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venerdì 30 giugno 2017

Attività del Cesvam per Luglio ed Agosto

Ufficiali Superiori Italiani, con Corrispondenti di guerra stranieri nella conca di Misurina,
luglio 1916

IL CESVAM

CENTRO STUDI SUL VALORE MILITARE

per i mesi di luglio ed agosto concentra tutte le sue risorse sulla esecuzione del

PROGETTO

DIZIONARIO MINIMO DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE

In questo contesto sono sospese le pubblicazioni di post su questo blog
che riprenderanno regolarmente il 1 settembre 2017
contatti sono possibili utilizzando le emal

centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org
direttore.cesvam@istitutonastroazzurro.org


Si coglie l'occasione per ringraziare tutti i lettori di questo blog per la loro assiduità e per l'interesse dimostratoci  fino ad oggi.


Indici Giugno 2017

Posto in progress

giovedì 29 giugno 2017

Copertina Giugno 2017



QUADERNI ON LINE







Anno LXXVIII, Supplemento on line, VI, 2017, n. 21
Giugno 2017
www.valoremilitare.blogspot.com

mercoledì 28 giugno 2017

Editoriale Giugno 2017

Editoriale.


Con questo mese si conclude il primo semestre dell'anno. Dal 1 Luglio a tutto Agosto "Quaderni on Line" sospende le pubblicazioni in quella che può essere considerata una pausa riflessiva di lavoro. Già preventivata da tempo, questa pausa sarà dedicata a mettere in sistema e finalizzare tutto il materiale elaborato e svolto in ambito CESVAM per il progetto Dizionario Minimo della Grande Guerra, al fine di avere i primi cinque libri in bozza1 a metà settembre. Il programma non è ambizioso ma fattibile in quanto coloro che hanno partecipato a questo progetto sono stati di parola ed hanno adempiuto con puntualità a quanto loro era stato assegnato. La concentrazione su un obbiettivo, senza dispersione di forza rappresenta e rappresenterà la strada maestra dell'Azione del CESVAM dei prossimi mesi.

In data odierna sono state pubblicati tre post dedicati al "Mondo in cui Viviamo", che sottolinea come il CESVAM di orienta sempre più verso aperture al mondo del presente in virtù della presenza tra le sue file di ragazzi, studenti e cultori, molto attivi e preparati per il loro livello.

Come Direttore colgo l'occasione per ringraziare tutti coloro che hanno collaborato con il CESVAM ed augurare loro di tutto cuore serene e possibilmente, lunghe vacanze.

Massimo Coltrinari.


Siria: appuntamento ad Astana il 4 luglio

Usa/Russia
Siria: tra battaglia finale e spiraglio negoziale
Laura Mirachian
23/06/2017
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Ci si chiede come mai, dopo oltre sei anni di quella che continuiamo a chiamare ‘guerra civile’, ben sapendo che trattasi di una ‘proxy war’ tra i referenti regionali e internazionali dei rispettivi protagonisti interni, come mai si sia arrivati da ultimo, nei pressi di Tabqa, grande bacino idrico sull’Eufrate a ovest di Raqqa, all’abbattimento di un jet SU-22 siriano da parte di un F-18 americano, entrambi teoricamente a caccia di militanti del sedicente Stato islamico, l’Isis.

Dopo gli oltre 9.000 raid condotti in questi anni dalla coalizione a guida americana, non si è certo trattato di un incidente involontario. Né come tale è stato del resto presentato. Preceduto da un ennesimo richiamo a Mosca perché freni l’alleato Assad, e seguìto dall’annuncio di Washington che altre misure del genere saranno adottate ove dovessero verificarsi nuovi attacchi contro forze ribelli sostenute dagli Usa, l’abbattimento ha indotto Mosca a replicare duramente diffidando Washington dall’oltrepassare la linea dell’Eufrate verso ovest e sospendendo le intese military-to-military- cosiddette‘deconflictingrules’ - destinate appunto ad evitare incidenti.

Annoto che Mosca non aveva fiatato nel precedente caso, in aprile, dei raid americani contro la base siriana di Shayrat in risposta ad attacchi con armi chimiche a Khan Sheikoun. Siamo entrati in una nuova, e più rischiosa, fase della guerra siriana. Uno showdown finale? Oppure l’aprirsi di una rinnovata prospettiva negoziale?

Le ragioni dell’acuirsi delle frizioni
Possiamo tentare un elenco delle ragioni che hanno determinato l’episodio in parola.

In primis, metterei la scelta di campo operata dall’America di Trump a Riad il 21 maggio. Non più ‘leading from behind’ e ‘no boots on the ground’ dell’era Obama, non più ricerca di un equilibrio di influenze trai maggiori protagonisti regionali Arabia saudita e Iran, ma un deciso appoggio alla prima e una chiara indicazione che l’Iran è un avversario da combattere, equiparabile ai terroristi.

Se questa è la nuova visione-Trump, il vero obiettivo strategico è impedire all’Iran di controllare il corridoio che corre dal confine siro-iracheno al Mediterraneo attraverso il Libano, lungo la cosiddetta ‘mezzaluna sciita’. La battaglia di Al-Tanf, posto di confine tra Siria e Iraq in pieno deserto siriano, ne è riprova da settimane. Così come quella per il controllo della cittadina di Deir-er-Zoor, situata al centro della traiettoria verso l’Iraq e ancora occupata dall’Isis. Scontri dall’esito ancora incerto. Nei deserti siriani si sono sempre insabbiate anche le truppe corazzate del colonialismo francese.

In secondo luogo, l’avvicinarsi della battaglia campale per la presa di Raqqa, capitale ed ultima roccaforte dell’Isis in Siria. Raqqa non è Mosul, seconda grande città irachena con oltre un milione di abitanti: è un centro di media grandezza che prima della guerra aveva circa 150.000 abitanti, ma è collocata sull’Eufrate, che permette l’irrigazione di mezza Siria, in particolare della ‘Siria Utile’ ora sostanzialmente controllata da Assad (che accanto ai bombardamenti sta praticando ‘intese di evacuazione’ dei ribelli).

Su Raqqa stanno confluendo da Nord i combattenti curdo-arabi delle Sdf, Syrian Democratic Forces, sostenuti dall’aviazione della coalizionee da un migliaio di soldati americani giunti a rinforzo in marzo, e preme da Sud e da Ovest l’esercito di Damasco sostenuto da milizie filo-iraniane e copertura aerea russa.

La Turchia punta, ancorché con certa inquietudine, sull’impegno americano, oltre che sull’appoggio politico-militare conferito a taluni gruppi dell’opposizione. Chi riconquista Raqqa ha un ruolo di primo piano nel futuro della Siria. Per Assad significa anche, e forse soprattutto, non lasciare agli americani e ai turchi il monopolio dei destini curdi.

Il terzo argomento è tutto interno alla nuova Amministrazione americana. Trump deve pur dimostrare che tiene fede alla parola data all’energico principe saudita Mohammed bin Salman, ora elevato al rango di principe ereditario, e soprattutto contrastare la percezione di essere in qualche modo condizionato dallo scenario del Russiagate. Deve gestire Putin come se nulla fosse; e qualche reazione di assertività militare è funzionale allo scopo.

Una partita da giocare anche al tavolo dei negoziati
Ma tra parole e fatti c’è grande differenza. La Russia non può permettersi uno scontro con gli Stati Uniti, tanto meno nel momento in cui cerca piuttosto un alleggerimento del suo impegno militare in Siria. E peraltro il suo interesse è diverso da quello dell’Iran e consiste essenzialmente nel preservare le basi aereo-navali di Tartous e Palmira e nel non cedere il terreno politico-diplomatico che ora domina (da utilizzare possibilmente anche nella partita ucraina). Non a caso, Mosca ha rapidamente convocato per il 4 luglio il gruppo di Astana per la ripresa dei negoziati.

Anche Washington, dal canto suo, sembra intenta a mitigare i toni e ha auspicato la ripresa dei contatti military-to-military. Evidentemente, uno scontro militare diretto non è stato messo in conto né a Mosca né a Washington. Pentagono e Dipartimento di Stato sono al lavoro per assorbire eventuali irrazionali intemperanze di Trump.

Il rischio di una nuova avventura militare americana non è tuttavia trascurabile, al contrario: ma potrebbe coinvolgere non tanto i russi quanto i loro alleati iraniani. Perché allora i conti tornerebbero, la traiettoria della ‘mezzaluna sciita’ verrebbe interrotta, Israele e Arabia saluterebbero con soddisfazione, come pure l’opposizione siriana che per anni ha sperato in un più consistente punto d’appoggio a Washington.

Ad Astana, dunque, la Russia avrà il difficile compito di rilanciare le intese del 4 maggio sulle de-escalation zones, di ricercare una mediazione con l’Iran e con la Turchia e, non ultimo, come ripetutamente chiestole da Washington, di frenare Assad che sta cercando di estendere il più possibile il proprio controllo sul territorio a prescindere dalle intenzioni degli alleati. Un suo successo sarebbe anche un successo di Trump.

Laura Mirachian, Ambasciatore, già Rappresentante permanente presso l’Onu, Ginevra.

Una area sotto controllo: Il Mar Rosso


Medio Oriente
Mar Rosso: asse egiziano-saudita-israeliano
Fabio Caffio
24/06/2017
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Da mesi si sente dire che l'Egitto sta per trasferire all’Arabia Saudita, con il consenso di Israele, il possesso di due isolotti nello Stretto di Tiran. Problemi politici interni all'Egitto avrebbero sinora impedito il perfezionamento di un accordo volto anche a proteggere la sicurezza israeliana e a contrastare le minacce addebitabili all’Iran.

La posta in gioco è, per l’Arabia Saudita, ambiziosa poiché le sarà consentito di controllare le rotte del Golfo di Aqaba dopo quarant’anni dagli Accordi di Camp David.

Ma un effetto dell'iniziativa potrebbe essere quello di indurre a riconfigurare la missione, svolta dalla Multinational Force and Observers, (MFO) mediante Unità della nostra Marina, di garantire la libertà di navigazione nello Stretto. In questo caso ci sarebbero controindicazioni da considerare.

Area settentrionale Mar Rosso, Stretto di Tiran e Golfo di Aqaba (Fonte IBRU).

