In vista della Giornat del Decorato del 2017, che sarà organizzata dalla federazione di Arezzo per il prossimo 29-30 Aprile, il Convegno di Studi saràdedicato alle Missioni Internazionali di pace. Ad intervalli sempr epiù brevi apparirianno scritti e note su questo argomento in "Quaderno On Line". Si inzia con questp contributo di Maria Caluda Zuppardo.
UNA FINESTRA SUL MONDO
Le
Operazioni a sostegno della Pace
DI
Maria
Chiara Zuppardo
Nella
transizione dal mondo bipolare dominato dall’immobile duello delle
superpotenze, al mondo multicentrico, i sistemi militari occidentali, hanno
sperimentato sia il mutamento
dell’ambiente in cui operano, che della missione che adempiono.
Se dovessimo
sintetizzare in un unico concetto la natura di tali mutamenti, il superamento
della logica binaria amico/nemico potrebbe essere di tutti il più appropriato.
Come ben noto, il crollo del Muro di Berlino, lo scioglimento del Patto di
Varsavia, l’autodissoluzione dell’Unione Sovietica hanno rappresentato la
(almeno momentanea) eclissi del nemico. Ciò non significa, evidentemente, la
scomparsa tout court di forze ostili, di minacce e soprattutto di rischi;
significa semplicemente il venir meno del tradizionale “interlocutore” contro
il quale, ma anche insieme al quale, era stato edificato un sistema di
sicurezza che, per risorse materiali e simboliche investite, non ha eguali
nella storia.
Con la fine
della guerra fredda e della sfida tra le due superpotenze, neppure la violenza
bellica è, di per sé, diminuita. Semplicemente ha cambiato aspetto: da
concentrata si è fatta diffusa, da totale si è fatta limitata, da virtuale si è
fatta reale.
Con il
passaggio da un ambiente critico, ma relativamente stabile, come era quello
dell’epoca bipolare, ad un ambiente forse meno critico, ma certamente più
instabile come quello attuale, la mission
del sistema militare guadagna in ampiezza, ma perde in intensità. Guadagna in
ampiezza nel senso che gli vengono attribuite nuove missioni, compito in
passato di altre istituzioni (Polizia, Protezione Civile, organizzazioni
internazionali umanitarie). Perde in intensità, nel senso che per far fronte a
queste nuove missioni deve abbandonare, o perlomeno attenuare, alcuni aspetti
della propria specificità militare.
Nati
per fronteggiare la minaccia esterna,
reale o percepita che sia, i sistemi militari hanno dovuto registrare
fondamentali cambiamenti nella natura di questa. Nel mondo bipolare la minaccia
era ufficialmente definita (e dunque chiara e indiscutibile per tutti gli
attori appartenenti ad un determinato schieramento), centralizzata, messa in
atto da un sistema militare antagonista, ma speculare. Oggi, invece, il mondo
multicentrico presenta minacce non definite una volta per tutte, decentrate,
poste in essere da soggetti indefiniti per numero e natura. La complessità e la
multiformità delle sfide, si rispecchia
nella complessità delle risposte.
Superato il
concetto di una Difesa statica, è
venuta prendendo forma e consistenza, in seno alle Nazioni Unite ed
all’Alleanza Atlantica, una politica
comune di sicurezza dinamica, proiettata al di fuori dei confini nazionali,
nelle aree ove insorgano, all’interno di uno Stato o fra Stati, situazioni di
crisi politica, sociale od economica suscettibili di spiralizzazione
conflittuale e di estensione ai territori limitrofi, oppure in grado di
incidere sugli interessi generali di sviluppo economico, di progresso sociale.
Si accentua
la asimmetricità dei contendenti.
L’ambiente operativo tende sempre più ad estendersi, ad includere nuove
dimensioni di confronto e ad assumere caratteri di spiccata non linearità.
L’ambiente operativo va inoltre progressivamente urbanizzandosi.
Più
complesse e dinamiche divengono le interconnessioni e le sovrapposizioni tra i
livelli tattico, operativo e strategico alimentate dai condizionamenti
derivanti dall’opinione pubblica e dalla politica, anche con riferimento alla
salvaguardia dell’ambiente naturale ed alla possibile esplosione della
dimensione umanitaria della conflittualità.
Si afferma
la tendenza alla gestione preventiva e remota delle crisi, con l’impiego di
formazioni multinazionali ed interforze di entità relativamente limitata al di
fuori dei confini nazionali.
Il fenomeno
degli interventi umanitari è divenuto particolarmente rilevante infatti a
partire dagli anni Ottanta e, soprattutto, durante il successivo decennio.
