NOTIZIE CESVAM
Il CESVAM
organizza
per il 3 Febbraio 2017, su una intera giornata
all'Istituto "Antonio Gramsci" di Roma
un convegno nell'ambito del Progetto
"Il Valore dei Soldati Italiani in Albania.
Il Contributo Italiano alla nascita dello Stato Albanese.
Il CONVEGNO,*
ho come tema
I Soldati Italiani in Albania: da occupatori a combattenti per la Libertà
Si riporta, in anteprima parte della Relazione di Massimo Coltrinari dal titolo
“L'Albania e la crisi armistiziale italiana. Settembre ottobre 1943
Al momento dell’Armistizio 33
divisioni italiane, con circa 600 mila uomini, si trovavano fuori d’Italia,
impegnate nell’occupazione dei Balcani, la Grecia e le isole dell’Egeo. Esse
erano disseminate per un territorio molto ampio, con presidi spesso isolati e
senza collegamenti, con compiti di difesa delle coste e di lotta ai partigiani
locali, molto attivi in diverse aree. Fra le truppe italiane nei Balcani erano
molto forti i sentimenti di stanchezza per la guerra, acuiti dalle continue
offensive dei partigiani e dai rapporti di reciproca diffidenza con l’alleato
tedesco, che man mano prendeva possesso di aree prima controllate
esclusivamente da unità italiane. In molte zone era diffusissima la malaria, e
il disagio dei soldati era accresciuto dallo scarso vitto e da un vestiario
inadeguato. E’ opportuno ricordare che già all’atto dell’entrata in guerra
dell’Italia, il 10 giugno 1940, la situazione del Regio Esercito, per quanto
riguarda l’armamento e i materiali, era particolarmente carente. In
particolare: l’armamento (pezzi di artiglieria e carri armati) era obsoleto e
inadeguato, gli automezzi erano numericamente insufficienti, le uniformi erano
di pessima qualità, mancavano gli equipaggiamenti e le attrezzature adatte alle
aree dove si sarebbe operato (Africa, Russia, e appunto nei Balcani). Lasciate
totalmente all’oscuro dell’evoluzione della situazione in Italia, le divisioni
italiane nei Balcani e nell’Egeo furono prese di sorpresa dall’annuncio
dell’armistizio, di cui per lo più vennero a conoscenza attraverso la radio.
Dappertutto i soldati accolsero con scene di entusiasmo la notizia della resa
dell’Italia, mentre gli Ufficiali si resero subito conto della gravità della
situazione in cui si trovavano, senza alcuna preparazione o direttiva da
seguire. Inutili i tentativi di avere ordini da Roma, difficili e spesso
impossibili anche le comunicazioni tra le varie divisioni e tra i reparti delle
stesse divisioni. Queste ultime ebbero vicende molto diverse tra loro, a
seconda delle circostanze e dell’iniziativa dei singoli comandanti. Molti
comandi di divisione, completamente abbandonate a se stesse, preferirono dare
l’ordine di accettare la resa piuttosto che rischiare opponendo resistenza. La
cronaca di quegli avvenimenti registra episodi che oggi appaiono addirittura
incredibili ma che invece si verificarono non in un solo caso. Plotoni o
compagnie tedesche che in presidi costituiti da un battaglione italiano o forze
superiori, colti di sorpresa dall’annuncio dell’armistizio, si presentavano ai
comandi italiani affinchè consegnassero le armi ma di fronte all’indecisione
dei nostri comandanti ugualmente sorpresi, finivano per assumere immediatamente
l’iniziativa e disarmare tutto il presidio italiano. In una tale situazione di
caos, come è facilmente intuibile, la maggior parte delle unità si arrese quasi
subito; altre cercarono di trattare la consegna delle armi con la speranza di
ottenere il rimpatrio; poche accettarono l’alternativa offerta dai tedeschi di
continuare a combattere al loro fianco. Una volta disarmate le unità italiane,
i tedeschi non mantennero gli impegni presi e le internarono sul posto o le
spedirono in Germania. Peraltro vi furono diversi reparti che si rifiutarono di
ubbidire a un ordine che consideravano contrario al loro onore di soldati e
alle direttive impartite dal governo del re. La prima e più ampia resistenza
nacque tra questi militari, prima che tra i civili; una scelta tanto più
difficile perché minoritaria, compiuta in un territorio ostile, e votata fin
dall’inizio alla sconfitta.
Nel settembre del 1943 in Albania si
trovavano circa 130 mila soldati del Regio Esercito italiano, la maggior parte
dei quali inquadrati in 6 divisioni di fanteria (Lastrina 1): la Arezzo, Brennero, Firenze, Parma, Perugia e Puglie,
tutte appartenenti alla 9^ Armata, comandata dal Generale Lorenzo Dalmazzo, con
sede del comando a Tirana. Più precisamente:
▪
La
divisione di fanteria “Perugia”, era comandata dal generale Ernesto Chiminello,
con sede del comando a Argirocastro;
▪
La
divisione di fanteria “Parma”, era comandata dal generale Enrico Lugli, con
sede del comando a Valona;
▪
La
divisione di fanteria motorizzata “Brennero”, era comandata dal generale Aldo
Princivalle, con sede del comando a Sassobianco;
▪
La
divisione di fanteria “Arezzo”, era comandata dal generale Arturo Torriano, con
sede del comando a Torcia;
▪
La
divisione di fanteria “Firenze”, era comandata dal generale Arnaldo Azzi, con
sede del comando a Dibra;
▪
La
divisione di fanteria “Puglie”, era comandata dal generale Luigi Clerico, con
sede del comando a Prizren.
