APPROFONDIMENTI
Prigionia II Guerra Mondiale
I campi di concentramento in
Albania 1945-1953
La storia dei campi di concentramento albanesi è legata
alla parabola del Partito Comunista di Tirana, che scelse di non allinearsi al
nuovo corso inaugurato da Hruščëv nell’URSS e di rompere in seguito anche con
il Partito cinese, reo di aver inaugurato una “rivoluzione culturale” che si
discostava dai veri precetti dello stalinismo.
La repressione si intrecciò tragicamente con
l’allontanamento dai “traditori” del comunismo, con purghe, internamenti e
campi di prigionia. Nel 1990, poco prima del crollo del regime di Ramiz Alia,
fedelissimo del dittatore Enver Hoxha, in questo piccolo Paese si potevano
contare almeno 14 campi, dove venivano internati prigionieri politici e civili:
si stima che vi siano stati detenuti 32.000 dissidenti del regime e
40.000 reclusi “comuni”, ma i numeri sembrano destinati ad aumentare.
I campi albanesi sorsero in seguito alla presa del potere
da parte dei comunisti, come strutture repressive e di sfruttamento della
forza-lavoro. Vi venivano detenuti tutti gli elementi “scomodi” per il regime:
contadini che si opponevano alla collettivizzazione, rappresentanti delle
vecchie elites politico-economiche, operai dissidenti, intellettuali che
contestavano l’operato del Partito, esponenti del clero cattolico. Essi vennero
utilizzati per l’ambizioso programma di industrializzazione voluto dai vertici
comunisti: costruzione di strade, ponti, edifici, bonifiche di paludi, persino
l’aeroporto di Tirana. La manodopera forzata di Maliq, ad esempio, si occupò
della bonifica della pianura di Devoll. Vi lavorarono oltre 2500 persone,
torturate, costrette a turni di lavoro massacranti e lasciate morire di fame.
Eppure, il campo di prigionia sembrava offrire delle condizioni “migliori”
rispetto a quelle della prigione vera e propria, come ha affermato l’ex
ambasciatore albanese presso l’UNESCO Jusuf Vrioni. La prigione più temuta, per
la sua fatiscenza e per le sevizie subite dai carcerati, era quella di Burrel,
risalente all’epoca del re Zog. Qui “c’erano solo camere umide dove mancava
l’aria e si aveva la sensazione di soffocare, di essere spiati dal male”. La
speranza di tornare vivi da lì era praticamente vana: oltre alle condizioni di
degrado nelle quali erano costretti a vivere, i carcerati subivano torture di
ogni tipo, venivano pestati, erano ammucchiati in 35-38 in uno spazio di cinque
metri per sette. Molti morivano in cella.
La tortura non era praticata solo nei
campi, ma si estendeva a tutta la famiglia del detenuto, che veniva condannata
a vivere coattamente in un altro Paese, spesso lontano e difficilmente
raggiungibile.
I campi erano funzionali alle direttive di sviluppo del
nazionalcomunismo messianico: dove vi era bisogno di costruire o bonificare, lì
venivano allestiti campi provvisori, una sorta di prigione-cantiere per i
reclusi: fu così per i campi di Skrofotine, per la costruzione della diga di
Hajmel sul Drin e del cementificio a Fushë-Krujë. Di fatto, i lavori forzati
operavano una sorta di “selezione naturale” dei detenuti: solo chi resisteva al
durissimo lavoro riusciva a sopravvivere, gli altri morivano. Tra le tante
opere realizzate attraverso lo sfruttamento dei prigionieri vi è l’aeroporto di
Tirana. Il campo venne allestito a 9 km dalla capitale, a Rinas appunto, ed era
organizzato secondo regole molto rigide. Per la realizzazione della pista d’atterraggio,
ai lavoratori vennero imposti dei ritmi di produttività: chi produceva il
doppio rispetto a quanto stabilito poteva essere remunerato il quintuplo
rispetto alla norma, oltre ad ottenere delle ore di riposo (generalmente
produrre il doppio della norma dava diritto a mezza giornata). I prigionieri
erano inquadrati in brigate di lavoro, sorvegliate da capi che riferivano alle
autorità qualsiasi movimento. Più brigate formavano una compagnia, diretta da
un comandante.
Nelle baracche dove venivano stipati i lavoratori le
condizioni erano pessime: i materassi sono disposti in fila a terra, con la
seconda fila sospesa ad appena 60 cm di altezza dalla prima e la terza ad 1.80
m. La giornata tipo prevedeva la sveglia alle 4.30, una colazione costituita da
una zuppa di pessima qualità, e poi lavoro fino alle 3 di pomeriggio. Hruščëv concesse la creazione di una piccola
biblioteca all’interno del campo, che però venne ben presto chiusa.
Vrioni racconta anche del campo di Shtyllas, sorto per la
costruzione di un canale d’irrigazione e uno di drenaggio. Le condizioni dei lavoratori
erano decisamente peggiori qui: si lavorava, infatti, completamente immersi nel
fango e nell’umidità.
I campi erano seminati lungo tutto il territorio nazionale:
Sarandë, Ballsh, Radostimë, Elbasan, dove sorgeva un campo femminile, Bulqizë,
vicino le miniere di cromo, Torovicë, dove venivano destinati i ragazzi al di
sotto dei 18 anni.
