dalla Germania, come la signora Reisniger, padrona di un palazzo sulla Quinta Strada di New York, luogo di riunione dei cospiratori a favore della Germania. I tedeschi arrestati vennero internati.
La situazione non fu dissimile in occasione del secondo conflitto mondiale nei confronti dei nipponici, per scongiurare il pericolo di attentati antiamericani.
Poco più di due mesi dopo l’attacco di Pearl Harbor, il presidente F. D. Roosevelt firmò l’atto per l’internamento dei giapponesi residenti su territorio statunitense (Ordine Esecutivo n. 9066, 19 febbraio 1942), in modo particolare per allontanarli dalla costa dell’Oceano Pacifico, come in California, ma anche in Arizona, Oregon e nei pressi di Washington, in quanto potenziale nemico interno.
Il provvedimento lasciava un settimana di tempo circa alle persone designate per raccogliere i propri effetti personali e trasferirsi, sotto scorta armata, nei centri appositi, come il Manzanar Relocation Center, attrezzato dalla War Relocation Authority. Nel frattempo, il sentimento antinipponico in America aumentò e ogni orientale veniva additato come colpevole di quello che veniva ritenuto un vile 
attacco, effettuato senza dichiarazione di guerra, pertanto ancor più grave. Anche se quell’orientale era, per i due terzi del totale degli internati, cittadino statunitense. In ogni caso le disposizioni non furono uniformi in tutto il Paese: ad esempio nelle Hawaii, essendo gli americani di origine giapponese in numero elevato, soltanto meno di duemila persone sono state internate. Il Manzanar era soltanto uno dei tanti campi di concentramento, una decina in tutto, detti anche campi di raccolta, esattamente come avveniva in Europa nello stesso periodo. Il campo di Manzanar, forse il più famoso, era attrezzato come una città, con negozi, luoghi di culto, un ufficio postale, la scuola, ma l’assegnazione degli alloggi era casuale, pertanto venivano sistemate famiglie grandi in spazi ristretti, oppure dovevano essere divise; i servizi igienici erano in comune e il sovraffollamento era preoccupante. In ogni caso gli internati poterono costituire anche un giornale, il Manzanar Free Press.
In molte zone degli U.S.A. comparvero cartelli simili a quelli che si erano visti in Europa, solo pochi anni prima. “No Japs Wanted”, i giapponesi non sono graditi, per utilizzare una frase elegante, era la scritta sul cartello che veniva apposto sulle vetrine dei negozi.
Gli eventi legati al secondo conflitto mondiale furono una sorta di giustificazione per movimenti anti-asiatici che già aleggiavano nel Paese dall’Ottocento, quando il Paese del Sol Levante, ma anche la Cina, aveva iniziato ad aprirsi all’emigrazione dopo tempi di chiusura. I giapponesi arrivavano soprattutto a San Francisco per studiare o lavorare per breve periodo, pensando di ritornare in patria, mentre si costituivano delle associazioni che avevano il compito di agevolare l’inserimento e le pratiche burocratiche, nel contempo permettendo anche stanziamenti più lunghi nel nuovo continente. Il razzismo serpeggiante soprattutto in alcuni strati della popolazione e in alcuni Stati (a partire appunto dalla California, dove i movimenti sindacali accusavano i giapponesi di accettare lavori a paghe più basse degli americani), pertanto, trovò la sua giustificazione con i fatti bellici, vedendo di buon occhio la collocazione in appositi campi tra il 1942 e il 1945 dei nipponici. Si andava riaccendendo il modo di pensare che si era diffuso con la prima guerra mondiale: una razza bianca (quindi americana) superiore, la lotta contro l’invasione dei “gialli”, il timore dell’ascesa economico-politica del Giappone e del suo espansionismo coloniale. Restrizioni dell’ingresso dei giapponesi negli Stati Uniti si erano avute nel 1907-08 e poi con l’Immigration Act del 1924, quando venne vietata la migrazione dei giapponesi su suolo americano, ma con l’attacco a Pearl Harbor non ci furono più dubbi sulla necessità di internare i giapponesi.
I giornali cominciarono a diffondere le notizie su come individuare un giapponese, dai tratti somatici, riconoscendo pertanto un probabile pericolo. L’evacuazione cominciò proprio in California, verso aree appositamente individuate, disabitate o su laghi prosciugati, in stabili costruiti grossolanamente e adibiti soltanto con brandine. Mano a mano gli internati ebbero il permesso di gestire i propri spazi, anche organizzandosi per arredarli e renderli maggiormente confortevoli, nel limite del possibile. Molti di loro cominciarono anche ad occuparsi di attività redditizie per il tenore di vita e soprattutto per rimpinguare l’alimentazione, allevando animali da cortile o dedicandosi al giardinaggio. Organizzarono poi scuole, impiegando gli insegnanti internati e recuperando anche le tradizioni, come i canti, la religione, il confezionamento di abiti tradizionali giapponesi.
Ben presto, tuttavia, fu chiaro ai comandi militari che il pericolo costituito dai giapponesi americani era praticamente inesistente e, rispetto allo scontro bellico, si arrivò alla conclusione che sarebbero stati gli Stati Uniti a vincere il conflitto. Pertanto era inutile mantenere così tante persone, soprattutto uomini, nei campi, rischiando anche di essere gli americani stessi artefici della nascita di movimenti antiamericani per i trattamenti subiti in prigionia: meglio sarebbe stato integrare sempre più quei giapponesi, smettendo di spendere per internamenti lunghi e costosi. Cominciarono così ad essere arruolati giapponesi volontari per la guerra e molti giovani risposero entusiasti, felici di poter sostenere il Paese al quale, ormai, sentivano di appartenere. Addirittura, venne costituita un’unità di combattimento completamente giapponese, impegnata anche in Europa.
Finita la guerra, lo smantellamento dei campi creò un ulteriore problema agli ospiti che, ormai, non sapevano più dove andare, ma non venne offerto loro alcun aiuto di stato, anche se avevano perso casa e lavoro. Dovettero risolvere il problema con le loro forze. Problema del quale non si parlò per anni.
Il Congresso statunitense riconobbe l’illegittimità degli internamenti soltanto nel 1988, con una mozione di pentimento e scuse.

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