Tali divisioni, come quelle dislocate
sul territorio italiano, erano dette “binarie”, cioè composte da 2 reggimenti
di fanteria ed un reggimento di artiglieria, più dei reparti minori con
funzioni di supporto operativo e logistico (un btg. mortai, una comp.
artiglieria anticarro, una comp. genio e una telegrafisti/marconisti e diverse
sezioni). Ogni divisione risultava composta da circa 13 mila uomini,
equipaggiati con pezzi di artiglieria, mortai e mitragliatrici. Per il
trasporto utilizzavano muli, carri, motocicli e mezzi di vario genere.
Dal comando della 9^ Armata
dipendevano anche i reparti della Milizia volontaria albanese ed unità di altre
Forze Armate. Questo comando seppe della conclusione dell’armistizio prima di
averne avuto notizia ufficiale. Risulta infatti che alle 18 dell’8 settembre il
servizio “I” di armata ne era venuto a conoscenza attraverso radio Ankara. Il
Gabinetto del Ministero della guerra, interpellato telefonicamente, dapprima
smentì e poi dopo qualche ora diede conferma. Soltanto nella tarda serata
dell’8 arrivò l’ordine 24202 con cui il Comando Supremo dava due direttive
contraddittorie: di reagire alle violenze tedesche e della popolazione locale “in
modo da evitare di essere disarmati e sopraffatti”, ma di non prendere
l’iniziativa “di atti ostili” contro i germanici. In sintesi l’indicazione era
di “garantire comunque il possesso dei porti principali, e specialmente quelli
di Cattaro e Durazzo” e di concentrare le forze, riducendo gradualmente
l’occupazione delle zone “come ritenuto possibile”. I tedeschi invece si
mossero subito la sera dell’8 settembre e fra il 9 e il 19 riuscirono ad
assumere il totale controllo dei porti e dei centri più importanti. Inoltre,
negli stessi giorni avevano iniziato a far affluire nuove truppe in Albania,
fino a quel momento di scarsa entità, interrompendo le linee di comunicazione e
telefoniche, e disarmando i molti presidi isolati. Il crollo dei comandi di
divisione e la disintegrazione dei reparti italiani furono quasi immediati. Le
vicende che portarono ad una tale situazione di sfacelo sono ancora oggi
oggetto di approfondimento. Ad esempio ci sono diverse testimonianze sul
comportamento ambiguo del comandante della divisione “Brennero”, il generale
Princivalle, che avrebbe invitato gli ufficiali e i militari da lui dipendenti
a combattere accanto ai tedeschi, sostenendo che “si doveva aderire
all’esercito tedesco al fine di raggiungere l’Italia; là ciascuno si sarebbe
comportato come avrebbe dovuto”.
Caso emblematico è quello della
divisione “Parma”, comandata dal generale Lugli, che presidiava i cruciali
settori di Valona e di Porto Edda, dove la divisione se organizzata, avrebbe
anche potuto tentare di concentrarsi per tornare via mare in Italia. Il
generale Lugli alla prima richiesta dei tedeschi di disarmare la divisione
rispose che mai avrebbe ceduto le armi. Egli si dichiarò invece disponibile di
fronte alla richiesta di collaborazione presentatagli dal rappresentante della
missione inglese che operava con i partigiani albanesi. Purtroppo, costretto a
cedere le armi pesanti, l’ufficiale quasi inavvertitamente si trovò prigioniero
dei tedeschi, impotente di fronte al loro comportamento sempre più aggressivo e
isolato dalle sue truppe. Soltanto le divisioni “Firenze” e “Perugia” nei
giorni seguenti all’annuncio dell’armistizio riuscirono a sfuggire al disarmo e
al successivo internamento da parte tedesca. Il generale Azzi, comandante della
divisione “Firenze”, forte di 9 mila uomini, rifiutò di farsi disarmare dai
tedeschi o di cedere le armi all’esercito di liberazione nazionale albanese.
Nei giorni immediatamente seguenti all’armistizio Azzi cercò di coordinare
un’azione comune con il generale Dalmazzo e con la divisione “Brennero” per
conquistare Tirana ma il tentativo fallì. Ma riuscì comunque a stabilire un
accordo con il comando partigiano albanese, rappresentato dallo stesso Enver
Hoxha. Con l’ELna fu creato un apposito comando detto delle “Truppe della montagna”, con a capo lo
stesso generale Azzi. Questo comando
era incaricato di organizzare, con l’aiuto degli albanesi, le truppe italiane
che erano arruolate nelle unità partigiane albanesi e di interessarsi degli
altri italiani che si trovavano presso le famiglie albanesi. I soldati italiani
furono ben accolti nelle file dei reparti partigiani albanesi e diventarono un
tutt’uno con questi ultimi. Il generale Azzi fu rimpatriato dalla missione
inglese nel giugno del 1944, dopo aver affidato il comando delle Truppe
italiane di montagna al generale Gino Piccini.
Particolarmente drammatiche furono invece
le vicende della divisione “Perugia” che cercò di trovare una via di salvezza
vagando per i monti e le coste albanesi e combattendo contro i partigiani e
contro i tedeschi fino all’inizio di ottobre 1943. Dopo aver subito numerose
perdite, alla fine la divisione dovette arrendersi ai tedeschi che uccisero
tutti gli ufficiali e deportarono i soldati superstiti.
A distanza di più di settant’anni, quel periodo e tutto quello che
avvenne allora alle migliaia di militari italiani, le peripezie, le sofferenze,
il dramma, i momenti di paura, di ansia e di disperazione che conobbero
sembrano oggi come un sogno. Ma per coloro che vissero quei momenti e quegli
avvenimenti, italiani e albanesi, furono e rimangono una grande realtà e un
esempio di elevata umanità.Il programma è in corso di diramazione e sarà pubblicato su "Quaderni On Line" quanto prima
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