Nell’era bipolare obiettivo di tali interventi era essenzialmente quello di
tentare di attenuare, semplificare e ove possibile risolvere le situazioni di
crisi acuta e di conflitto,
interponendosi tra le parti con il loro espresso consenso. Oggi, l’intervento è
innanzitutto dettato dalla volontà di ridurre le sofferenze dei civili e delle
popolazioni coinvolte nel conflitto; l’azione mira piuttosto a garantire il
rispetto dei diritti dell’uomo e delle minoranze, nonché il ristabilimento, al
termine del conflitto, di condizioni atte, sia dal punto di vista economico,
che politico, e ad assicurare la
coesistenza pacifica in paesi di solito sconvolti da situazioni di guerra
civile.
Quando gli
interventi economici e politici non sono stati più sufficienti ad arrestare o
respingere eventuali tentativi di sopraffazione o di invasione territoriale, le
Organizzazioni Internazionali hanno dovuto prendere in considerazione l’impiego
di forze armate in attività comunemente note come Peace Support Operations
(PSO).
Gli anni Novanta, hanno portato prepotentemente
alla ribalta un nuovo scenario di impiego per le forze armate italiane e non,
chiamate a partecipare ad interventi sotto l’egida dell’ONU sia per operazioni
di carattere umanitario, che per azioni armate vere e proprie per il
mantenimento forzoso della pace. Parallelamente è emersa la tendenza a far
operare le forze di ciascun paese lontano dalla madrepatria, per evitare il
coinvolgimento diretto nelle questioni all’origine della crisi.
Qualche
anno fa, il segretario generale dell’ONU Boutros Ghali, per non contravvenire
al dettato della Carta, ogni volta che si poneva la necessità di ricorrere alla
forza per far rispettare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, coniò le
eufemistiche locuzioni: Operazioni Militari Diverse dalla Guerra (MOOTW) e
operazioni a sostegno della pace (PSO).
Con il
termine <<operazioni di supporto alla pace>> possono definirsi, in
senso lato, quelle operazioni comportanti l’impiego di personale militare da
parte di un’organizzazione internazionale, al fine di mantenere o ristabilire
la pace in aree di conflitto e comportanti una presenza fisica sul campo. Si tratta di operazioni sviluppatesi
notevolmente dopo la fine della guerra fredda, in cui le forze militari
svolgono compiti diversi da quelli di combattimento ed in cui l’impiego della
forza è limitato certe volte alla sola autodifesa passiva, in cui spesso, non
esiste un avversario designato da sconfiggere sul campo per obbligarlo ad
accettare le condizioni di pace che gli si vogliono imporre.
Oggi, in
campo internazionale, per indicare tutta la gamma di operazioni scaturite
dall’evoluzione del peace-keeping, si tende ad impiegare il termine Peace
Support Operations. Tale concetto è parte della più ampia categoria delle
Military Operations Other Than War (MOOTW). Le MOOTW comprendono tutte le
attività svolte da formazioni militari terrestri, navali ed aeree che non siano
operazioni belliche. La tendenza è dunque quella di omologare il mantenimento
della pace a una forma di conflitto a bassa intensità, anziché definirlo come
una missione distinta oppure unica. Si tratta, quindi, essenzialmente di
operazioni di supporto alla pace, di operazioni di assistenza umanitaria, di
operazioni di cooperazione alle attività civili; in altre parole le operazioni
MOOTW possono definirsi come quelle operazioni militari a bassa intensità di
violenza o “diverse dalla guerra”.
Le missioni di pace sono assai diverse fra
loro, più di quanto non lo siano gli atti di guerra; occorre quindi tagliarle
politicamente su misura dello scenario, delle difficoltà e dei rischi di ogni
specifica operazione, nonché degli obiettivi politici di breve, medio e lungo
termine.
Le
operazioni di pace comprendono un vasto “spettro” di missioni, le cui linee di
confine sono molto sfumate. Il livello di intensità nell’uso della forza va dal
minimo dell’aiuto umanitario, ai valori intermedi del peace-keeping, fino al
massimo del peace-enforcement, funzionalmente poco distinguibile da una vera e
propria campagna di guerra.
L’Agenda per la Pace del 1992 emanata del Segretario
Generale delle Nazioni Unite Boutros Ghali è un documento che organizza
sistematicamente le varie fasi del mantenimento della pace,comprendendo
una categorizzazione degli interventi
che possono essere così classificati:
Missioni di aiuto umanitario
(Humanitarian Aids) : Sono considerate tali, le operazioni di minore intensità,
condotte allo scopo di alleviare le sofferenze umane, specialmente laddove le
Autorità responsabili sono
impossibilitate a provvedere , fornendo un adeguato supporto alle popolazioni.
