PARTE III
L’OPERAZIONE “OSTROGOZSK-ROSSOSCH”
Il grafico mostra la potenza d'urto delle forze attaccanti contro le due divisioni binarie di fanteria italiane
Il 20 dicembre Stalin
aveva ordinato al Generale Golikov (Comandante del settore che
fronteggiava la 2^ Armata ungherese e il Corpo d’Armata
Alpino) di predisporre un’altra offensiva, alla quale era stato
dato il nome di Operazione “Ostrogozsk Rossosch”.
L’obiettivo era quello
di circondare e distruggere le unità tedesche, ungheresi e italiane
ancora attestate sul medio Don e liberare i tronchi ferroviari
LISKI KANTEMIROVKA e LISKI VALUJKI necessari per
l’avanzamento dell’esercito sovietico verso KARCOV e il DONEC.
Erano previsti due
attacchi principali: uno a nord, contro la 2a Armata
ungherese, ed uno a sud, muovendo dalla zona di KANTEMIROVKA, per
raggiungere dopo una grande manovra a tenaglia la città di
ALEKSCJEVKA. Erano previsti anche quattro attacchi sussidiari, due
interni e due esterni a quelli principali. Quelli esterni dovevano
puntare su VALUIKI e POKROWSKOJE a sud di ALEKSEJEVKA. Quelli interni
avevano come obiettivo a nord KAMENKA e a sud ROSSOSCH, dove il
Generale Nasci aveva dispiegato il Comando del Corpo d’Armata
Alpino.
Il XXIV Corpo corazzato
di Vatutin aveva ridotto l’aeroporto di TAZINSKAJA in un
immenso braciere, condannando così alla fame l’Armata di Von
Paulus, già allo stremo dentro Stalingrado. I russi erano
penetrati per 200 chilometri nello schieramento degli italiani e dei
tedeschi ed avevano liberato 1.246 città e villaggi, annientate 11
divisioni e 3 brigate, catturati 60.000 prigionieri e un bottino di
368 aerei, 178 carri armati e 1.927 cannoni. Per il momento i compiti
delle armate di Sud Ovest erano terminati. Adesso l’iniziativa
toccava a Golikov.
Von Weichs stava
abboccando in pieno all’amo che Golikov gli andava porgendo
con astuzia e pazienza. La ricognizione aerea e i servizi di
informazione lo avevano convinto che i russi si preparavano ad
attaccare le posizioni tenute sul Don dalla 2^ Armata ungherese
schierata alla sinistra del Corpo d’Armata Alpino. E questo lo
aveva indotto a mettere a disposizione degli ungheresi il Gruppo
Cramer composto da due divisioni di fanteria tedesche e una
divisione corazzata. Il comandante del Gruppo dì Armate B, inoltre,
aveva ordinato che la maggior parte delle armi controcarro di cui
disponeva il XXIV corpo d’Armata fossero assegnati al Corpo
d’Armata Alpino.
Era il 10 gennaio e
Gariboldi – che non condivideva affatto le valutazioni del
Comandante del Gruppo di Armate B - era dell’opinione che oltre a
quella prevista contro gli ungheresi, i russi stavano per scatenare
un’offensiva non contro il settore degli alpini, ma contro l’ala
meridionale del XXIV Corpo, il cui indebolimento doveva essere
evitato a tutti i costi.
Per Von Weichs
invece lo schieramento delle fanterie italiane e tedesche bilanciava
in quel settore quello dei russi, i quali a suo avviso avevano
successo soltanto quando attaccavano con un largo impiego di unità
corazzate.
Von Weichs non
immaginava che Golikov a sua insaputa aveva concentrato nella
zona del XXIV Corpo d’Armata tutte le grandi unità della 3^ Armata
Corazzata e schierato, lungo i 65 chilometri del fronte tenuto dal
Corpo d’Armata Alpino, soltanto una divisione di fucilieri ad
organici ridotti.