Alleanza strategica
Il Parlamento egiziano ha dato il via libera, il 14 giugno, all’accordo con l’Arabia Saudita di delimitazione delle acque dello stretto e di retrocessione delle Isole di Tiran e Sanafir. Resta da superare il contrasto tra Parlamento e Corte Suprema amministrativa sulla legittimità di tale accordo, ma tutto lascia presagire che presto, anche se alcuni settori politici manifestano un profondo dissenso, il Cairo potrà rinunciare alla giurisdizione sulle due isole del Mar Rosso. In cambio, Riad promette cospicui aiuti finanziari.

Il Golfo di Aqaba dovrebbe così essere sottratto ad ogni rivalità interna, essendosi raggiunta piena intesa tra Egitto ed Arabia Saudita, con la Giordania in posizione defilata - grazie all’Accordo di Pace del 1994 che garantisce accesso al porto di Aqaba - e con Israele e Stati Uniti nel ruolo di sponsor.

L’Arabia Saudita intende evidentemente consolidare la sua immagine di potenza regionale attivamente impegnata sul fronte marittimo, come dimostrato con il blocco navale contro le milizie sciite yemenite.

Israele confida invece sul fatto che si pongano le basi per la soluzione, auspici Stati Uniti ed Arabia Saudita, della questione palestinese (il cui stallo ha sinora impedito a Tel Aviv di stabilire relazioni diplomatiche con la monarchia saudita).

Isole (non) contese
Un aspetto da ponderare - e che potrebbe portare presto al risultato sperato da Arabia Saudita ed Israele - è se, per le due isole, non si tratti di cessione di sovranità.

L’Egitto acquisì di fatto il loro possesso nel 1906, togliendole all’Impero Ottomano per difendere gli interessi britannici nel Mar Rosso. Questo possesso fu poi confermato dall’Arabia Saudita nel 1949,dopo la prima guerra con Israele, e si rivelò vitale nelle guerre successive e nella crisi di Suez del 1956, quando l’Egitto bloccò la navigazione nello stretto.

Il controllo egiziano sulle due isole non mutò con gli Accordi di Camp David del 1978; il regime di libertà di transito nello stretto fu tuttavia garantito, in favore di Israele, dalla previsione che “lo stretto di Tiran ed il Golfo di Aqaba sono vie d’acqua internazionali aperte al diritto di navigazione, non impedito e non sospendibile, di tutte le Nazioni”.

L’area di attività della MFO.

Il ruolo della MFO e il coinvolgimento dell’Italia
Israele era (ed è) quindi il primo beneficiario di tale regime di transito che altrimenti le sarebbe stato negato, poiché la Convenzione del Diritto del Mare non lo prevede per gli stretti che, come Tiran, non sono “internazionali”.

Per garantire la supervisione delle clausole relative al passaggio nello stretto e alla smilitarizzazione del Sinai, Egitto, Israele e Stati Uniti dettero vita nel 1982 alla MFO, organizzazione che nacque per il veto di Unione Sovietica e Cina a impiegare forze d’interposizione Onu.

L’Italia fu presto coinvolta nella sua struttura: sin dall'origine, ne ospita a Roma la sede e fornisce un contingente navale di tre pattugliatori della Marina dedicati alla sorveglianza della libertà di navigazione nello Stretto.

Equilibri geopolitici
Apparentemente, la riconsegna delle due isole all’Arabia Saudita sembra un’operazione a somma zero. In realtà, poiché Tiran (e le zone adiacenti del Mar Rosso) sono da decenni aree sensibili, anche un semplice cambiamento del loro status quo può provocare effetti non voluti.

Il transito nello stretto domani avverrà, ad esempio, in acque saudite, ma Riad potrebbe interpretare i propri obblighi in modo diverso dall'Egitto, non essendo vincolata, sul piano formale, al rispetto degli accordi del 1978 e del seguente trattato del 1979.

Per evitare simili incognite, occorrerebbe procedere con cautela, per quanto riguarda il settore navale, nel modificare l'assetto della MFO relativo alla sua funzione di supervisione in mare.

La scelta fatta 35 anni fa di coinvolgere il nostro Paese nella MFO è frutto di equilibri geopolitici che, per quanto datati, vanno considerati attentamente. La libertà di navigazione riguarda, infatti, non solo gli Stati rivieraschi del Golfo di Aqaba, ma anche l’intera comunità internazionale.

Fabio Caffio è Ufficiale della Marina Militare in congedo, esperto in diritto marittimo

Mediterranei e Migranti

 GEOPOLITICA DELLE PROSSIME SFIDE

Sondaggio Lindh Foundation
I Mediterranei: mondi diversi ma compatibili
Matteo Liberti
21/06/2017
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Mediterranei sì, ma non tutti allo stesso modo: è quanto emerge dall’indagine sui Trend Interculturali promossa dalla fondazione Anna Lindh ed eseguita da IPSOS-MORI. Il rapporto, basato su un sondaggio condotto in otto Paesi europei (Austria, Croazia, Finlandia, Francia, Italia, Polonia, Portogallo e Paesi Bassi) e cinque del Mediterraneo sudorientale (i cosiddetti Sem, South Eastern Mediterranean - Algeria, Giordania, Israele, Palestina e Tunisia), fa luce sulla visione che i cittadini di queste due blocchi hanno gli uni degli altri.

Una prima differenziazione si ha sulla definizione di “mediterraneità”: i cittadini europei vedono come principale tratto distintivo della regione “lo stile di vita e il cibo mediterraneo”, mentre gli omologhi della sponda sud associano il concetto di mediterraneità più al patrimonio culturale comune e al concetto di ospitalità.

Le percezioni delle migrazioni
Interessante e attuale il dato sulla percezione del problema migratorio. Nei Paesi non europei toccati dallo studio il 60% degli intervistati crede che le migrazioni caratterizzino fortemente il Mediterraneo; la percentuale scende al 44% in Europa, ma il dato varia da un Paese all’altro. In Italia, in particolare, il fenomeno è sentito da sei cittadini su dieci. In entrambi i blocchi, comunque, sono in pochi a non riconoscere nelle migrazioni una questione centrale del Mediterraneo: appena il 21% in Europa e il 19% nei Sem.

Due poli che non s’attirano
Un’altra differenza tra i cittadini a Nord e a Sud del Mediterraneo riguarda l’attaccamento al proprio territorio, come dimostrano le risposte degli intervistati alla domanda “in quale Paese vi rifareste una vita?”. Il 60% degli intervistati dei Paesi Sem dichiara che preferirebbe rimanere nel proprio Paese, mentre il 15 % preferirebbe trasferirsi nel Vecchio Continente. Il discorso cambia nei Paesi europei, dovesolo il 36% degli intervistati dichiara di preferire in ogni caso il proprio Paese: la principale alternativa non viene però vista sulla Sponda Sud, ma negli altri Paesi europei, in due casi su dieci nel Nord America o in Oceania.

Informazione ed economia: curiosità e diffidenze
Un’altra sezione della ricerca è dedicata all’interesseper la cultura altrui e da come gli intervistati si informano sulla vita nell’altra sponda. Le curiosità espresse dai cittadini di ciascun blocco nei confronti dei dirimpettai sono simili e corrisposte. La principale differenza riguarda la religione: il 69% degli intervistati europei dichiara di essere interessato almeno parzialmente alla vita religiosa nei Paesi Sem, mentre il 51% degli intervistati Sem si dice non interessato alle realtà religiose europee. Quanto alle notizie di carattere economico, gli abitanti della sponda meridionale del Mediterraneo sono sensibilmente meno interessati rispetto ai vicini europei.

Sorprendente, almeno a prima vista, il dato sulla fiducia riposta nelle varie tipologie di media: se sia al Nord che al Sud la televisione continua ad essere la principale fonte di informazione, Internet e i social network sono molto più apprezzati nei cinque Paesi Sem - ottenendo la fiducia di quasi sei intervistati su dieci - mentre nel Vecchio Continente il 46% del campione preferisce ai nuovi media la carta stampata e l’approfondimento.

In ogni caso, nei Paesi Sem solo sei persone su dieci hanno avuto accesso in tempi recenti a notizie sull’Europa, mentre le informazioni sul Mediterraneo orientale hanno raggiunto l’81% degli europei. Colpisce come tra gli intervistati europei il 55% affermi che i media non abbiano influito né negativamente né positivamente sulla loro opinione sulle persone provenienti dal Nord Africa e dal Medio Oriente, mentre i Paesi Sem attribuiscono ai media una maggiore capacità di influire sull’idea che i cittadini hanno degli europei: il 21% degli intervistati afferma che i media avrebbero contribuito alla formazione di un’opinione positiva sull’Europa, il 26% sostiene il contrario.

Conoscersi non sempre aiuta
Contrastanti le risposte date sull’impatto dell’incontro con il ‘diverso’: oltre il 48% dei cittadini Sem dichiara che l’incontro con un europeo gli è servito a farsi una buona opinione della gente in Europa. Girata agli europei, questa domanda ottiene però un riscontro diverso: solo il 29% di loro afferma di essere stato influenzato positivamente dall’incontro con cittadino del Nord Africa o del Medio Oriente; anzi il 55% dichiara che l’incontro non è servito a fargli cambiare opinione rispetto ai suoi stereotipi.

Diverse le opinioni espresse dai popoli delle due sponde sui rispettivi sistemi di valori. Alla domanda “quale principio reputi più importante nella crescita dei bambini?”, il 63% degli europei risponde di considerare fondamentale il rispetto delle altre culture, mentre la maggioranza degli intervistati dei Paesi Sem mette al primo posto il rispetto delle tradizioni religiose. Il principio del rispetto delle religioni diverse dalla propria è comunque largamente condiviso da entrambe le parti.

Ti frequento, ma non ti sposo
Curioso il dato sulle reazioni ad un ipotetico matrimonio con una persona di diverso background culturale. Se entrambe le parti accettano la convivenza con persone di cultura diverse sul luogo di lavoro o nello stesso quartiere, più difficile risulta loro accettare la possibilità di matrimoni “misti” (il 20% degli europei ne è infastidito e così pure il 27% dei cittadini dei Paesi Sem). A 50 anni esatti dalla sua uscita, “Indovina chi viene a cena” mantiene una certa attualità: non più in California, ma a Nord e a Sud del Mediterraneo.

C’è ancora della strada da fare nel processo di integrazione culturale nel Mediterraneo, ma le basi - stando al rapporto - sembrano esserci. Lo conferma il fatto che il 90% di tutti gli intervistati, senza distinzioni di nazionalità, vede nell’integrazione le basi per una crescita economica oltre che sociale e che otto intervistati su dieci vedono nello scambio culturale un’arma contro l’estremismo.

