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venerdì 10 novembre 2023

Secondo Dopoguerra: Albania I campi di concentramento

 APPROFONDIMENTI

Prigionia  II Guerra Mondiale



I campi di concentramento in Albania 1945-1953

 

La storia dei campi di concentramento albanesi è legata alla parabola del Partito Comunista di Tirana, che scelse di non allinearsi al nuovo corso inaugurato da Hruščëv nell’URSS e di rompere in seguito anche con il Partito cinese, reo di aver inaugurato una “rivoluzione culturale” che si discostava dai veri precetti dello stalinismo.

La repressione si intrecciò tragicamente con l’allontanamento dai “traditori” del comunismo, con purghe, internamenti e campi di prigionia. Nel 1990, poco prima del crollo del regime di Ramiz Alia, fedelissimo del dittatore Enver Hoxha, in questo piccolo Paese si potevano contare almeno 14 campi, dove venivano internati prigionieri politici e civili: si stima che vi siano stati detenuti 32.000 dissidenti del regime e 40.000 reclusi “comuni”, ma i numeri sembrano destinati ad aumentare.

I campi albanesi sorsero in seguito alla presa del potere da parte dei comunisti, come strutture repressive e di sfruttamento della forza-lavoro. Vi venivano detenuti tutti gli elementi “scomodi” per il regime: contadini che si opponevano alla collettivizzazione, rappresentanti delle vecchie elites politico-economiche, operai dissidenti, intellettuali che contestavano l’operato del Partito, esponenti del clero cattolico. Essi vennero utilizzati per l’ambizioso programma di industrializzazione voluto dai vertici comunisti: costruzione di strade, ponti, edifici, bonifiche di paludi, persino l’aeroporto di Tirana. La manodopera forzata di Maliq, ad esempio, si occupò della bonifica della pianura di Devoll. Vi lavorarono oltre 2500 persone, torturate, costrette a turni di lavoro massacranti e lasciate morire di fame. Eppure, il campo di prigionia sembrava offrire delle condizioni “migliori” rispetto a quelle della prigione vera e propria, come ha affermato l’ex ambasciatore albanese presso l’UNESCO Jusuf Vrioni. La prigione più temuta, per la sua fatiscenza e per le sevizie subite dai carcerati, era quella di Burrel, risalente all’epoca del re Zog. Qui “c’erano solo camere umide dove mancava l’aria e si aveva la sensazione di soffocare, di essere spiati dal male”. La speranza di tornare vivi da lì era praticamente vana: oltre alle condizioni di degrado nelle quali erano costretti a vivere, i carcerati subivano torture di ogni tipo, venivano pestati, erano ammucchiati in 35-38 in uno spazio di cinque metri per sette. Molti morivano in cella.  La tortura non era praticata solo nei campi, ma si estendeva a tutta la famiglia del detenuto, che veniva condannata a vivere coattamente in un altro Paese, spesso lontano e difficilmente raggiungibile.

I campi erano funzionali alle direttive di sviluppo del nazionalcomunismo messianico: dove vi era bisogno di costruire o bonificare, lì venivano allestiti campi provvisori, una sorta di prigione-cantiere per i reclusi: fu così per i campi di Skrofotine, per la costruzione della diga di Hajmel sul Drin e del cementificio a Fushë-Krujë. Di fatto, i lavori forzati operavano una sorta di “selezione naturale” dei detenuti: solo chi resisteva al durissimo lavoro riusciva a sopravvivere, gli altri morivano. Tra le tante opere realizzate attraverso lo sfruttamento dei prigionieri vi è l’aeroporto di Tirana. Il campo venne allestito a 9 km dalla capitale, a Rinas appunto, ed era organizzato secondo regole molto rigide. Per la realizzazione della pista d’atterraggio, ai lavoratori vennero imposti dei ritmi di produttività: chi produceva il doppio rispetto a quanto stabilito poteva essere remunerato il quintuplo rispetto alla norma, oltre ad ottenere delle ore di riposo (generalmente produrre il doppio della norma dava diritto a mezza giornata). I prigionieri erano inquadrati in brigate di lavoro, sorvegliate da capi che riferivano alle autorità qualsiasi movimento. Più brigate formavano una compagnia, diretta da un comandante.

Nelle baracche dove venivano stipati i lavoratori le condizioni erano pessime: i materassi sono disposti in fila a terra, con la seconda fila sospesa ad appena 60 cm di altezza dalla prima e la terza ad 1.80 m. La giornata tipo prevedeva la sveglia alle 4.30, una colazione costituita da una zuppa di pessima qualità, e poi lavoro fino alle 3 di pomeriggio.  Hruščëv concesse la creazione di una piccola biblioteca all’interno del campo, che però venne ben presto chiusa.

Vrioni racconta anche del campo di Shtyllas, sorto per la costruzione di un canale d’irrigazione e  uno di drenaggio. Le condizioni dei lavoratori erano decisamente peggiori qui: si lavorava, infatti, completamente immersi nel fango e nell’umidità.

I campi erano seminati lungo tutto il territorio nazionale: Sarandë, Ballsh, Radostimë, Elbasan, dove sorgeva un campo femminile, Bulqizë, vicino le miniere di cromo, Torovicë, dove venivano destinati i ragazzi al di sotto dei 18 anni. 