Tali tipi di operazioni prevedono
essenzialmente tre tipi di attività:
§ l’aiuto
umanitario;
§ l’assistenza
ai rifugiati e profughi;
§ L’aiuto in
caso di calamità;
Prevenzione dei conflitti (Conflict
Prevention): Sono definite tali le operazioni svolte da personale civile e/o
militare allo scopo di scongiurare l’avvio di una crisi e di evitare che
dispute tra
fazioni/ nazioni si estendano o
degenerino in conflitti armati.
Il compito dello strumento militare
in questo caso è quello di fornire sostegno alle iniziative ed alle attività
politiche e diplomatiche mediante l’impiego di forze che assolvono funzioni di
allarme e di deterrenza attraverso una serie di missioni quali:
- lo spiegamento preventivo;
- la sorveglianza;
- l’allarme preventivo;
Peace- Keeping
operations: La natura “empirica” delle peace-keeping operations
(letteralmente mantenimento della pace) caratterizzate dalla flessibilità dei
compiti ad esse attribuiti in funzione delle esigenze del caso concreto, rende
difficile una definizione formale delle stesse.
Il
peace-keeping classico, o come si usa
definirlo, di prima generazione, è regolato da cinque principi fondamentali:
-
la manifestazione di un consenso
esplicito all’intervento, ad opera di tutte le parti coinvolte nel conflitto;
-
la rinuncia all’uso della forza, se non per autodifesa, da parte delle forze
impegnate nell’intervento;
-
la rigorosa neutralità delle unità e degli osservatori internazionali schierati
sul terreno;
-
la costituzione di contingenti d’interposizione con l’impiego delle forze messe
volontariamente a disposizione da paesi piccoli o neutrali;
- il controllo diretto sulla preparazione e la
condotta di tutte le operazioni da parte del Segretario Generale delle Nazioni
Unite.
In
particolare le attività di peace-keeping si concretizzano in :
§ missioni di
interposizione fra le parti:
§ assistenza
durante la fase di transizione;
§ controllo
degli armamenti;
Nella
nozione tradizionale di peace-keeping,
gli elementi essenziali cui si fa riferimento, sono quelli del consenso tra le
parti, dell’imparzialità e dell’indipendenza, nonché della dotazione di
armamenti leggeri utilizzabili solo per scopi di legittima difesa.
Le
forze devono privilegiare la protezione passiva al fine di contenere il
rischio. In sostanza, il rischio militare deve essere fronteggiato con un
livello minimo di risposta, ma con immediatezza ed efficacia.
L’obiettivo
delle forze di pace, infatti, non è, a differenza di quanto avviene per le
forze impegnate in guerra, la
vittoria. L ’obiettivo delle forze di P.K non è “risolvere” il
conflitto, quanto “stabilire” le
condizioni grazie alle quali i conflitti possano essere risolti con mezzi non
violenti. Questa radicale diversità si spiega con le differenze che contraddistinguono
la situazione bellica e la situazione di mantenimento della pace, relativamente
agli attori e all’ambiente dell’uno e dell’altra. Nella situazione bellica, la
controparte è, come ovvio, il nemico. Nella situazione di peace-keeping la controparte è costituita da stati o fazioni in lotta
fra loro. Popolato da attori l’uno contro l’altro armati, l’ambiente, pur
altamente turbolento, non è univocamente ostile come nella classica situazione
di guerra. Nel peace-keeping,
infatti, si registra un ampio ventaglio di situazioni che può svilupparsi
dall’ostilità armata, alla cooperazione,
passando per la neutralità più o meno benevola.
Peace-making: Questa
categoria di operazioni vengono definite letteralmente come operazioni di
pacificazione, e costituiscono uno step successivo alle operazioni di
peace-keeping, in quanto intervengono in una situazione di conflitto ormai
irreversibile, ponendosi obiettivi a lungo termine per giungere alle radici
dello scontro, nel tentativo di trovarvi soluzioni politiche, e stabilire una
tregua o giungere ad un equilibrio di pace. Il peace-making è composto da un insieme di attività nelle quali sono
presenti iniziative diplomatiche e di mediazione per convincere le parti
coinvolte, senza ricorrere a misure coercitive, a raggiungere una forma di
accordo.
Peace-building:
Il
consolidamento della pace comprende tutte le azioni che supportano le misure
politiche, economiche, sociali e militari, nonché le strutture aventi il fine
di rafforzare e consolidare gli accordi politici che mirano a neutralizzare il
conflitto.