La speranza è che questa buona predisposizione sia seguita da politiche e soprattutto risultati che aiutino a migliorare la qualità dell’integrazione culturale, e quindi sociale, tra le due sponde del Mediterraneo.

Matteo Liberti è stagista presso l’Area Comunicazione dello IAI.

lunedì 26 giugno 2017

L'Ideologia politica dell'Islam

GEOPOLITICA DELLE PROSSIME SFIDE


di
ELEONORA PALONE*
Il mondo musulmano oggi vive una profonda crisi delle istituzioni politiche e non solo, il modello di stato islamico, realizzato ai tempi del Profeta Muhammad, nei secoli successivi è stato oggetto di una riflessione teorica e politica che ha portato anche a interpretazioni distorte con l'esperienza storica concreta. Una distorsione dunque nel lavoro politico che invece di proiettarsi nel futuro ha preferito ripiegarsi sul passato. Va sottolineato che l'idea odierna dello stato islamico è un' idea limite,  non è un qualcosa di realizzabile ma qualcosa verso cui tendere, proiettarsi. Lo stato islamico è esistito solo nel passato, non nel presente e meno che mai nel futuro. Per stato islamico esistito solo nel passato si intende ovviamente solo quello realizzato all'epoca del Profeta Muhammad, e per i sunniti possiamo allungare questo periodo anche comprendendo il periodo dei 4 califfi, periodo che va dalla morte del Profeta nel 632 al 661, quando Ali venne assassinato. Certo se si considera che tre califfi su quattro sono stati assassinati (Omar, Othman e Ali) sorgono dubbi sull'effettiva realizzazione dello stato islamico, di un organismo perfetto ispirato a Dio. La fase dello stato islamico del Profeta a capo della comunità di Medina durò 10 anni, dal 622 l'anno dell'Hegira al 632. Muhammad diresse la comunità come un capo beduino e non come un monarca o capo di stato. Muhammad non è neanche un papa ma essendo il ricettore della Rivelazione se ne deduce che sia Dio stesso a suggerirgli come gestire la società. L'idea dello stato islamico recuperata oggi affermando la necessità di riprodurre lo stato islamico del Profeta significa cancellare tutto lo spazio utopico della teorizzazione del modello islamico di stato, con la consapevolezza che non può esistere tale modello, neppure sotto forma utopica.