Fu questa la mossa
vincente dell’offensiva che sarebbe scattata il 13 gennaio, con tre
giorni di anticipo rispetto al programma predisposto a Natale.
Il piano russo, aveva
come obiettivo l’accerchiamento e l’annientamento delle forze
tedesche, ungheresi e italiane schierate nell’area tra OSTROGOZSK e
ROSSOSCH. Nello stesso tempo prevedeva di raggiungere le cittadine di
REPJEVKA, ALEKSEJEVKA, VALUJKI e URAZOVO per controllare la linea
ferroviaria SVOBODA KANTEMIROVKA. Su un fronte di 260
chilometri, Golikov aveva ammassato tre aliquote di forze: a
nord, al centro e a sud. In tutto, 11 divisioni e 3 brigate
fucilieri, 3 corpi corazzati, un reggimento corazzato e un corpo di
cavalleria. Come aveva ribadito ai suoi ufficiali durante un rapporto
nel suo Quartier Generale, si trattava di una classica operazione a
tenaglia, la cui caratteristica era di effettuare contemporaneamente
l’avvolgimento e l’eliminazione delle forze avversarie, in modo
da annientarle prima ancora di chiuderle dentro la sacca. Golikov
aveva tenuto ben presente quanto era accaduto in dicembre sul Don
durante l’offensiva di Vatutin, quando i tedeschi si erano
rifiutati di adottare una “difesa elastica”: nell’elaborare il
suo piano, aveva puntato sul fatto che von Weichs avrebbe ripetuto lo
stesso errore, reso inevitabile dagli ordini di Hitler (come in
effetti accadde). In particolare, era convinto che il Comandante del
Gruppo di Armate B sarebbe caduto nel tranello che gli stava
tendendo. Approfittando delle ore notturne e della nebbia, egli aveva
occultato i movimenti facendo credere che l’attacco russo sarebbe
partito a VORONEZ.
La Stavka assegnò al
Fronte di WORONESH anche la 3^ armata corazzata, oltre a svariate
altre unità direttamente dipendenti dal Fronte. Mentre Golikov fu
incaricato di frantumare innanzitutto l’armata ungherese per poi
procedere all’accerchiamento (compito principale), il compito del
Fronte di Sud-ovest era di spingersi avanti sul fianco sud del Fronte
di WORONESH, appoggiando il suo sforzo. Considerando che anche le
altre grandi unità di Golikov destinate all’operazione
furono rinforzate con unità della riserva centrale, le truppe
sovietiche si vennero a trovare in vantaggio sull’avversario.
Venne posta particolare
cura anche in alcune misure preparatorie per rendere possibile
l’avanzata dietro le linee nemiche superando sia la scarsa mobilità
delle truppe russe sia le particolari condizioni invernali.
Nel rapporto finale che
venne inviato a Stalin alla fine della pianificazione da Zukov
e Vassilevski il 7 gennaio, si indicavano di massima anche le
direttive date alla 3^ armata di Rybalko, il cui asse
principale di penetrazione veniva spostato ad ovest della linea
ferroviaria KANTEMIROWKA ROSSOSCH, in maniera poi da seguirla
senza attraversarla ed avere un riferimento per l’accerchiamento
del nemico. Compito fiancheggiante del VII corpo di cavalleria e
delle brigate sciatori era la conquista di WALUIKI e URASOWO per
assicurare il controllo di questi importanti nodi ferroviari.
Completati i previsti
congiungimenti, la 3^ armata corazzata doveva costituire un fronte
verso ovest e completare l’accerchiamento delle truppe nemiche
nella sacca.
Lo schieramento in
atto e la valutazione delle mosse avversarie
Al centro era schierato
il Corpo d’Armata alpino con le tre divisioni Tridentina,
Vicenza e Cuneense (che, malgrado la scarsità di forze,
avevano costruito nei mesi autunnali una linea di resistenza
abbastanza robusta) ed un reggimento di artiglieria a cavallo.