Rientrano
nel peace-building infatti, tutte le attività che mirano ad incoraggiare la
ricomposizione politica di un conflitto e consentono la ripresa delle
condizioni di vita ordinaria comprendendo programmi di aiuto e ricostruzione
economica, sociale, sanitaria, soprattutto nella fase successiva alla
cessazione delle operazioni militari.
Peace-enforcement: Vengono definite tali, le operazioni condotte da
Forze militari, anche senza il consenso di tutte le parti in conflitto, allo scopo di imporre la pace in un’area
interessata da un conflitto dopo il fallimento di altre operazioni di pace,
oppure “ab initio”. Il
peace-enforcement è l’intervento che implica l’uso della forza militare vera e
propria, nella misura e nel modo voluti, con un’intensità “medio-alta”, per
assolvere al compito. Nel caso di peace-enforcement operations, la situazione è
molto simile infatti a quella della guerra classica, caratterizzata da elevata
conflittualità e da un alto livello di
intensità operativa.
Operazioni
di prima generazione:
Dopo il crollo del Muro di Berlino siamo
abituati a distinguere gli interventi delle Nazioni Unite nel settore del
mantenimento della pace, in interventi della “prima”, “seconda” e “terza
generazione”. Nel primo trentacinquennio di attività delle Nazioni Unite, dal
1945 al 1980, si aggirano intorno alla quindicina le missioni comportanti la
presenza sul campo di un contingente dell’ONU, per lo più in Asia e in
particolare in Medio Oriente. Questo è il periodo definito come “operazioni di prima generazione”, in cui
le operazioni erano a bassa intensità, in un ambiente relativamente stabile e
statico e, che, si attuavano mediante azioni programmate centralmente dai
comandi nazionali e dai vertici politici.
Operazioni
di seconda generazione: Le operazioni di seconda generazione sono definibili
come operazioni delle Nazioni Unite, autorizzate da organi politici o dal
Segretario Generale, che hanno il compito di sorvegliare o di portare a
compimento la soluzione politica di un conflitto interstatuale o interno, con
il consenso delle parti. E’ chiaramente questo, un passo in avanti molto
importante, in quanto lo scopo delle operazioni è qui volto ad ottenere una
pace non provvisoria, attraverso strumenti che sono soprattutto di natura
politica, ma che possono diventare, in certe circostanze, anche di natura
esclusivamente militare (peace enforcement), questa volta, ovviamente, senza il
consenso delle parti interessate.
Le
operazioni di seconda generazione, nel quadro delle misure volte al controllo e
alla gestione delle crisi, sono caratterizzate da una presenza militare
rinforzata, opportunamente addestrata ed equipaggiata ed in grado di rispondere
efficacemente alla transizione da un tipo di missione ad un’altra, visto che
determinate operazioni, nate con certe caratteristiche ed obiettivi, possono
evolversi in qualcosa di diverso a causa del mancato consenso di una delle
parti, della pluralità delle fazioni in conflitto e della presenza di forze
irregolari.
Operazioni
di terza generazione: Ormai, sempre più spesso, si assiste
all’affiancamento o alla sostituzione delle operazioni di peace-keeping classico, quelle denominate di prima
generazione, da parte di operazioni cosiddette di seconda o terza generazione.
L’inizio di questa nuova fase si fa coincidere
essenzialmente con il 1989, quando nelle missioni di pace la componente
civile e le attività da essa svolte acquistano un peso praticamente
equivalente, se non preponderante, rispetto alle attività di carattere
militare. Ormai la gran parte delle guerre non sono più combattute tra stati, né da personale
militare distinto e facilmente distinguibile dalla popolazione civile, né,
tantomeno, per il perseguimento dei tradizionali fini della politica.
In questa
prospettiva, l’intervento umanitario armato è una manifestazione particolare
dell’affermarsi su scala globale del fenomeno del conflitto a “limitata
intensità” (LIC, Limited Intensity Conflict) ovvero, un’operazione militare
diversa dalla guerra tradizionalmente intesa.
Il
peace-keeping della terza generazione
abbraccia quegli interventi militari che, designati con il termine di
OOTW (Operations Other Than War, cioè operazioni diverse dalla guerra),
prevedono l’eventuale uso della forza militare, al di là del limite
tradizionale della legittima difesa, per realizzare l’obiettivo stabilito.
Queste
operazioni sono concepite come un “continuum”
delle operazioni precedenti, qualora queste non siano riuscite a perseguire gli
obiettivi preposti, a causa della loro inadeguatezza originaria o per il sorgere
di circostanze non esattamente prevedibili all’atto della formulazione del
mandato.