L'obiettivo di questa analisi è proprio quello di analizzare il ruolo politico nella riflessione religiosa dell'Islam, con la speranza di delineare una fisionomia di estrema complessità di questa religione affinché possa sfuggire da banalizzazioni e da generalizzazioni. I fatti odierni dall'attentato dell'11 settembre 2001 che ha sicuramente aperto una nuova fase storica, alle guerre che ne sono seguite, dalla diffusione di Al-Qaeda all'incombente minaccia dell'ISIS, il sedicente Stato Islamico dell'Iraq e del Levante, hanno proiettato l'Islam al centro dell'attenzione pubblica, soprattutto di coloro che non si sono mai interessati a questo argomento con il risultato di una deformazione di questa complessa religione. Questa analisi intende approfondire dal punto di vista teoretico-filosofico il significato del politico nel quadro dell'ideologia islamica. L'Islam ha una dimensione del sacro che non può non aver ricadute su quella sociale e politica, con ciò però non significa che la religione diriga il politico, anzi, la storia islamica ha testimoniato soprattutto una strumentalizzazione della religione da parte del potere politico. Il giure islamico si secolarizza nel contatto stesso con la realtà, Dio non ha mai governato in maniera diretta, sono sempre gli uomini che lo hanno fatto in suo nome alla luce delle loro necessità e delle loro convenienze[1]. Il Cristianesimo originariamente è stato una religione teologico-politica e solo più tardi si è separato dalla sfera pubblica: se guardiamo però alla pratica della gestione del potere e dei rapporti tra politica e religione nell'età contemporanea, le cose stanno in modo alquanto diverso. È sufficiente osservare i simboli dell'azione politica che provengono dalla maggiore democrazia del mondo: gli Stati Uniti d'America. Addirittura il denaro negli Stati Uniti rimanda a Dio, In God We Trust è stampato sulle banconote, ma tutto il linguaggio politico è intriso di religione. L'ex presidente George W. Bush si è detto investito da una missione divina per guidare l'America e portare pace e libertà nel mondo. È certamente ironico che Bush abbia voluto combattere il fondamentalismo religioso islamico con il richiamo fondamentalista ad un'altra religione. Gli Stati Uniti sono una nazione benedetta da Dio e la società americana fortemente puritana, nutre un senso di esportazione missionario dei propri valori che porta a concepire la violenza come redentrice, la guerra contro l'Iraq ne rappresenta certo un esempio. D'altro canto in democrazie dove la maggioranza della popolazione è cattolica come la Spagna e l'Italia o l'America Latina, la Chiesa è tutt'altro che neutrale: l'obiezione di coscienza per esempio su aborto e divorzio, è il diritto per i cattolici di disobbedire alle leggi dello stato se contrastano con le loro convinzioni religiose. Per non considerare i partiti politici che in Italia e Germania si sono richiamati alla religione. Il Corano e la vita del Profeta dimostrano che la rivelazione di Mecca era incentrata su temi religiosi, la svolta politica e anche militare si ha solo con l'Hegira (cioè l'emigrazione) a Medina, con la nascita della Umma in quanto comunità etico-politica e con l'avvio delle guerre contro i pagani qurayshiti, cioè la tribù araba stanziata alla Mecca ai tempi del Profeta di cui egli stesso ne era originario.
Anche se apparentemente vi è una connessione quasi naturale tra religione e politica nel mondo musulmano, proprio per questo verrà analizzato l'approccio teologico alla politica e politico alla religione nell'Islam sullo sfondo dello sviluppo storico dell'Islam stesso: teocentrismo significa che Dio è il perno centrale attorno a cui ruota la vita del cosmo e la vita umana, Dio è l'organizzazione dell'universo perché ne ha conferito le leggi, Dio è l'organizzazione della società dal punto di vista morale attraverso la rivelazione e Dio costituisce una costante e continua presenza nella vita spirituale del credente[2]. Nell'Islam (per lo meno in quello sunnita) non si può parlare di teocrazia per almeno due ragioni fondamentali, nell'Islam sunnita di gran lunga maggioritario nel mondo musulmano non esiste Chiesa e magistero centrale, non esiste un clero e non vi è nessuna autorità centrale, quindi risulta problematico parlare di teocrazia. In secondo luogo non esiste dogma ma opinione giuridica (fatwà), e tutte le opinioni giuridiche in quanto opinioni sono equipollenti, dialettiche e nessuna dotata di autorità sufficiente per trasformarsi in legge universale. L'unico dogma o principio religioso cui è obbligatorio portare assenso, si limita alla professione di fede dell'Unicità di Dio e della veridicità della profezia di Muhammad (la ilah illa Allah wa Muhammad rasul Allah). Teocrazia certo significa che lo stato è subordinato alla religione, ma nell'Islam parlare di subordinazione tra i due ambiti è fuorviante poiché i due ambiti sono considerati in un rapporto di integrazione, non certo di opposizione. Il teocentrismo islamico piuttosto implica che Dio, e non l'uomo o una qualsiasi istituzione umana, pur universalistica come una Chiesa, si collochi al centro di ogni realtà antropologica e sociale[3].Quindi si può parlare di teocentrismo islamico ma non di teocrazia. Naturalmente nel caso dello sciismo in parte è diverso, esiste una concezione gerarchica, vi è la dottrina dell'imam e del ta‘lim o insegnamento di autorità, questo implica l'esistenza di una casta di interpreti privilegiati della Legge che prefigurano un clero.
L'Islam pur essendosi sviluppato secondo dei canoni politici, vanta una priorità in quanto costituisce l'asse intorno al quale si organizza l'intero mondo musulmano, nonostante ciò la politica conserva un'autonomia. È il problema della cosiddetta “siyasa shar‘iya” cioè della “politica secondo la Legge religiosa”, siyasa sta per politica che attiene al governo e si trova oltre il campo di intervento dei giudici (qadi), è vero che la politica deve ispirarsi alla Shari‘a, che è la Legge sacra islamica, ma non ripeterla. La Shari‘a costituisce l'orizzonte di riferimento della politica che però conserva una propria autonomia. Osservazione che porta alla conclusione che la politica nel mondo musulmano pur dipendendo dalla religione, resta una realtà laica. Nei testi di Ibn Taymiyya, il giurista e teologo arabo hanbalita che ha vissuto nell'attuale Siria ed è morto a Damasco nel 1328, si parla di una politica divina e non di religione nella politica, politica divina significa che l'azione politica avviene nella sacralità e non che vi sia un'ingerenza della dimensione sacrale nella politica.
Il diritto nell'Islam è di origine religiosa, la Shari‘a, tuttavia sul piano dei fondamenti (usul) ma non sul piano dell'elaborazione positiva e pratica del diritto, cioè nei fiqh o diritto musulmano. La Shari‘a frutto della rivelazione si limita a stabilire i principi, è la via (questo è il significato etimologico del termine) al comportamento e alla norma, si colloca dunque sul piano dell'astrazione teorica. La Shari‘a non va intesa come un codice, un comandamento ma piuttosto come un sistema di valori che trascende i luoghi ed i tempi, è la bussola che ogni musulmano possiede nel suo cuore e nella sua memoria. Il fiqh è l'autentico diritto islamico nelle sue varie articolazioni (pubblico, privato, civile e penale), radicato nella società e nelle istituzioni, è cioè l'elaborazione giurisprudenziale avvenuta sulla base della Legge sacra islamica. La Shari‘a ha un carattere soggettivo poiché dipende dalla volontà di Dio che l'ha formulata, il fiqh invece ha un carattere oggettivo poiché calato nella pratica quotidiana del giudicare e dell'amministrare la giustizia. Certo la Shari‘a è parte integrante del fiqh che la ingloba e quindi è condizionato da quest'ultima, ma la Shari‘a può coprire solo l'ambito della morale. Durante l'assestamento del diritto islamico, nel corso della dinastia Abbaside nell'VIII secolo, le controversie teologiche impedirono che le interpretazioni del diritto sacro venissero incanalate in un'unica direzione. Nacquero così le 4 scuole ortodosse sunnite e altre scuole eretiche. Ancora oggi il diritto islamico dei singoli stati si richiama a queste scuole, dimostrando che non è unitario. Le 4 scuole sunnite si differenziano tra loro sia per gli strumenti ermeneutici utilizzati per l'interpretazione della Legge Coranica, sia per la ritualità adottata, e si dividono in:
-La scuola Hanafita, fondata da Abu Hanifa (morto nel 767) di origine iraniana. Scuola che privilegia il giudizio personale all'imitazione passiva, è la più liberale.
-La scuola Malikita, fondata da Malik Ibn Annas (morto nel 795), è una delle più rigorose, rappresenta la tendenza giurisprudenziale più conservatrice. Questa scuola si è diffusa soprattutto nel Maghreb.
-La scuola Shafiita, fondata dall'Imam Shafi'i (morto nell'820), diffusa soprattutto in Indonesia, Siria, e Africa orientale, privilegia la Sunna e l'Ijma della communità.
-La scuola Hanbalita, fondata da Ibn Hanbal, è la più tradizionalista diffusa soprattutto in Arabia Saudita, segue quella Shafiita per quanto concerne il ragionamento giuridico, ma esige un rispetto ferreo della Sunna e del Corano. Invoca il ritorno alla purezza della lettera e propugna l'applicazione del modello idealizzato di Medina. La sua importanza divenne rilevante quando, nel XX secolo, si generò una comunione d'intenti tra hanbaliti e il movimento dei wahhabiti, tuttora dominante in Arabia Saudita. È una scuola che da un estremo rigore morale e richiama la purezza dell'Islam delle origini. Queste quattro scuole islamiche operarono l'estensione del diritto sacro sino alla caduta della dinastia degli Abbasidi, avvenuta nel 1258 con la conquista mongola di Bagdad. Da questo momento in poi non furono più possibili interpretazioni, vene chiusa la porta dello sforzo interpretativo, l'itjihad, e per i secoli successivi il diritto islamico restò immutabile anche se eterogeneo, rifacendosi a tutta l'elaborazione giurisprudenziale (fiqh) di questi secoli di interpretazione. Inoltre va tenuto presente che queste scuole si sono impegnate a seguire il Profeta nel modo migliore, ma non sono fonti in sé. L'unica fonte cui ogni musulmano deve ritornare è il Corano, e la Sunna per i sunniti mentre per gli sciiti è differente. Lo sciismo nacque da una profonda frattura politica della comunità, la fitna, ma determinò i propri principi solo un paio di secoli dopo, con la piena consapevolezza di costituire una fazione. Dunque si può definire lo sciismo come una forma di Islam rinnovato. Sunnismo e sciismo differiscono come in ambito cristiano differiscono cattolicesimo e calvinismo. Si rilevano comunque profonde differenze, la più importante è quella che attiene alla dottrina dell'imamato. Per imamato o califfato si intende la medesima funzione di guida, politica, religiosa ed un tempo della comunità. Sebbene anche i sunniti talvolta chiamino il califfo imam, questo termine assume caratteristiche fondamentali nello sciismo.  Bisogna ricordare che lo sciismo si ramificò in diverse confessioni, la teologia sciita si sviluppò lentamente dopo la morte di Ali e dei suoi figli che a loro volta divennero imam. Le principali confessioni dello sciismo sono:
-lo sciismo duodecimano o imamita, l'Iran è a tutt'oggi l'unico paese musulmano a maggioranza sciita imamita, anche se molti sciiti sono presenti in Iraq, in Libano e nei Paesi del Golfo, oltre che in India.
-lo sciismo isma‘ilita, nettamente minoritario, il suo apice fu all'epoca del califfato fatimide del Cairo.
-lo sciismo zaydismo, diffuso soprattutto nello Yemen, riconosce la superiorità di Ali ma ammette anche la legittimità dei regni di Abu Bakr e Umar[4].
Paul Walker ritiene che nello sciismo esista un'autorità suprema che per quanto stabilita da Dio responsabile di tutte le questioni religiose, dopo la morte del Profeta essendo venuta a mancare l'ultima interpretazione del messaggio divino, si avvertì la necessità di un individuo profeticamente ispirato poiché l'uomo da solo inevitabilmente sbaglia. L'imam occultato resterà celato fino alla fine del mondo, egli è vivo ma invisibile agli occhi degli uomini fino al giudizio finale. Egli è il Mahdì, il Messia. Lo sciismo fin dall'origine si presenta come un movimento di contestazione verso un'autorità fasulla e di recupero della giustizia originaria: Muhammad scelse Ali, e se questa scelta fosse stata rispettata dai compagni, sarebbero stati risparmiati infiniti dolori alla comunità, è il mito che si storicizza e diviene ideologia. Questo ovviamente implica una immagine utopica proiettata verso il futuro.
Il nodo centrale è che nell'Islam la Legge è rivelata, perlomeno nei suoi fondamenti essenziali, e non è frutto dell'elaborazione umana storica.
L'Islam è una religione che fa appello all'intelligenza, essa rifiuta di dotare la mente umana di poteri divini, come affidandole il compito della legislazione o sovranità, prerogative di Dio, tuttavia questo non implica cieca adesione alle obbligazioni legali. Il testo sacro dell'Islam, il Corano
 (letteralmente significa recitazione) si ritiene sia stato espresso da Dio (Allah), e che Muhammad lo abbia ricevuto dall'Arcangelo Gabriele. Si ritiene che il Corano non sia stato messo immediatamente per iscritto anche perché il Profeta probabilmente era analfabeta.  Ma egli assimilò perfettamente il Corano per grazia divina così da poterlo recitare ai suoi seguaci che a loro volta lo memorizzarono. Solo con il califfo Uthman fu messo per iscritto. La Sunna, termine che significa consuetudine, abitudine, costume e, in senso lato, codice di comportamento, è uno dei testi sacri dell'Islam che. dopo il Corano, costituisce la seconda fonte della Legge islamica, e con il testo sacro costituisce la Shari‘a. È stata codificata alcuni secoli dopo la morte del Profeta in base ai racconti tramandati di bocca in bocca da persone degne di fede. La Sunna è costituita dal complesso degli atti e detti del Profeta che sono stati trasmessi nei singoli hadith (racconti), la totalità degli hadith costituisce la Sunna, la raccolta dei comportamenti di Muhammad che sono esempi da seguire da parte della comunità. Dunque le fonti della Shari‘a sono quattro, la prima è il testo sacro del Corano a cui si aggiunge poi la Sunna, una raccolta di frasi, esempi e detti del Profeta la cui fonte principale sono appunto gli hadith, la terza fonte è la Ijma, il consenso della comunità islamica ed infine la Qiyas cioè il ragionamento analogico, consiste nell'applicazione per analogia del dettato del Corano e della Sunna. Accanto alle sacre scritture vi è un'immensa letteratura prodotta nei secoli dai dottori della comunità musulmana sunnita e sciita, i testi di fiqh (giurisprudenza), di kalam (teologia), di tasawwuf (mistica).
Ma si può davvero parlare della Legge di Dio che si impone, della Shari‘a che governa o è una legge umana che gli uomini hanno formulato facendo parlare Dio in loro vece?
La Shari‘a comprende precetti morali, riti ma è rivolta innanzitutto ad individuare la via che porta a Dio e alla sua soddisfazione, è una direzione etica, questo è il suo primo senso etimologico. La Legge religiosa è stata comunicata a tutti i popoli del Libro (ebrei e cristiani) ma è stata perfezionata con l'Islam. Poi vi è il fiqh che rappresenta l'estrarre dalle radici e dalle fonti le norme sharaitiche a cui il musulmano deve adempiere. All'interno dell'Islam non esiste un clero, non vi è Chiesa né dogma, quindi non vi è un'autorità docente centrale. Qualsiasi opinione dei vari giuristi può essere contestata dall'opinione di un altro giurista. Tale opinione, la fatwa, può essere valida solo all'interno di un determinato ambito, per esempio quello sciita quindi  nessun sunnita è tenuto ad applicare la legge di uno sciita e viceversa.
