di Alessia Biasiolo*
La
Germania non poteva non guardare anche all’Italia per le proprie scelte
alimentari in epoca nazista.
La
ricaduta del giovedì nero statunitense sull’Europa, influì fortemente anche sul
Belpaese: nel 1929 eravamo nella seconda decade dell’autarchia e in periodo di
forte protezionismo doganale.
La
piazza più importante per la vetrina dei prodotti italiani, e autarchici, era
senz’altro Milano, in cui le merci venivano propagandate più ampiamente.
La
propaganda evidenziava una vita moderna, emancipata, simbolo di una borghesia
che stava vivendo, almeno sulla carta, un periodo favorevole. Le tasse
aumentavano e le crisi produttive erano sempre dietro l’angolo, ma l’idea di
avere una classe borghese imprenditorialmente forte, era suffragata da forti
prese di posizione della Confindustria, dalla nascita o crescita di gruppi
industriali, dal forte aumento di adepti dei gruppi sindacali. Su tutto, una
visione futurista del prodotto e della pubblicità, che porterà alla
sostituzione del cartellonista come interprete delle necessità commerciali
delle aziende, con artisti scelti o selezionati dalle aziende stesse per
pubblicizzare i propri prodotti secondo una visione aziendale frutto di
strategia messa in atto a tavolino, ancor prima di realizzare il prodotto
stesso. Le aziende cominciarono proprio a cavallo tra le due guerre mondiali a
cercare una propria identità distintiva sugli altri prodotti, a volere creare
un segno per lasciarlo. Risorsa indiscussa per le aziende italiane fu proprio
il Futurismo, determinato auto-promotore, i cui seguaci erano profondamente
consapevoli dell’importanza della pubblicità, soprattutto per abbattere le
barriere tra alta e bassa società. I futuristi che lavorarono per la pubblicità
furono molti, da Marinetti che creò pubblicità per Snia Viscosa, oppure Farfa
che creò per Ferrania, mentre Fiat Balilla scelse di essere rappresentata dal
Futurismo di Diulgheroff. Fu però Fortunato Depero ad essere il più innovativo
grafico del movimento: collaborò con la Davide Campari dal 1924 al 1939,
creando per l’azienda di bevande non soltanto pubblicità, ma anche oggetti,
come pupazzi, lampade, vassoi e la bottiglia icona Campari Soda. Inoltre,
Depero ha progettato per la Campari chioschi e architetture pubblicitarie,
ideando delle vere e proprie opere d’arte con l’aiuto dell’azienda: il libro
bullonato, ad esempio, venne realizzato proprio grazie all’aiuto di Davide
Campari. L’insegnamento l’artista lo traeva dai musei, dalle grandi opere del
passato, sosteneva, perché tutta l’arte dei secoli passati, secondo Depero, era
improntata all’esaltazione (del guerriero, del religioso, delle cerimonie,
delle vittorie), in chiave pubblicitaria, per fare restare nella memoria dei
contemporanei e dei posteri qualcosa. Sempre secondo Depero, “i prodotti nostri
hanno bisogno di un’arte nuova altrettanto splendente, altrettanto meccanica e
veloce, esalatrice della dinamica, della pratica, della luce, delle materie
nostre”. L’arte pubblicitaria, secondo il futurista, poteva poi essere piazzata
dovunque, per terra, sui muri, nei treni, nelle vetrine, ed essere colorata,
moltiplicata, non sepolta nei musei, ma viva. Quindi le aziende dovevano avere
l’intelligenza strategica di usare il valore artistico della funzione
pubblicitaria per costruire qualcosa di unico sul mercato e distinguersi in
ogni dove. Depero teneva presente, poi, che anche le persone erano cambiate,
non camminavano più avendo il tempo di leggere un manifesto sul muro, ma
sfrecciavano veloci in treno e in automobile o su un autobus, di certo più
veloce del tram. Quindi bisognava creare pubblicità belle, colorate, veloci da
leggere e da capire, funzionali al prodotto. La scuola dell’Art Decò fu
fondamentale: le linee potevano e dovevano essere diagonali, le lettere grandi
e maiuscole, la novità doveva catturare l’attenzione. Depero applicò queste
innovazioni per la Campari, ma anche per Unica, Strega, San Pellegrino,
Presbitero, Schering, non limitandosi al disegno, ma a riflettere gli umori
politici del Paese, le nuove prospettive verso un’arte unica. Spesso nelle
pubblicità venivano ricordati l’esotico, il dogma, le teorie sulla razza,
testimoniando il complesso rapporto tra aziende, politica e arte futurista. Gli
oggetti delle pubblicità diventano grandi, ingombranti: devono colpire lo
spettatore, il visitatore delle fiere. Colpire l’immaginario della persona
comune, piccola, con un’immagine di grandezza che, se è vero che era politica
in quel tempo in Italia, era quanto più la raffigurazione di come si poteva
diventare se si acquistava, se ci si impossessava proprio di quel prodotto.