A destra del Gruppo
d’Armate B, le unità del XXIV Panzer (Pz.) Korps erano ancora
schierate su posizioni speditive, senza aver avuto la possibilità di
costruire una linea con lavori difensivi, sia per i continui attacchi
dei russi, sia perché le condizioni climatiche rendevano difficile
questa attività.
La pratica della
maskirowka (inganno del nemico) sul fronte del Gruppo d’Armate
B fu un successo per il Fronte di Woronesh, che applicò i
procedimenti già dall’offensiva di Stalingrado in poi. L’operato
della ricognizione aerea tedesca non arrivò a scoprire alcuna
particolare concentrazione di truppe sul settore del XXIV Pz.Korps,
perché di giorno i mezzi rimanevano occultati e le truppe dovevano
stare al coperto, sotto la minaccia della pena di morte.
Al comando del Gruppo
d’Armate B erano convinti che i russi avrebbero attaccato le linee
tra la 2^ armata ungherese e l’8^ italiana, anche in virtù
dell’ormai accettato assioma che i russi avrebbero colpito, con
ogni probabilità, solo gli alleati.
Gariboldi aveva fatto una
valutazione diversa e l’8 gennaio aveva scritto al gruppo d’armate
per far presente che a suo parere i russi avrebbero avuto maggiori
vantaggi attaccando il XXIV Pz. Korps in corrispondenza della brigata
Fegelein.
Scatta l’offensiva:
lo sfondamento del fronte ungherese e del XXIV Pz. Korps
L’inizio agli attacchi
di ricognizione in forze, dopo un’ora di preparazione di
artiglieria, fu dato dal Generale Moskalenko alle 10.00 del 12
gennaio 1943 in corrispondenza della testa di ponte di URYW. La fine
del bombardamento veniva contraddistinta da una salva di lanciarazzi
per far comprendere alla massa della truppa quale fosse il momento in
cui muovere all’assalto. I battaglioni di punta di quattro
divisioni di fanteria, appoggiati da carri, ebbero ragione abbastanza
presto delle posizioni ungheresi, quanto meno sulla loro ala destra.
L’attacco russo contro
le linee del XXIV Pz.Korps iniziò il mattino del 14 gennaio sul
fronte del gruppo Fegelein e della 27^ Pz.Div., in
corrispondenza del Fúhrer Begleit Bataillon, che da
questa dipendeva. Col favore della nebbia, carri e fanteria russi si
infiltrarono nella linea tedesca e alle 14.30 l’avevano
penetrata con circa 20 30 carri che proseguivano verso nord
tenendosi ad ovest della linea ferroviaria. Non c’erano riserve
per contrattaccarli. Alla 19^ Pz.Div fu ordinato di attaccare sul
fianco il nemico che avanzava, ma la divisione era già troppo
premuta dai russi. La sera del 14 questa proposta fu inoltrata
al gruppo d’armate, con quella di ritirare il XXIV Pz.Korps verso
ROSSOSCH. Intanto, parte della 387^ ID era stata accerchiata
nel corso della giornata, assieme al Fúhrer Begleit Bataillon ed
alla brigata Fegelein.
Solo in serata (alle ore
20.00 ca.), il Gen. Nasci viene vagamente informato dal Gen.
Schlemmer (Ufficiale di collegamento tedesco presso il Corpo
d’Armata alpino) della penetrazione. Il Comando dell’8^ Armata
italiana, sottovalutando palesemente il nemico, emana un ordine che
prevede per la 19^ Pz.Div e la 320^ ID di attaccare. Ma la gravità
dello sfondamento non è nota nemmeno al Comando del XXIV Pz.Korps.
Quella stessa sera, carri russi e fanteria motorizzata piombano di
sorpresa sul posto di comando tattico del XXIV Pz.Korps a
SHILIN: nello schieramento tedesco si era aperta una falla che,
ormai, era impossibile tamponare. Le truppe corazzate russe si
trovavano già ad una cinquantina di chilometri sulle retrovie del
Corpo d’Armata Alpino, il quale rischiava di essere aggirato anche
sulla sinistra per il crollo immediato degli Ungheresi.