L'Islam non impone nessuna forma di governo, non importa se il sistema sia repubblicano o monarchico, capitalista o socialista, l'importante è che applichi le regole stabilite da Dio, i precetti della Shari‘a non si riferiscono al potere né al regime ma solamente alla religione islamica. L'Islam non è incompatibile con la democrazia, semplicemente una forma di governo islamica non implica la cittadinanza quanto piuttosto l'appartenenza alla comunità dei credenti e all'uguaglianza degli uomini tra se stessi e di fronte a Dio.
Nella società odierna i tradizionalisti sostengono che se si è musulmani non si può abbracciare la democrazia in quanto estranea alla cultura islamica. I regimi che derivano la propria legittimità dall'Islam, come per esempio l'Arabia Saudita, accusano i loro oppositori, che rivendicano democrazia, come miscredenti. Certo l'aspetto ironico è che in altri paesi arabi è l'opposizione stessa a impugnare la democrazia come il fondamento costituzionale, come per esempio è il caso della Tunisia ai tempi di Ben Ali. Bisogna riflettere perché l'Arabia Saudita che ha mosso mari e monti per comprare il sistema missilistico americano (AWACS) senta una necessità più forte di altri paesi musulmani di aderire all'Islam. Quello che è certo è che la chiamata all'Islam diffusasi negli ultimi decenni esprime diversi bisogni, non sempre arcaici e certamente non sempre di natura spirituale. Inoltre va sottolineato che la democrazia è arrivata nel mondo arabo, paradossalmente, tra i bagagli degli eserciti coloniali francesi e inglesi.
Bernard Lewis, specializzato in studi orientali, afferma che nella concezione musulmana tradizionale, lo stato non crea la legge ma è esso stesso creato e mantenuto dalla legge che ovviamente proviene da Dio, è amministrata e interpretata da chi ha competenze al riguardo. Il dovere del sovrano è difendere e sostenere, mantenere e rafforzare la legge, alla quale egli stesso è sottoposto come il più umile dei sudditi.
L'Islam realizza pienamente la giustizia in un equilibrio tra governanti e governati. La ribellione non è lecita a meno che il capo dello stato non ottemperi agli ordini di Dio. La legge obbliga ad osservare e realizzare il precetto coranico di ordinare il bene e proibire il male. Precetto che impegna i sudditi ad obbedire al loro sovrano, solo però se quest'ultimo rispetta le disposizione divine altrimenti la ribellione diviene lecita.
Bernard Lewis però giunge alla conclusione che ci siano verità incontrovertibili come che i musulmani odiano la modernità e che l'Islam non ha separato stato e chiesa, dimostrando un approccio falsamente scientifico e riduzionista. Considera la religione islamica come una sintesi culturale, un elemento onnicomprensivo che prescinde dall'economia, dalle dinamiche politiche e dalla sociologia dei popoli musulmani. Bernerd Lewis fa capire che l'Islam sia un'ideologia politica totalitaria, il suo ragionamento si avvale di molte generalizzazioni e dall'utilizzo parossistico della proprietà transitiva: gli islamici odiano l'America e quindi sono assimilabili a nazisti e comunisti che secondo Lewis non differiscono tra loro. Nel pensiero dell'autore cultura e civiltà vengono considerate impenetrabili e le giudica in base ad una scala di sviluppo determinata al cui apice c'è ovviamente un altrettanto monolitico Occidente. Egli arriva alla conclusione che l'unica salvezza per l'Islam, strutturalmente retrogrado, rimane l'assimilazione ai valori occidentali, tanto da sottolineare che in Medio Oriente ci siano persone che condividono i valori occidentali e che vorrebbero partecipare allo stile di vita occidentale e dunque la soluzione sarebbe: o i musulmani accettano le regole occidentali o ci sarà la resa dei conti[5]. Quella di Lewis è dunque una visione unitaria e semplicistica delle culture, altri studiosi hanno cercato di decomporre la schematizzazione binaria Islam e Occidente, per dimostrare il rapporto di compenetrazione che intercorre tra questi due elementi. Piuttosto che di opposizione tra Islam e Occidente si deve parlare di profonda interconnessione in cui dall'Occidente l'Islam si globalizza, investe il vissuto quotidiano dei paesi di immigrazione e innesca importanti feedback nei paesi d'origine. Una compenetrazione che, tuttavia, non alimenta solo forme pacifiche di ridiscussione identitaria, al contrario può far germinare i semi più perversi dell'occidentalizzazione. Il terrorismo odierno che si richiama all'Islam non è solo un sottoprodotto culturale occidentale ma in un certo qual modo è figlio dell'Occidente stesso. Teoria che trova conferma nell'identità di buona parte dei protagonisti degli attacchi terroristici recenti, se non sono nati quasi tutti in paesi occidentali sono però tutti cresciuti in Occidente. Individui che si sono avvicinati all'Islam radicale e violento in Occidente a partire da percorsi personalissimi di ribellione, il loro militantismo è frutto di una rottura che è assolutamente sociale più che religiosa, anzi spesso questi individui non hanno alcuna esperienza di militanza religiosa precedente. Il loro nichilismo è il risultato di un disagio esistenziale che deriva dal loro sradicamento. Una cosa fondamentale che è sfuggita a Bernard Lewis è che il militantismo islamico pericoloso con finalità terroristiche non ha raggiunto l'Occidente ma è nato in Occidente.
L'Islam molto spesso è stato utilizzato come strumento di controllo politico e sociale delle masse da parte delle classi dirigenti, l'Islam però è servito anche a mobilitare le masse, e questo è molto evidente in relazione al colonialismo. Probabilmente il principale motivo che spiega la grandiosa diffusione dell'Islam soprattutto nel mondo povero, in Africa o in Asia, risiede proprio nell'uso antimperialistico che si è fatto di questa religione fondamentalmente egualitaria. Nelle lotte anticoloniali, liberatorie e comunque potenzialmente difensive a garanzia della sopravvivenza della comunità si inserisce il concetto di jihad, interpretato come il sacrificio sulla via di Dio o come il martirio, analizzando lo stato della questione: il problema del jihad impropriamente tradotto come “guerra santa”, è un impegno sulla vita di Dio, è una lotta di difesa, ed a volte offesa, per la rivendicazione dei diritti di Dio e degli uomini, ma anche una lotta interiore per la propria purificazione. Infatti il grande teologo al Ghazali sostenne la distinzione tra il grande jihad cioè la lotta spirituale verso se stessi e le proprie inclinazioni malvagie, un combattimento etico proiettato a costruire la vera personalità del credente nei suoi obblighi religiosi verso Dio; e il piccolo jihad, quello militare combattuto in nome di Dio per difendersi dagli attacchi nemici o per propagandare la religione stessa. Il valore del piccolo jihad è decisamente inferiore agli occhi di Dio rispetto al grande jihad[6]. Quindi il jihad si distingue in militare e spirituale, anche il recarsi in pellegrinaggio o insegnare la religione può essere considerato un jihad. È importante sfumare i concetti, non vi è dubbio che il Corano sia inequivoco sulla liceità del combattimento. I versetti che seguono possono e hanno dato adito a diverse interpretazioni:
“E combattete sulla via di Dio coloro che vi combattono, ma non oltrepassate i limiti (oppure: non aggredite), ché Dio non ama gli eccessi (gli aggressori). Uccidete dunque chi vi combatte dovunque li troviate e scacciateli di dove hanno scacciato voi, ché lo scandalo è peggio dell'uccidere. (…) Se però essi sospendono la battaglia, Iddio è indulgente e misericorde. Combatteteli dunque finché non ci sia più scandalo, e la religione sia quella di Dio; ma se cessano la lotta non ci sia più inimicizia che per gli iniqui”[7].
Spesso si asserisce che la guerra santa sia sanzionata dal Corano e che il termine con cui la si indichi sia appunto jihad. Il termine appare sotto questa forma precisa solo quattro volte nel Testo Sacro. Di seguito verranno tutte citate, proprio per evidenziare come in nessuna di esse sia possibile utilizzare inequivocabilmente la locuzione “guerra santa”. La prima è la numero 22,78 “Lottate per Dio un'autentica lotta (jihad). Egli vi ha prescelti e non ha messo per voi nella religione impedimenti, la religione del vostro padre Abramo”. Un altro passo è il 9,24 “Se i vostri padri e i vostri figli, i vostri fratelli e le vostre mogli, e la vostra tribù e i beni che avete acquistato e un commercio che temete possa andare in rovina, e le case che amate, vi sono più care di Dio e del suo Messaggero e della lotta (jihad) sulla via di Dio, allora aspettate finché Dio vi porterà il suo ordine distruttore”. In tutti e due i casi il termine in questione potrebbe intendere tranquillamente una lotta di tipo spirituale, non militare. La terza volta che compare il termine è nel 25,52 “Ma tu non obbedire ai miscredenti, ma combattili con esso in una guerra grande (jihad)”. Questo potrebbe intendersi come un jihad di propaganda, di persuasione e di predicazione, come sostiene anche il teologo salafita algerino Badis. Probabilmente il quarto passo potrebbe essere quello più vicino ad indicare un combattimento armato, ben lungi però dall'essere chiaro e inequivocabile. Il quarto passo è il numero 60,1 “Se voi uscite per un jihad sulla mia Via e per desiderio della mia soddisfazione, ma segretamente nutrite affetto per essi (i nemici), ebbene Io meglio conosco quel che voi celate e quel che voi palesate”. Dunque la versione di jihad come guerra santa è del tutto limitativa, poiché è essenzialmente uno sforzo, un impegno, morale e se necessario militare, sulla via di Dio.
Nell'era contemporanea è riemersa la tendenza, da parte di alcuni stati come Sudan, Arabia Saudita, Nigeria e Iran, di applicare letteralmente le pene coraniche, questo rappresenta senza dubbio una sfida per l'interpretazione. Nella società odierna, dove tanta importanza hanno i diritti umani, risulta difficile comprendere il taglio della mano per i ladri, o la severa fustigazione degli adulteri, attenzione non lapidazione, che questa non è sanzione coranica, ma fustigazione. Il Corano è un testo sacro che va contestualizzato nell'epoca in cui è stato rivelato, dove alcune pratiche barbariche erano del tutto legalizzate. In una prospettiva storica si può aggiungere che le severe norme del Corano erano indispensabili per reggere una società anarchica come quella beduina dei tempi del Profeta. La legge del taglione per esempio è presente anche nella Bibbia ebraica, dunque erano norme efficaci in società dove mancava un sistema giuridico analogo al diritto romano.
Per quanto riguarda il punto di vista linguistico la radice del termine jihad, jhd., indica il concetto di sforzo interiore che può condurre l'essere umano alla pienezza spirituale. E da questa radice deriva anche un altro termine fondamentale nel mondo islamico, itjihad: è un termine giuridico che indica la metodologia da seguire per la ricerca della verità, è la capacità dell'uomo di utilizzare i criteri della ragione umana per interpretare il linguaggio di Dio. Secondo alcuni dotti dell'Islam jihad deve essere considerato come il sesto pilastro della fede[8].
Negli ultimi vent'anni è comparso il suicidio del kamikaze, Termine preso in prestito dal giapponese, da un episodio della Seconda guerra mondiale, e le analogie di questo odierno terrorismo con l'attentato alla metro di Tokyo con il gas Sarin. Termine che sino ad allora era assolutamente sconosciuto all'Islam, sebbene il suicidio sia estraneo all'etica e alla dottrina islamica è entrato a far parte degli strumenti di lotta dello jihad. I primi furono alcuni componenti di Hezbollah, il Partito di Dio libanese, poi fu la volta di Hamas e così il termine kamikaze è entrato a far parte del lessico politico islamico. Ricordiamo però che qui si sta parlando di una lotta politica, non religiosa, rispetto a tutte le armi di Israele il palestinese risponde sacrificando se stesso perché non ha altro. Inoltre un hadith del Profeta afferma che chiunque uccida se stesso con un'arma di ferro, l'arma di ferro rimarrà nella sua mano, ed egli continuerà a pugnalare il suo ventre con essa eternamente nel fuoco dell'inferno, per sempre. Dunque tutti coloro che chiedono il rifugio di Dio dopo essersi fatti esplodere verranno accolti all'inferno.
Se si vuole comprendere come il suicidio sia apparso come categoria politica nell'Islam contemporaneo, è necessario partire dall'origine: i suicidi politici appaiono inizialmente nei gruppi sciiti filoiraniani, solo in un secondo tempo trovano seguito presso gruppi sunniti come Hamas. Storicamente lo sciismo si fonda sul martirio dei figli di Ali (Hasan e Hoseyn). Secondo gli sciiti il califfato fu usurpato dai sunniti, nella battaglia di Kerbela Hoseyn figlio di Ali fu decapitato ed i suoi partigiani massacrati. Questo episodio storico è alla base della coscienza martiriologica della cultura sciita. Dunque in questa ottica il suicidio, rinnovando la tragica esperienza di Kerbela, si trasforma in testimonianza. Hoseyn era stato avvisato da molti sul tradimento quasi certo degli abitanti di Kufa, e nonostante ciò, andò consapevolmente verso la morte. Quasi come fosse una reincarnazione di Dio, Hoseyn diviene l'agnello che s'immola sull'altare della giustizia, il martire che rifiuta il compromesso di accettare la sovranità di personaggi empi e nefasti. Così facendo Hoseyn si trasforma nel vincitore e l'impatto emotivo che la battaglia di Kerbela suscitò fu un'onda a lunghissimo raggio, i cui effetti perdurano sino ai giorni nostri.
All'interno del mondo islamico, inoltre,  le persone possono differire enormemente per altri aspetti quali i valori politici, sociali, economici, letterari e così via,  sostenitori della pace e i fautori della guerra possono appartenere alla stessa religione. Dovremmo accettare il fatto che la fede religiosa non determina da sola l'identità di un individuo. Non ci si può chiedere quale posizione abbia il musulmano su temi in cui storicamente i musulmani hanno avuto posizioni del tutto diverse. All'interno del mondo islamico la maggioranza delle persone è musulmana, quindi professano la stessa fede ma possono differire enormemente per altri aspetti, basta pensare per esempio alla grande differenza che intercorre tra una donna saudita tradizionalista e una donna turca di Istanbul senza hijab, questa differenza non è religiosa ma nello stile di vita adottato dalle due donne. Nel mondo musulmano esiste l' ijtihad, come prima sottolineato, l'interpretazione religiosa che consente una larghezza di vedute all'interno dell'Islam, un musulmano ha la libertà di scegliere  a quali valori dare priorità senza compromettere la propria fede. Ogni religione ha avuto spietati guerrieri e grandi campioni della pace fra i suoi fedeli, e invece di chiederci quale sia il vero credente e quale invece un semplice impostore, dovremmo accettare il fatto che la fede religiosa non può determinare in modo univoco tutte le decisioni che dobbiamo prendere nella nostra vita, incluse le nostre priorità politiche e sociali e il comportamento e le azioni che ne conseguono[9].
L'Islam resta una variabile aperta e solo il futuro potrà dirci in quale direzione esso sia incamminato, in ogni caso, l'approfondimento delle tematiche politiche fornisce un aiuto non indifferente per sfuggire ai pregiudizi e anche all'ignoranza che troppo frequentemente ci consegnano dell'Islam una rappresentazione distorta.