Il campo di Ballsh ospitava negli anni Ottanta circa 1200
prigionieri. Era diviso in tre settori: uno per i detenuti politici, uno per i
“comuni” ed un terzo per gli stranieri, soprattutto greci e jugoslavi, che
tuttavia non lavoravano e godevano di un trattamento migliore. Per gli altri,
la giornata iniziava alle 4.30, era scandita dal duro lavoro per la costruzione
di una raffineria di petrolio, intervallato solo da pasti scadenti e troppo
leggeri.
A Spaҫ vicino Scutari, venne allestito il campo di lavoro
n. 303, dove i prigionieri lavoravano in una miniera di pirite di rame. Le
cifre sugli internati variano da 1500 alle 4000 unità, di cui circa 600
prigionieri politici.Le baracche, prive di riscaldamento, erano divise in 12-15
stanze, nelle quali vi era solo del pagliericcio per poter dormire. Si lavorava
8 ore al giorno, in condizioni di sicurezza praticamente inesistenti, sul
declivio della montagna. Anche qui si applicava il sistema della “norma”: se si
raggiungeva il livello minimo di produzione, si veniva pagati due o tre lek al giorno. Si potevano ricevere visite
di massimo 30 minuti, si aveva diritto a scrivere due lettere ogni mese e a
riceverne altrettante. C’era addirittura una biblioteca, anche se i libri erano
limitati all’esaltazione e alla storia del Partito Comunista e del leader
Hoxha. L’ideologia comunista veniva inculcata quotidianamente attraverso la
radio, mentre un film sull’operato del regime veniva trasmesso ogni mese. Una
delle punizioni inflitte ai detenuti era l’isolamento in una cella cieca per
uno o tre mesi, con pasti ridotti. La media della pena da scontare era di otto
anni, ma molti non sopravvivevano al lavoro.
Le terribili condizioni di vita e lavoro portarono i
prigionieri di Spaҫ ad organizzare una ribellione nel 1973, tempestivamente
repressa nel sangue dalle forze armate: quattro detenuti vennero condannati a
morte e giustiziati. Le condizioni dei prigionieri erano indissolubilmente
legate all’andamento degli eventi internazionali. Nel 1978, tre intellettuali
che avevano scritto una lettera ad Hoxha per chiedergli di reinserire il Paese
nel circuito internazionale, chiudendo la fase isolazionista e con essa i campi
di concentramento, vennero fucilati.
Una toccante testimonianza ci è stata consegnata da Zef
Pllumi, monaco francescano vissuto per ben 28 anni nei campi del regime
comunista e uno dei pochi sopravvissuti del clero cattolico al regime di Enver
Hoxha. Nel suo libro di memorie, Rrno vetëm
për me tregue (“Vivi solo per testimoniare”), ha raccontato la cronaca
della vita nel campo, dove torture e persecuzioni erano all’ordine del giorno,
soprattutto verso coloro che venivano considerati i rappresentati della deriva
capitalista occidentale e nemici dell’utopia marxista. In Albania, infatti, le
persecuzioni religiose hanno raggiunto i picchi più gravi dell’Europa
orientale, fino alla proclamazione dell’ateismo di Stato nel 1967. Hoxha impose
una legge che vietava la presenza dei luoghi di culto e ordinando la distruzione
o la riconversione di quelli presenti, bandiva la creazione di associazioni
religiose, la pubblicazione di materiale religioso, l’insegnamento della
religione e tutte le pratiche di culto. Tali disposizioni vennero poi
confermate nella modifica alla Costituzione del 1976: gli articoli 37 e 55,
infatti, statuivano rispettivamente che lo Stato non riconosceva alcuna
religione e che erano vietate le associazioni, la propaganda e le attività
religiose. L’ateismo di Stato provocò un’ondata di
violenze soprattutto contro il clero cattolico: al comunismo, infatti, sono
sopravvissuti soltanto trenta preti, tutti detenuti ed internati per decenni. Il
regime, tuttavia, si scagliò anche contro ortodossi e musulmani; risparmiò,
paradossalmente, gli ebrei, che non vennero né deportati né internati.
Pllumi venne arrestato poco dopo l’ascesa al potere dei
comunisti su basi a dir poco assurde: si cercò di confondere il fatto che fosse
“francescano” con “francese” per fargli confessare di essere una spia
occidentale. Per estorcere tali confessioni, venne torturato con elettricità e
ferri roventi; poi fu spedito nel campo di Beden e costretto ai lavori forzati
per bonificare il litorale al motto di “il lavoro rende uomini” (che ricorda il
tristemente noto motto nazista “il lavoro rende liberi”). Le morti, anche in
questo campo, saranno numerose, per fame e per sfinimento. I detenuti, racconta
Pllumi, arrivavano a mangiare erbe non commestibili, tartarughe, insetti, pur
di cercare di sopravvivere: il padre francescano non esita per questo a
chiamare Beden un “campo di sterminio”.
Uno studio completo, imparziale ed intellettualmente onesto
sulle vittime dei campi di prigionia albanesi non è ancora stato compiuto. Non
ci sono cifre certe, i documenti sono spesso stati distrutti o nascosti. Basti
pensare che ancora negli anni ’80 c’erano ancora 40000 persone detenute, circa
l’1,5% della popolazione totale; i campi furono chiusi soltanto nel 1988 e in
essi, secondo lo studioso Giovanni Armillotta, vi vennero internati 30 mila prigionieri,
dei quali 4 mila morirono per torture o sfinimento.
Una pagina di storia dimenticata e sconosciuta, ma non
certo meno dolorosa e terrificante.
Fabiana Urbani
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