L’attacco su
Rossosch
Gli avvenimenti
incominciarono ad assumere un andamento convulso. Alle 5 del mattino
di venerdì 15 gennaio, una formazione di carri armati sovietici
piombò su ROSSOSCH sede del Quartier Generale del Corpo d’Armata
Alpino. Nasci inviò un messaggio urgente a Gariboldi per segnalargli
quell’avvenimento incredibile e chiedere l’intervento degli
Stukas tedeschi, i quali un’ora dopo comparvero nel cielo
della città bombardando i carri sovietici. ROSSOSCH era rimasta in
mani italiane, ma l’incursione si protrasse per una decina di ore
fino all’imbrunire. Dei 20 T-34 che avevano preso parte
all’operazione, 12 erano stati distrutti mentre altri 8 si erano
allontanati verso nord.
Nasci intuendo che a nord
e a sud del Corpo d’Armata Alpino il fronte stava crollando, aveva
fatto avvertire i comandanti della Tridentina, della Cuneense
e della Julia di tenersi pronti a giungere “al più
presto e con la maggiore efficienza possibile l’allineamento
VALUJKI ROVENKI, per schierarvisi a difesa, fronte a nord est,
saldando le proprie forze con le grandi unità tedesche in corso di
schieramento in tale zona”. Quell’ordine era stato recapitato
integralmente soltanto al Generale Battisti, comandante della
Cuneense, mentre i comandanti della Tridentina (Riverberi),
della Vicenza (Pascolini), e della Julia (Ricagno)
ne avevano avuto una sintesi per telefono, in quanto gli
ufficiali incaricati di consegnarlo non erano riusciti a passare tra
le maglie dei carri russi. Quanto alle grandi unità tedesche cui
Nasci aveva accennato e sulle quali faceva affidamento, esistevano
soltanto sulla carta. Nasci, comunque, aveva deciso di trasferire il
suo comando a PODGORNOJE per avere più sotto controllo le divisioni
ancora schierate sul Don con l’ordine di non arretrare di un palmo.
Il giorno dopo, all’alba, un’intera brigata di carri russi
suddivisa in tre tronconi ricomparve a ROSSOSCH. Un troncone attaccò
i capisaldi del “Cervino”, uno si diresse verso il centro della
città, mentre il terzo verso il campo d’aviazione. Due compagnie
di alpini appena giunte dall’Italia (la 604^ e 601^), furono
sterminate dai T-34, fino all’ultimo uomo. La situazione si
aggravava di ora in ora e, dopo soli due giorni dall’inizio
dell’offensiva, i russi stavano già sviluppando con successo la
manovra avvolgente che li avrebbe portati ad ALEKSEJEVKA, circa 75
chilometri in linea d’aria dal corso del Don.
Alle 20.00 del 15 gennaio
il XXIV Pz.Korps inizia il movimento autorizzato di ripiegamento
verso KALITWA.
Fino a quel momento, del
Corpo d’Armata Alpino soltanto la Divisione Julia era stata
impegnata duramente, perché inviata a tamponare la falla che si era
aperta sul fronte del II Corpo d’Armata. Le altre, integrate
dall’evanescente Vicenza, erano rimaste sul Don, lungo la
linea dell’acqua, limitando la loro attività alle azioni di
pattuglia oltre il fiume verso le postazioni russe. Ma ora la
situazione era precipitata. La guerra si era improvvisamente spostata
alle spalle degli alpini, il cui schieramento sul Don stava
diventando drammaticamente assurdo. Gli ordini di von Weichs erano
inequivocabili, tanto che Gariboldi, ancora alle 16,30 del 16
gennaio, aveva dovuto inviare a Nasci che premeva per un arretramento
delle sue divisioni, un laconico fonogramma: “Lasciare la linea del
Don senza un preciso ordine è assolutamente proibito. Vi faccio
responsabile personalmente dell’esecuzione”. Per colmo di ironia,
a causa della confusione che oramai regnava nelle retrovie,
quest’ordine sarebbe stato recapitato a Nasci soltanto alle 9 del
giorno seguente.