* Eleonora Palone,  Collaboratrice CESVAM

Bibliografia:
Allam K. F., L'Islam globale, Milano, Rizzoli, 2002
Campanini M., Ideologia e politica nell'Islam, Bologna, il Mulino,  2008
Campanini M., Il Corano e la sua interpretazione, Bari, Editori Laterza, 2004
Campanini M., Islam e Politica, Bologna, il Mulino, 2015
Lewis B., Faith and Power: Religion and Politics in the Middle East, USA, Oxford University Press, 2010
Mandel khan G. (a cura di), Il Corano
Sen A., Identità e violenza, Bari, Editori Laterza, 2008
Vanzan A., Gli sciiti, Bologna, Il Mulino,  2008








[1] Campanini M., Ideologia e politica nell'Islam, Bologna, il Mulino,  2008, p 9
[2] Campanini M., Ideologia e politica nell'Islam, cit. p 21
[3] Campanini M., Islam e Politica, Bologna, il Mulino, 2015, p 27-28
[4] Vanzan A., Gli sciiti, Bologna, Il Mulino,  2008, p 42
[5] Lewis B., Faith and Power: Religion and Politics in the Middle East, USA, Oxford University Press, 2010, p 85
[6] Campanini M., Il Corano e la sua interpretazione, Bari, Editori Laterza, 2004, pp 54-55
[7] Mandel khan G. (a cura di), Il Corano, cit. p 30,Sura 2: 190-193
[8] Allam K. F., L'Islam globale, Milano, Rizzoli, 2002, p 125
[9] Sen A., Identità e violenza, Bari, Editori Laterza, 2008, cit. pp 67-68

giovedì 22 giugno 2017

Continuazione progetto Albania

DIBATTITI

PER IL 2018 è STATO PRESENTATO AL MINISTERO DELLA DIFESA UN PROGETTO RIGUARDANTE LA RESISTENZA DEI MILITARI ITALIANI ALL'ESTERO DURATE LA GUERRA DI LIBERAZIONE
TALE PROGETTO HA LA SUA ORIGINE DALLE PUBBLICAZIONI CHE SONO STATE INERITE NELLA COLLANA STORIA IN LABORATORIO -LIBRI DEL NASTRO AZZURRO A PARTIRE DAL 2017

SI RIPORTA UNA NOTA RIASSUNTIVA DI TALI PUBBLICAZIONI CHE SONO DISPONIBILI
info: centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org


Il contributo che si può dare alla storia dei soldati ITALIANI in Albania consiste principalmente nell’inserirlo  nel filone di ricerca che, iniziato bel 1989, è proseguito nei trent’anni successivi e che ha permesso di pubblicare, come risultato dei cicli di ricerca, i seguenti volumi:

Massimo Coltrinari, Albania Quarantatre, L’avviamento dei Militari Italiani ai campi di concentramento ,Roma, Edizioni Associazione Nazionale Reduci dalla prigionia, dall’Internamento e dalla Guerra di Liberazione, 1995, pagine 236
Massimo Coltrinari,L’”8 Settembre” in Albania. La crisi armistiziale tra impotenza, errori ed eroismo. 8 settembre-7 ottobre 1943, Roma Università La Sapienza, Edizioni Nuova Cultura, pagine 265
Massimo Coltrinari, Paolo Colombo, L’a Divisione “Perugia”. Dalla Tragedia all’Oblio. Albania 8 settembre-3 ottobre 1943, Roma Università La Sapienza, Edizioni Nuova Cultura, pagine 320
Massimo Coltrinari, La Resistenza dei Militari Italiani all’Estero. Albania, Roma, Ministero della Difesa, Rivista Militare,COREMITE, Commissione per lo Studio della Resistenza dei Militari Italiani all’Estero, 1999, pag. 1144
Massimo Coltrinari, Laura Coltrinari, La ricostruzione e lo Studio di un avvenimento Militare, , Roma Università La Sapienza, Edizioni Nuova Cultura, pagine 288[1]



[1] I Volumi sono rintracciabili consultando: www.storiainlaboratorio.blogspot.com; oppure scrivendo a centrostudicesvam@istitutonastroazzurro,org. Per l’acquisto: sono disponibili in tutte le librerie d’Italia; per acquisti diretto. A) scrivere a: ordini@nuovacoltura.it; oppure B. www.nuovacultira.it seguendo il percorso /collane scientfiche/ collana storia in laboratorio/pagina 1 o pagina 2.

mercoledì 21 giugno 2017

GEOPOLITICA DELLE PROSSIME SFIDE


 Federico Salvati, laureato e specializzato in Relazioni Internazionali, attualmente a Mosca  collabora con il CESVAM dalla sua costituzione. Ha inviato l'articolo pubblicato  che di seguito pubblichiamo in una traduzione elettronica in italiano


Dal SU-24 crisi per il Mosca-Ankara al riavvicinamento: 

Leadership e Dottrine. Politica estera

Foto: Kremlin.ru


Autore:  Federico Salvati
 Abstract
Il seguente articolo analizza l'evoluzione degli Russia - rapporti Turchia negli ultimi tre anni con la maggiore attenzione per l'incidente di abbattere l'aereo Su-24 nel 2015. L'evento ha determinato un confronto diplomatico di entrambi i paesi seguita da un riavvicinamento sorprendente , che ha portato a numerosi segni di una stretta collaborazione, in particolare nel contesto della guerra civile siriana. L'articolo si propone di presentare come Putin e Erdogan, come leader dei paesi, hanno agito e ha portato loro nazioni dal SU-24 crisi per l'aumento della cooperazione. Le relazioni tra questi due attori possono influenzare pesantemente il prossimo futuro sia nell'agenda europea e internazionale, quindi, è di fondamentale importanza per capire le tendenze e le prospettive degli attuali russi - i rapporti turco.


Una rapida panoramica storica

La narrazione tradizionale sulle relazioni turco-russa è una delle rivalità nel corso della storia. Più precisamente, si potrebbe dire che è caratterizzata da una serie di crisi e accostamenti causa interessi strategici sovrapposte.

Con la caduta dell'Unione Sovietica, molti stavano guardando la Turchia come un valido candidato per riempire alcuni vuoti lasciati da l'URSS in un quartiere comune dei due paesi. Gli studiosi sono stati sottolineando come le relazioni tra questi due potrebbe rapidamente degenerare verso una competizione geopolitica. Tuttavia, all'inizio del nuovo millennio, Ankara non ha dimostrato tali inclinazioni. L'influenza e la capacità di proiezione di Ankara è rimasto limitato alla cooperazione economica e diplomatica, senza sviluppi forti (Simao, 2016, p.56). Al contrario, in questo periodo i rapporti tra Ankara e Mosca hanno iniziato a convergere. Questa convergenza è stato sentito in particolare nelle relazioni commerciali e l'esportazione di energia. Le relazioni commerciali tra Mosca e Ankara sono circa un valore di $ 31.2 miliardo ma ancora più importante, la Turchia importa il 70% delle sue risorse energetiche dalla Russia. Inoltre, la Turchia rappresenta un importante paese di transito per Mosca di vendere il suo gas naturale ai mercati Wstern.

Con l' inizio della guerra civile siriana, alcune tensioni tra le due potenze sono state riacceso. L'interesse turco nel conflitto siriano è stato molto elevato. La capacità del governo di intervenire , però, ha trovato né il suo interesse, né la sua retorica (Aydintasbas, 2016, p.4). Invece, nel mese di settembre 2015, la Russia è intervenuta nel contesto di “stivali sul terreno”, puntellare il regime di Assad nella battaglia. Le operazioni hanno determinato un massiccio attacco aereo contro i gruppi sunniti armati, come ad esempio lo Stato Islamico dell'Iraq e il Levante (ISIL), al-Nusra (al-Qaeda nel Levante) e l'Esercito di conquista. Le operazioni colpiti anche i gruppi di Turchia-sponsorizzati vicino al confine con la Turchia, così come il civile turca della popolazione vive ancora in Siria.