Il campo di Ballsh ospitava negli anni Ottanta circa 1200 prigionieri. Era diviso in tre settori: uno per i detenuti politici, uno per i “comuni” ed un terzo per gli stranieri, soprattutto greci e jugoslavi, che tuttavia non lavoravano e godevano di un trattamento migliore. Per gli altri, la giornata iniziava alle 4.30, era scandita dal duro lavoro per la costruzione di una raffineria di petrolio, intervallato solo da pasti scadenti e troppo leggeri.

A Spaҫ vicino Scutari, venne allestito il campo di lavoro n. 303, dove i prigionieri lavoravano in una miniera di pirite di rame. Le cifre sugli internati variano da 1500 alle 4000 unità, di cui circa 600 prigionieri politici.Le baracche, prive di riscaldamento, erano divise in 12-15 stanze, nelle quali vi era solo del pagliericcio per poter dormire. Si lavorava 8 ore al giorno, in condizioni di sicurezza praticamente inesistenti, sul declivio della montagna. Anche qui si applicava il sistema della “norma”: se si raggiungeva il livello minimo di produzione, si veniva pagati due o tre lek al giorno. Si potevano ricevere visite di massimo 30 minuti, si aveva diritto a scrivere due lettere ogni mese e a riceverne altrettante. C’era addirittura una biblioteca, anche se i libri erano limitati all’esaltazione e alla storia del Partito Comunista e del leader Hoxha. L’ideologia comunista veniva inculcata quotidianamente attraverso la radio, mentre un film sull’operato del regime veniva trasmesso ogni mese. Una delle punizioni inflitte ai detenuti era l’isolamento in una cella cieca per uno o tre mesi, con pasti ridotti. La media della pena da scontare era di otto anni, ma molti non sopravvivevano al lavoro.

Le terribili condizioni di vita e lavoro portarono i prigionieri di Spaҫ ad organizzare una ribellione nel 1973, tempestivamente repressa nel sangue dalle forze armate: quattro detenuti vennero condannati a morte e giustiziati. Le condizioni dei prigionieri erano indissolubilmente legate all’andamento degli eventi internazionali. Nel 1978, tre intellettuali che avevano scritto una lettera ad Hoxha per chiedergli di reinserire il Paese nel circuito internazionale, chiudendo la fase isolazionista e con essa i campi di concentramento, vennero fucilati.

Una toccante testimonianza ci è stata consegnata da Zef Pllumi, monaco francescano vissuto per ben 28 anni nei campi del regime comunista e uno dei pochi sopravvissuti del clero cattolico al regime di Enver Hoxha. Nel suo libro di memorie, Rrno vetëm për me tregue (“Vivi solo per testimoniare”), ha raccontato la cronaca della vita nel campo, dove torture e persecuzioni erano all’ordine del giorno, soprattutto verso coloro che venivano considerati i rappresentati della deriva capitalista occidentale e nemici dell’utopia marxista. In Albania, infatti, le persecuzioni religiose hanno raggiunto i picchi più gravi dell’Europa orientale, fino alla proclamazione dell’ateismo di Stato nel 1967. Hoxha impose una legge che vietava la presenza dei luoghi di culto e ordinando la distruzione o la riconversione di quelli presenti, bandiva la creazione di associazioni religiose, la pubblicazione di materiale religioso, l’insegnamento della religione e tutte le pratiche di culto. Tali disposizioni vennero poi confermate nella modifica alla Costituzione del 1976: gli articoli 37 e 55, infatti, statuivano rispettivamente che lo Stato non riconosceva alcuna religione e che erano vietate le associazioni, la propaganda e le attività religiose. L’ateismo di Stato provocò un’ondata di violenze soprattutto contro il clero cattolico: al comunismo, infatti, sono sopravvissuti soltanto trenta preti, tutti detenuti ed internati per decenni. Il regime, tuttavia, si scagliò anche contro ortodossi e musulmani; risparmiò, paradossalmente, gli ebrei, che non vennero né deportati né internati.






Pllumi venne arrestato poco dopo l’ascesa al potere dei comunisti su basi a dir poco assurde: si cercò di confondere il fatto che fosse “francescano” con “francese” per fargli confessare di essere una spia occidentale. Per estorcere tali confessioni, venne torturato con elettricità e ferri roventi; poi fu spedito nel campo di Beden e costretto ai lavori forzati per bonificare il litorale al motto di “il lavoro rende uomini” (che ricorda il tristemente noto motto nazista “il lavoro rende liberi”). Le morti, anche in questo campo, saranno numerose, per fame e per sfinimento. I detenuti, racconta Pllumi, arrivavano a mangiare erbe non commestibili, tartarughe, insetti, pur di cercare di sopravvivere: il padre francescano non esita per questo a chiamare Beden un “campo di sterminio”.

Uno studio completo, imparziale ed intellettualmente onesto sulle vittime dei campi di prigionia albanesi non è ancora stato compiuto. Non ci sono cifre certe, i documenti sono spesso stati distrutti o nascosti. Basti pensare che ancora negli anni ’80 c’erano ancora 40000 persone detenute, circa l’1,5% della popolazione totale; i campi furono chiusi soltanto nel 1988 e in essi, secondo lo studioso Giovanni Armillotta, vi vennero internati 30 mila prigionieri, dei quali 4 mila morirono per torture o sfinimento.

Una pagina di storia dimenticata e sconosciuta, ma non certo meno dolorosa e terrificante.

 

 

 

Fabiana Urbani

 


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