Questo divieto
incredibile cadde 24 ore dopo. Un fonogramma di Gariboldi recapitato
a Nasci che si era trasferito a PODGORNOJE diceva: “In conseguenza
ripiegamento grandi unità ungheresi anche Corpo d’Armata Alpino
deve iniziare stasera all’imbrunire noto ripiegamento”.
La ritirata degli
Alpini
Le divisioni alpine che
avevano lasciato sulle rive del Don alcuni reparti “civetta” per
simulare che nulla stava accadendo, incominciarono a ripiegare:
la Tridentina su PODGORNOJE, la Cuneense e la
Julia che risaliva da NOVO KALITVA, su POPOVKA, mentre la
Vicenza convogliava verso PODGORNOJE e POPOVKA i due tronconi
nei quali si era divisa. L’ordine era di dare la precedenza alle
armi, alle munizioni, ai carburanti ed ai viveri. Bisognava
distruggere tutto quello che non poteva essere caricato sulle
camionette, sui muli, sulle slitte. La tenaglia delle divisioni
meccanizzate russe però, assieme a reparti corazzati, oramai
stritolava i fianchi degli alpini in ritirata, i cui reparti si
stavano infilando dentro strade strette e gelate in una enorme
confusione.
Il comando del Corpo
d’Armata Alpino nel frattempo si era trasferito a OPYT, e Nasci,
via radio, aveva assegnato alla Julia e alla Cuneense il
compito di puntare su VALUJKI lungo l’itinerario
KULESOVA SCELJAKINO. La Vicenza invece doveva risalire
verso SAMOJLENKOV per aiutare la Tridentina, prima che i russi
riuscissero ad ispessire il catenaccio che avevano chiuso attorno
alle divisioni italiane.
La marcia delle quattro
divisioni italiane e di tutto il corpo tedesco sulle poche strade
disponibili controllate dai russi costringe alla decisione di
abbandonare i veicoli che non siano fuoristrada e di sfruttare le
doti di mobilità alpine per portarsi verso ovest, cercando di
salvare gli elementi essenziali per proseguire, cioè i cannoni
anticarro.
Tutti i camion e i mezzi
di collegamento del Corpo d’Armata erano stati distrutti, e il
comandante degli alpini poteva oramai contare soltanto su una
stazione radio tedesca montata su un autocarro semicingolato per
rimanere in contatto con Gariboldi. A questo punto gli era chiaro che
i russi stavano manovrando sui fianchi per accerchiarlo, accingendosi
a sbarrargli la strada verso ovest. Per questo, il 20 gennaio aveva
formato un forte scaglione d’avanguardia comandato da Reverberi.
Gli ordini erano di
continuare la marcia senza soste sia pure a prezzo di sforzi
sovrumani, prevalentemente di notte per sfuggire agli aerei e ai
carri, evitare strade e abitati, separare i reparti che erano in
grado di combattere dalle migliaia di fuggiaschi che venivano avanti
in disordine intralciando i movimenti della divisione.
Il 21 gennaio Nasci aveva
cambiato l’itinerario della ritirata. Gariboldi gli aveva
comunicato con un radiogramma che VALUJKI era stata occupata dai
russi. Pertanto era NIKITOVKA il nuovo punto di sbocco del Corpo
d’Armata Alpino. Nasci per tutta la notte aveva cercato di mettersi
in contatto con la Julia e la Cuneense per
informarle del cambiamento di programma, ma queste erano già state
distrutte.
Conclusioni
Al fine di individuare
alcuni insegnamenti dall’evento storico trattato, si è ritenuto di
dover fare riferimento a cinque principi classici dell’arte della
guerra: “offensiva (iniziativa)”, “manovra”, massa,
“sicurezza” e “sorpresa”.