Ankara ha risposto immediatamente e molto duro LY all'intervento Russia, dimostrando la sua assoluta disapprovazione. In media turchi, il russo intervento si è riflessa in un attacco contro l' interesse nazionale turca e il turkmeno che vivono in Siria. La Turchia ha deciso di fare appello al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC), portando il caso delle vittime civili turkmene di bombardamenti russi (Aydintasbas, 2016, p.13). Nel novembre dello stesso anno, alcuni nuovi eventi hanno scatenato una massiccia crisi tra i due Paesi. Lo scenario - contro le aspettative di tutti - si è evoluta molto rapidamente in una direzione completamente imprevista portando relazioni turco-russa da un livello più basso a un massimo storico di nuovo.


L'abbattimento del caccia russo come l'inizio della crisi

La mattina del 24 novembre 2015, la presidenza turca ha annunciato che la forza aria si era abbattuto un russo SU-24 che aveva violato lo spazio aereo turco (Aydintasbas, 2016, p.1). Secondo l'autorità turca, il combattente era stato avvertito 11 volte prima di essere abbattuto per aver violato lo spazio aereo nazionale per 17 secondi. Questa dura reazione della Turchia sarebbe stato il risultato di un incidente 2012, in cui un jet turco era stato abbattuto dalle forze siriane (BBC, 2012). Turchia, dopo l'incidente 2012 ha cambiato le sue regole di ingaggio, annunciando che avrebbe preso in considerazione tutti gli oggetti si avvicina il suo spazio aereo come una minaccia.



Figura. 1
piani di volo Presunte


Turchia e Russia rilasciati più notizie di supporto trova di fronte a fatti. I paesi in ultima analisi, potrebbero non sono d'accordo su una versione comune del incidente e mentre la Russia è stato affermando che l'aereo non aveva mai violato lo spazio aereo, la Turchia era sostenendo al contrario (Aydintasbas, 2016, p.7). Dopo l'abbattimento, un'escalation della retorica si trasforma ben presto i due paesi contro l'altro. Il 28 novembre 2016 (ABC, 2016), Putin ha firmato un decreto che imponeva restrizioni alle imprese turche e merci turche in Russia. Il presidente ha emesso così un divieto di viaggio, annullando eventuali voli charter tra i due Paesi e mettendo fine ai tour operator russi che vendono viaggi in Turchia. L'assenza di quattro milioni di turisti in Turchia, in combinazione con un calo del turismo dall'Europa ha causato le perdite tra $ 3.5 miliardi di dollari per l'industria del turismo turco (Forbes, 2016).

Dopo alcuni mesi di “braccio di ferro” tra le due nazioni, il 27 giugno 2016, Erdogan ha inviato una lettera a Putin scusandosi per l'accaduto (Sputnik, 2016). I piloti, responsabili per l'abbattimento del velivolo, sono stati arrestati anche al fine di “stabilire la verità” (Daily News, 2016). Subito dopo la lettera, che il testo non è stato ancora rivelato al pubblico, le relazioni tra la Russia e la Turchia riscaldati rapidamente. Le sanzioni sono state via via sollevati, mentre le voci hanno cominciato che circolano sul proseguimento della cooperazione tra i due paesi (RT, 2016).


Lo stile di leadership e politica estera - l'analisi di sfondo

stili di leadership

Putin e Erdogan hanno stili di leadership simili e la loro personalità influenzano notevolmente il corso della loro stati (Wegren e Herspring 2010, p.12 e Feroz, 2014, p.25). Sia la Turchia e la Russia sono sempre stati “leader” politica nazioni, il che significa che essi hanno sempre apprezzato e fatto affidamento sulla figura del loro leader come personificazione dello stato e la vita politica (Onis e Yılmaz, 2015, p.7).

Görener e Uca, che ha condotto una ricerca quantitativa di profili Erdogan, dicono che “L'immagine mediatica di Erdogan sta diventando sempre più‘assertivo’,‘autoritaria’e‘assetato di potere’(...) e Erdogan si mostra un crescente interesse costringendo e manipolare gli eventi (....)”(Görener e Uca, 2011, p.362). Putin presenta caratteristiche simili come leader. Soprattutto dopo la “guerra al oligarchi”, la sua immagine è quella di un uomo onnipotente il cui potere può cambiare direttamente la realtà nei suoi aspetti più piccoli. Questo autorevole costruzione dell'immagine leader è accompagnata da una retorica molto simile a quello utilizzato sia da Erdogan e Putin. Si alternano ufficiale e dei leader linguaggio specialistico assomiglia a quella di uno slang di strada, che usano per attaccare i loro rivali e avversari (Petrov, 2014, p.13).

Tuttavia, una grande differenza da notare nella loro postura. Putin è un uomo molto composta, ha patronises il pubblico, sicuro della sua posizione. Non ha una retorica esplosiva e cerca sempre di mostrarsi calmo e sicuro di sé ai media. Erdogan, d'altra parte, è più diretto ed estroverso. Egli costruisce l'immagine del potere attraverso il suo stile retorico dinamico e la sua aggressività (Görener e Uca, 2011 e Smirnova, 2012).

D'altra parte, l'ascesa al potere dei leader può essere considerato molto simile. Sia Putin e Erdogan è salito al potere in un momento in cui le loro rispettive nazioni erano in una crisi politica generale. Russia e Turchia crescevano progressivamente in grado di far fronte alla globalizzazione e della modernizzazione (Dugin, 2015, p.32, Keyman, 2015, p.12). L'ascesa di Putin e Erdogan al potere si è basata su una propaganda schietto su come avrebbero ridefinire la società. Subito dopo la loro elezione, i leader dei paesi hanno iniziato a consegnare le politiche economiche finalizzate a contenere lo stand liberale capitalista preso dai loro predecessori. Ancora più importante, hanno iniziato l'attuazione di una nuova dottrina sociale basato sulla fedeltà alla politica di potenza e di identità (Dugin, 2015, p.147).

La definizione dell'idea del "russo" come unità di identità ha influenzato profondamente il dibattito politico del paese. L'identità nazionale della Russia di oggi ufficialmente si basa sulla lingua russa. Al giorno d'oggi, in Russia, la cittadinanza viene rilasciato solo dopo il successo nel parlare la lingua russa. Inoltre, secondo l'ultima edizione del Russian National concetto di sicurezza, è un dovere dello Stato di difendere tutte le etnie e di lingua russa sul globo e più precisamente nella “area di interesse prioritario”. In una nazione multiculturale come la Russia, la lingua russa sembra essere l'unico vero legame tra i diversi gruppi etnici nazionali. Sulla base di questo, t egli governo insiste sul suo tentativo di imporre ai cittadini una sorta di fedeltà generalmente condivisa nei confronti della Russia come Stato.

Erdogan è stato affrontando gli stessi problemi di Putin, ma con alcune strategie leggermente diverse. Durante la prima fase del periodo sentenza AKP / Erdogan il leader gravemente lottato per conciliare insieme la sua visione morale e politica con la situazione politica del momento. l'ideologia di Erdogan è chiaramente ispirato l'Islam politico. Finora, non ha mai cercato di stabilire uno stato islamico (Görener e Uca, p.372), ma ha perso il suo rispetto per la democrazia e lo Stato di diritto. Soprattutto dopo il tentativo di colpo di stato, lo stand autoritaria nella leadership di Erdogan è diventato sempre più chiaro (Akyol, 2015 e Zanotti, 2016), che alla fine ha portato alla recente referendum costituzionale, che ha dato Erdogan ancora più poteri di svolta sistema politico del paese in una presidenziale. Come forza di destra autoproclamato, l'AKP è riuscito a infondere il discorso politico con i suoi valori reazionari e conservatori. Inoltre, l'Islam politico ha trovato la via del ritorno nella dottrina presidente con il fatto che la religione è stato promosso come una caratteristica fondamentale di identità nazionale (Gorlach, 2014).

Dalla nostra analisi comparativa, emerge come la Russia e la Turchia presentano somiglianze sorprendenti nei loro stili leadership. E 'importante sottolineare tale caratteristica della vita politica delle nazioni, perché, essendo i paesi entrambe ‘leader-politica’, lo stile dei loro capi influenza notevolmente la definizione dell'agenda politica nazionale e le strategie utilizzate dagli Stati a perseguire tali ordini del giorno.
Per riassumere, si può dire che tutti i fatti presi in considerazione qui sottolineare la presenza in entrambi i paesi regime democrazia totalitaria, centrata sulla figura del leader onnipotente. Nessuno dei capi in realtà mai rifiutato i principi dello Stato pluralista. Nel racconto nazionale ufficiale, sia di loro potrebbe essere rovesciato da un'elezione democratica. Ma perché questo accada, quando essi incarnano l'essenza della loro identità nazionale. Proprio come Putin è l'uomo russo, immagine Erdogan è modellato su quello turco.

Politica Dottrina Foreign

La seconda istanza che ha influenzato la crisi e il riavvicinamento tra la Russia e la Turchia è la dottrina di politica estera dei paesi. L'intera dottrina estera russa è centrata sul concetto di multipolarità. Dopo il 1996, la creazione di un mondo con più centri di potere è diventato progetto a lungo termine della Russia. multipolarità russo, ha anche alcune caratteristiche particolari e uniche che vale la pena esplorare. Si basa sulla geopolitica e informato dal principio di regionalismi. La divisione del potere nelle origini del sistema internazionale da valori geografici e culturali che interagiscono tra loro sotto la variabile principale che influenza l'equilibrio internazionale: di prossimità (fisica, economica e politica). Alexander Dugin si occupa con l'argomento ampiamente nel suo lavoro. Il conservatore di destra filosofo russo vede la Russia come il principale esponente di quella che chiama la “terra della civiltà”. Russo è visto come un centro di potere di civiltà, che proietta la sua influenza culturale e militare in una zona (la “estero vicino”) di primario interesse. Questa influenza esclusiva è un essenziale nazionale prerogativa sia per la sicurezza nazionale e la stabilità internazionali (Dugin, 2015, p.163).

Ankara basa la sua dottrina politica sugli stessi principi della “centralità” e la proiezione di Mosca. Inoltre, proprio come nel caso della Russia, della politica estera turca si basa su termini storici (loannis e Grigoriadis, 2010). Mentre il russo “estero vicino” coincide grosso modo con l'area post-sovietica, sfera di influenza di Ankara è tratto dal primo Impero ottomano e legami culturali con le popolazioni turche. L'assunto di base della politica estera di Ankara è influenzato dal presupposto che i flussi storici disciplinano i rapporti di potere, le alleanze e le rivalità nel sistema internazionale (Kibaroğlu 2010, p.9). Equilibrio e stabilità sono date da seguire e riconoscere questi flussi. Ankara vede se stessa come il centro di una spinta civiltà. La grande differenza centrale tra Mosca e la Turchia è che Ankara non ha agito come un provider indipendente di sicurezza nella sua area di influenza. La sua appartenenza alla NATO e la vicinanza con l'Unione europea sicuramente influenzato questo risultato, ma, allo stesso tempo, l'idea tutta politica della politica estera turca si basa principalmente su motivi culturali e storici. Se Cipro è escluso, la Turchia ha sempre “taggati insieme” sfruttando la sua posizione strategica, mentre cooperare nel quadro delle politiche degli Stati Uniti e dell'UE (Kibaroğlu, 2010, p.10-15).