Esempi di
operazioni di terza generazione possono essere considerati la seconda missione
in Somalia, quella in Bosnia-Erzegovina e in Croazia, la guerra del Golfo del
1991 e le ultime due operazioni “Antica
Babilonia” in Iraq ed “Enduring Freedom” in Afghanistan, dirette a contrastare
e combattere il terrorismo internazionale.
In
conclusione la complessità e spesso la sovrapposizione delle esigenze da
soddisfare e dei compiti da eseguire, l’ottica non sempre coincidente delle
differenti organizzazioni che svolgono le attività a sostegno della pace, la
necessità di riferirsi ad un quadro di riferimento il più ampio possibile, di
non provocare malintesi e di non ingenerare confusioni suggerirebbero che, al
di fuori delle semplificazioni terminologiche, nella realtà attuale ben
difficilmente un’operazione può già nascere con l’etichetta delle
caratteristiche che dovrà avere. Conseguentemente, sarà difficile definire un’operazione
di pace secondo un unico profilo. Per il
mondo occidentale, la guerra intesa come atto di forza che ha lo scopo di
costringere l’avversario a sottomettersi alla propria volontà, viene
ridimensionata ed inserita in un contesto più ampio, che comprende altre misure
alternative, quali l’embargo commerciale, per esempio, o risoluzioni
internazionali volte alla ricerca di una soluzione possibilmente pacifica. Da
una concezione della forza come last
resort ,strettamente collegata con la possibilità dell’impiego massiccio e
risolutivo di una forza qualitativamente e quantitativamente in grado di
conseguire la vittoria totale, occorre passare ad una concezione della forza in being, intesa, cioè, quale strumento
organico della diplomazia.
All’interno
del novo ordine mondiale la pace è vista non solo come assenza di conflitti
internazionali, ma anche come rispetto dei diritti umani, rispetto delle
minoranze, assenza di guerre fratricide. Talvolta, quindi, né la deterrenza
militare, né le sanzioni economiche o politiche possono avere gran peso.
Aumentano potenzialmente il numero di guerre per le quali l’unico obiettivo è
quello di una loro restrizione, al fine di evitare processi di spiralizzazione.
In tale
contesto si colloca la missione di pace, che rappresenta un “ponte ideologico”
tra due modi differenti di considerare la guerra e la società.
Bibliografia
Luciano Bozzo, Guerre umanitarie
tra retorica e realtà, <<Rivista Aeronautica>>, n° 4/2000;
Carlo Jean, Guerra, Strategia e
Sicurezza, Bari, Laterza, 2001;
Antonio Pelliccia, Operazioni
Militari Diverse dalla Guerra, <<Rivista Aeronautica>>, n°
1/2002;
Gen. Jean, Prof. Ronzitti, Il
mantenimento della pace, Centro Alti Studi per la Difesa, 2° Corso
Superiore di S.M Interforze, Anno Accademico, 1995-1996;
Giorgio Blais, Le operazioni di
pace, << Rivista Aeronautica>>, n° 4/1999, p.17;
SMD-G-015 “Manuale Interforze per le Operazioni di Pace”, Roma, Stato Maggiore Difesa, gennaio, 1994;
C.F Renato Scarfi, Le operazioni
di pace nel nuovo ordine mondiale,
<<Informazioni della Difesa>> n° 2/1997;
Giovanni Cellamare, Le operazioni
di peace-keeping multifunzionali, Giappichelli Editore, Torino, 1999;
Fabrizio Battistelli, Il
peace-keeping, nuova frontiera del militare, tratto dal volume Soldati, sociologia dei militari italiani
nell’era del peace-keeping, Franco Angeli, Milano, 1995;
Luigi Caligaris, Le operazioni di pace: il ruolo della UEO e
della NATO, tratto dal volume, Dal
Futurismo al Minimalismo, ( a cura di) Luciano Bozzo, Napoli, ESI, 1999, p.
196;
Le possibili forme di intervento
internazionale: peace-keeping, peace-building, peace-enforcing, peace-making, Tavola Rotonda, Centro Alti Studi per la Difesa,
Roma, Palazzo Salviati, 19 gennaio 1994;
Carlo Jean, Guerra, strategia e
sicurezza, Laterza, Bari, 2001;
Umberto Gori, I mutati equilibri internazionali e le operazioni di peace-keeping/enforcement,
tratto dal volume “Dal Futurismo al
Minimalismo”, ( a cura di) Luciano Bozzo, Napoli, ESI, 1999.
Nessun commento:
Posta un commento