In merito all’iniziativa,
l'8^ Armata (ormai in difensiva da mesi) aveva deciso di riprendere
le operazioni per la successiva primavera. Ma tale decisione
determinò una sorta di disarmo psicologico fra i Comandi e le
truppe,
facendo venir meno i vantaggi di tale principio (l’iniziativa) a
causa di un adattamento ai rigidi criteri di difesa statica fissati
dal Comando del Gruppo d’Armate. Le intenzioni degli alti comandi
erano infatti finalizzate a bloccare i sovietici nelle fasi di
attraversamento del Don: in altre parole, gli attacchi nemici
dovevano essere stroncati davanti alle linee difensive e solo alcune
eccezioni erano tollerate o autorizzate dal Comando Supremo”.
Il venir meno dell’iniziativa precludeva ogni forma di
ripiegamento e i reparti dovevano solo preoccuparsi di resistere ad
oltranza sul posto, in attesa del “contrattacco liberatore” che,
di fatto, non sarebbe mai arrivato. Ed è ciò che venne tenuto ben
presente dall'avversario, allorché concepì le varie manovre a
tenaglia che provocarono il tracollo delle nostre truppe.
Per quanto attiene alla
manovra, in fase difensiva doveva essere realizzata da
contrattacchi “istintivi ed immediati”,
facendo uso delle riserve (unità dotate di elevata mobilità). Nel
caso in esame, non solo le riserve non erano mobili, ma erano del
tutto inesistenti. A livello C.do Div. e C.A, non vi erano riserve
precostituite; a livello Armata, la sola Grande Unità inizialmente
non schierata sul Don - la Div. “Vicenza” - era indisponibile
perché impegnata nella difesa delle retrovie e non aveva
artiglierie; la “Celere” - unica Grande Unità motorizzata - era
stata impiegata staticamente sul Don; a livello Gruppo Armate nessuna
riserva era tempestivamente disponibile e la 385^ Divisione tedesca
arriverà in zona a battaglia conclusa; la 21^ Div. tedesca, la sola
disponibile a partire dal 15 dicembre, disponeva invece di soli 50
carri. In sintesi, mancando a tutti i livelli la riserva, è mancata
la possibilità di mantenere una libertà di manovra, inficiando così
sull’efficacia e l’operatività di tutte le unità.
Circa l’impiego della
massa, tenuto conto delle poche forze a disposizione in
relazione agli enormi settori da presidiare, l'8^ Armata non poteva
che schierarsi a cordone sul Don, con il risultato che “l'unica
massa che si poteva ottenere era una non massa”.
II dispositivo era
estremamente rado, mentre la dottrina dell’epoca prevedeva che una
Divisione binaria poteva presidiare un settore di 13,5 km di ampiezza
(circa metà settore assegnato alle Divisioni sul Don). Tutte le
poche forze disponibili erano quindi proiettate in avanti, sulle
posizioni difensive (e ciò spiega anche l’assenza delle riserve
anche ai livelli più bassi). Questo fattore offrì al nemico
l’opportunità di esercitare con estrema facilità la “sua
massa”, trovando ovunque facilità di sfondamento.
Pur pensando di voler
esercitare “massa” con il fuoco, ciò non fu possibile in quanto
le artiglierie disponibili (insufficienti e obsolete) non potevano
realizzare concentrazioni di fuoco massicce e tempestive e le forze
aeree (per lo più tedesche) erano concentrate nella fornace di
Stalingrado.
La carenza di forze non
offrì altresì obiettive garanzie alla sicurezza delle forze.
I rapporti di forza erano decisamente a favore del nemico (in termini
di battaglioni, il rapporto era di 5:1; in termini di carri armati
addirittura di 10:1)
In difesa, specie in
presenza di enormi spazi, la dottrina suggeriva di predisporre un
dispositivo profondo - o comunque, in previsione di reiterare
l'azione in profondità - utilizzando le posizioni più convenienti.