Allo stesso tempo, sul fronte orientale, la Turchia non spinto troppo contro gli interessi russi. Dall'inizio degli anni 2000 fino al 2011, la famosa politica “zero problemi”, con il suo impegno diplomatico ed economico profonda conseguente dimostrato un impegno della Turchia per migliorare la sicurezza regionale concentrandosi sullo sviluppo e buone relazioni politiche. Dopo il 2011, questa politica sembra aver completamente fallito. Inoltre, dopo la primavera araba, la Turchia non è riuscita ad assumere il suo posto di leader politico regionale, in ultima analisi, essere ferito dalla rivolta popolare in quanto esposto il lato violento intransigente del regime di Erdogan. Questo progressivamente isolato la Turchia dai suoi alleati occidentali che hanno avuto pesanti conseguenze sulla sua politica interna.


Come di leadership e di politica estera dottrine hanno richiesto un riavvicinamento russo-turca?

Quali sono i driver che hanno provocato prima la crisi e poi la riconciliazione tra la Russia e la Turchia? Per la Russia, l'intervento in Siria è stato il primo al di là dei confini della sua sfera d'interessi regionali dalla fine della guerra fredda , di conseguenza, si è qualificato il paese nel suo globale lev attore sicurezza el. Il fatto che la Turchia ha preso giù l'aereo colpito l'immagine di supremazia militare che la Russia ha cercato di trasmettere all'estero e in patria. Per questo motivo, la posizione assunta dal presidente Putin era dura fin dall'inizio. La versione ufficiale per cui Ankara ha deciso di abbattere l'aereo è che dopo la modifica della regola di impegno nel 2012, la Turchia era più sensibile e più decisa nella difesa del suo spazio aereo e dei russi aveva ripetutamente violato lo spazio aereo durante i mesi scorsi.

Possibilmente, la retorica di potere di Erdogan forzato la mano della Turchia ad adottare un tale postura militare, al fine di centrare nuovamente il paese come l'alimentazione principale nella regione. Questa linea politica, però, è stato immediatamente percepito da Erdogan come una possibile minaccia. Mentre all'inizio i termini utilizzati dal presidente erano più duro, quando arrivò la notizia che i piloti degli aerei erano stati uccisi dalle forze di opposizione in Siria, Erdogan subito insistito sul fatto che non voleva far degenerare la situazione (CNN, 2015, Reuters, 2015A e Aydintasbas 2016, pp.8-9). La morte dei piloti, al contrario, ha colpito la base del concetto di sicurezza della Russia stessa. Per gli ultimi 20 anni, la Russia giustificato i suoi interventi con il fatto che si stava proteggendo i cittadini russi. Questo spirito aziendale è il terreno per la politica dell'identità Cremlino e la morte dei piloti è stato percepito di conseguenza come la definizione della Russia come nazione.

Di conseguenza, il Presidente Putin, Primo Ministro Medvedev e media russi hanno iniziato un giro di vite pesante sulla Turchia. Gli attacchi anche se erano per lo più di mira il presidente Erdogan come leader politico, piuttosto che la nazione turca stesso. Putin ha espresso il suo rispetto per la nazione turca e del popolo turco, sottolineando il suo risentimento per la leadership di Erdogan. Questo atto è stato ben fatto; è stato fatto al fine di destabilizzare l'immagine costruita del presidente Erdogan come garante di benessere sociale e di ferire la sua capacità di potenza effettiva. L'intenzione era di presentare l'immagine del leader come imperfetto e irregolare, invece di attaccare la Turchia come nazione, creando un'ulteriore polarizzazione, che avrebbe impedito futura riconciliazione.

Dopo le sanzioni, Erdogan ha preso otto mesi prima di inviare le sue scuse al presidente russo. Durante questo periodo, la Turchia testato l'impegno di Putin per la sua posizione. Entrambi i leader hanno giocato una sorta di gioco di pollo in base alla loro immagine di leader forti. Entrambi hanno cercato di “raduno attorno alla bandiera”, al fine di sfruttare al massimo consenso possibile per sostenere il loro stand. La partita si è conclusa con la riconciliazione a causa della posizione della Turchia nella scena geopolitica e la sua dipendenza dalla Russia. Con il passare del tempo, la Turchia stava pagando in stallo un prezzo più elevato rispetto alla Russia.

dottrina esterna russa si basa sull'idea di isolamento e di proiezione. La popolarità di Putin è stato costruito sul concetto che potrebbe portare la Russia a stare da solo come un potente attore internazionale capace di proiettare la sua influenza (Dugin, 2015, p.167). Tacchino, d'altra parte, ha basato la sua dottrina su una progressiva formazione diplomatica ed economica della regione. L'isolamento, in cui la Turchia progressivamente finito dopo il 2011, non era destinato dalla politica turca. Un ulteriore isolamento con la Russia avrebbe potuto portare grave pericolo per il ruolo della Turchia come importante snodo energetico. Ankara ha promosso questo punto di vista per oltre 15 anni ormai. L'abolizione del progetto South Stream è stato molto ben accolti ad Ankara come un'opportunità per avvicinarsi al esportazioni russe (Bechev, 2015). Le tensioni tra Mosca e l'Unione europea hanno sollevato il ruolo strategico della Turchia come mediatore e un paese di transito nel mercato dell'energia. Questo potrebbe funzionare, ma solo se la Turchia avrebbe avuto buoni rapporti con la Russia e l'Unione europea. Alla fine, la Turchia ha scelto di porre fine alla situazione di stallo scaricando la responsabilità sui piloti. Insistendo ulteriormente la sua posizione avrebbe comportato solo in un ulteriore isolamento e un progressivo deterioramento dell'immagine capo, nonché il ruolo internazionale del paese.

Per riassumere, nella prima fase della crisi, posture forti entrambi i leader hanno giocato un ruolo importante nella escalation della situazione. In una seconda fase la Turchia potrebbe fare marcia indietro perché la sua politica interna ed estera, non sono stati inevitabilmente legato ad alcuna delle questioni in gioco nel confronto. Inoltre, lo status quo della situazione di stallo è stato minando l'immagine e la posizione del leader a casa dimostrando la dipendenza geopolitica ed economica della Turchia sulla Russia e il suo isolamento all'interno della NATO. l'impegno della Russia era più alto e nella situazione di stallo, Mosca aveva un prezzo più alto per cadere fuori ma un minore a persistere nello status quo.


Il modo in cui le reazioni avanti alle azioni degli Stati Uniti in Siria

La riconciliazione tra la Russia e la Turchia ha dimostrato di essere durevole, nonostante alcuni problemi di inimicarsi, come uccidere l'ambasciatore russo in Turchia, Andrei Karlov, nel mese di dicembre 2016. Inoltre, ha portato alcuni risultati per quanto riguarda il conflitto siriano. Il 27 gennaio 2017 la Russia, la Turchia e l'Iran ha annunciato di aver raggiunto un accordo su un cessate il fuoco unilaterale in Siria (Bernard e Saad, 2017). Questa è stata una sorpresa per molti, in quanto era chiaro che la Turchia non era favorevole del regime di Assad mentre la Russia considera la sua conservazione come l'obiettivo principale.

Il dialogo, nonostante portando una grande speranza per il conflitto siriano, ha finito per essere molto poco più di una mossa diplomatica. I poteri, senza mezzi termini ha detto, non è riuscito a mantenere le promesse fatte. Altri sviluppi ulteriormente ha dimostrato la discrepanza di obiettivi e interessi della Russia e della Turchia nella regione. Sulla scia dell'attacco degli Stati Uniti su una base governativa siriana, il Cremlino ha condannato l'azione mentre la Turchia invece sostenuto e definito come “una reazione positiva”.

Questo non supporta l'ipotesi, avanzata da molti commentatori che la Turchia ha voluto creare un blocco regionale con l'aiuto di Mosca per tagliare l'Occidente dalla regione. Tuttavia, la situazione ha dimostrato di essere complicato come allo stesso tempo Ankara ha condotto, il 5 aprile 2017, le esercitazioni navali congiunte con Mosca nel Mar Nero, dopo un accordo su che in un incontro bilaterale a poche settimane prima. Tutte le cose che abbiamo in piedi ancora in grado di parlare di un riavvicinamento tra Ankara e Mosca.

Leggendo i fatti esposti in questo articolo si può capire che guida la Turchia in questi anni non è stato il post-ottomanismo come presunto da molti studiosi occidentali, ma invece - l'opportunismo. Nel momento in cui la Russia ha dimostrato di essere una scelta migliore rispetto ai deboli risposta degli Stati Uniti al problema siriano, la Turchia ha deciso di agire. In primo luogo, Ankara abbattuto l'aereo di rimanere coerente e fedele alla sua postura e dei suoi alleati. Tuttavia, dopo aver valutato i costi ei benefici della situazione di stallo, che non ricevono il supporto sperato dai loro alleati, i responsabili delle decisioni di Ankara hanno optato per un riavvicinamento con Mosca.

Come abbiamo visto, l'isolamento non è un problema della Russia mentre dall'altra e di Ankara comportamento dipenderà una decisione opportunistica di schierarsi con il partito che garantirà il miglior risultato. L'incertezza per il futuro prima di tutto resta fino a che punto gli Stati Uniti saranno pronti per un impegno nel “teatro siriano”, e in secondo luogo - l'effettiva capacità di produrre risultati concreti di Mosca come fornitore di sicurezza.

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Federico è un giovane professionista specializzato sulla regione caucasica e geopolitica post-sovietica. Ha iniziato a lavorare in Italia con vari centri di ricerca come il Centro Nazionale delle Ricerche e l'Istituto Superiore di Studi Difesa. Ha trascorso qualche tempo in Georgia di lavoro o di collaborazione con diverse ONG locali e internazionali. Attualmente sta studiando a Berlino un Master in risoluzione dei conflitti. E 'membro del gruppo di ricerca politica estera UE responsabile per la copertura di Turchia e Caucaso Unità.


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