In campo logistico, inoltre, il dispositivo doveva essere arretrato,
scaglionato in profondità e pronto, se del caso, a ripiegare
ulteriormente per non essere coinvolto dalle puntate avversarie. Sul
Don, invece, come accennato venne seguito il criterio opposto di
proiettare tutto in avanti (anche gli assetti logistici), senza
minimamente pensare a predisporre una seconda posizione difensiva (e
di tempo, ce ne era stato). Ciò fu determinato da precise
disposizioni di Hitler, secondo cui le prime linee dovevano disporre
in loco di scorte, viveri, munizioni e materiali pari a due mesi dì
autosufficienza, ancorando le truppe sul Don (che, ghiacciato,
anziché rappresentare un ostacolo, facilitava i movimenti nemici).
Infine, ancorata a difesa
a tempo indeterminato sul Don, appiedata, priva di riserve, con
limitate artiglierie e senza “ombrello aereo”, l'8^ Armata non
poteva neanche realizzare alcuna forma di sorpresa. In questo
campo qualcosa avrebbe potuto essere fatto per disorientare
l'avversario: ad esempio, anziché insistere con una resistenza ad
oltranza, si sarebbe potuto far cadere nel “vuoto” gli attacchi
nemici, attuando un repentino arretramento delle linee difensive. In
alternativa, si sarebbe potuto accennare, o quanto meno simulare, un
attacco nei punti deboli (settore della 270^ Divisione sovietica che
fronteggiava pressoché da sola il Corpo d'Armata alpino). In altre
parole, si sarebbe potuto sviluppare un'azione lungo la direttrice
Pawlowsk - Werch Mamon per accerchiare tutte le forze sovietiche
(pari ad un'Armata) che si erano addensate in corrispondenza del
nostro II Corpo d'Armata. La contromanovra tedesca, anche solo
abbozzata, avrebbe presentato molti lati favorevoli: il più
importante sarebbe stato quello, come già detto, di partire dal
vuoto cioè dagli 80 chilometri presidiati dalla sola Divisione che
fronteggiava gli alpini. Inoltre, se il Don - ormai gelato - non era
più un ostacolo per i russi, non lo sarebbe stato neanche per i
tedeschi (certo, l'azione non poteva essere affidata a truppe alpine,
appiedate e quindi non idonee ad azioni rapide in pianura, né
all'Armata priva com'era di riserve, ma a forze motocorazzate
tedesche quali ad esempio le Divisioni inutilmente sottratte al
Gruppo Armate e mandate a sacrificarsi a Stalingrado).
Un’ulteriore “lesson
learned”: l'unitarietà di comando, in teoria è
stato l'unico principio ad essere stato rispettato, anche se in modo
esasperato ed accentrato nella figura di Hitler. In tal senso, il
vertice della piramide ebbe una visione panoramica della situazione
ma perse la sensazione delle concrete possibilità dei reparti sul
campo. Soprattutto quando si è in carenza di forze (come lo erano i
tedeschi) è essenziale che la situazione sia valutata in loco,
perché solo in loco possono essere adottati i migliori e più
convenienti correttivi (compreso l’impiego delle riserve), evitando
peraltro gli inconvenienti dei ritardi nelle comunicazioni e
nell’acquisizione delle informazioni.
Di certo, le condizioni
del morale non hanno aiutato il corso degli eventi. Le motivazioni
erano molteplici: l'inverno e il freddo, la guerra non era sentita,
le famiglie e la Patria erano lontani migliaia di chilometri.
In sintesi, a nostro
avviso, le motivazioni principali che hanno portato al fallimento
delle operazioni in Russia sono da ricercarsi nel non aver rispettato
alcuni principi dell’arte della guerra, principi che potrebbero
essere considerati validi ancor oggi.
Inoltre, dall’esame di
queste vicende, possiamo e dobbiamo evidenziare che, senza dubbio,
tutte le nostre Grandi Unità e i nostri soldati hanno scritto pagine
significative della nostra storia, rappresentando tuttora un grande
esempio per tutti gli italiani.