Alla Fiera di Milano, ad esempio, accanto ai prodotti alimentari si esponevano
opere che avevano lo scopo di stupire e impressionare positivamente: carri
armati, maschere antigas, apparati antiaerei, aerei, camere-rifugio antiaereo, ma
anche i più moderni mezzi per comunicare come la macchina per scrivere e,
soprattutto, il telefono. Anche questo grande, come nella pubblicità della Stipel.
L’oggetto doveva e poteva fare sentire potenti, grandi come doveva esserlo
l’Italia in quei frangenti storici. Quali erano i prodotti alimentari
pubblicizzati in Italia? Possiamo darne solo qualche esempio, scelto tra quelli
che richiamano i cibi citati nei precedenti articoli. Un grande fermento
ruotava attorno alle proteine animali: molti stand fieristici o manifesti
pubblicitari erano dedicati ai grassi, sia per l’alimentazione che non, in modo
da studiarne le proprietà e gli usi, e di sostenere la diffusione di grassi
animali come di surrogati. È il caso della margarina, che ebbe vasta diffusione
dalla seconda metà degli anni Venti, soprattutto quando era necessaria per
sostituire il carente burro. Achille Luciano Mauzan aveva curato, nel 1926, una
pubblicità per la Società Anonima Angelo Arrigoni di Crema. Le società anonime
erano pullulate in Italia soprattutto dai primi anni del Novecento, quando la
quasi improvvisa ripresa economica aveva convinto della bontà del tramutare
imprese anche di stampo artigianale in Società Anonime appunto, poi in Società
per Azioni. Non che il burro non si usasse più, certo, come recitavano le
cremerie Zatti Verderi Chiesi di S. Ilario D’Enza nel 1935: “Esigete Super
Burro”, di pura panna, mentre c’era il patriottico “Burro Vittoria”, sempre
finissimo di pura panna. Era il momento dell’estratto per brodo, salutare,
economico e capacissimo di sostituire spese per acquistare la carne e per
cuocerla. Le ditte produttrici erano molte, dalla Liebig che aveva messo a punto
la ricetta per il mitico dado per brodo, al “Vero estratto di carne australiano
Arrigoni” di Genova, in vasetti e dadi (1925), all’estratto di carne “Food” del
1925, che diverrà ben presto troppo “straniero”; al “Nutreina” dei Laboratori
Scientifici di Milano (1925), al “Bovis” della ditta Luciani (1930),
all’estratto di carne “Texas” (1935), che rispondeva ai migliori requisiti
fissati dalle norme vigenti, prodotto dalla ditta Italiana Texas a Milano.
Molto successo l’ebbe anche l’estratto Wührer (1924, 1931), dell’omonima ditta
produttrice di birre di Brescia. L’estratto, infatti, di brodo di manzo o di
pollo, veniva prodotto accanto allo stabilimento birrario di Viale della
Bornata nella Leonessa d’Italia. La produzione di birra in Italia aveva, in
quel momento, andamento altalenante: l’aumento delle accise indeboliva le
vendite della bevanda, ma allo stesso tempo convincevano lo Stato che l’incasso
in tasse era penalizzato se si esagerava nella tassazione anche per rispondere
alla domanda di maggiori controlli verso l’abitudine di ubriacarsi di molti
operai durante i giorni liberi. La birra italiana Wührer, che aveva incamerato
molte altre aziende tra cui la Birra Italia, era in grado di competere con le
birre straniere, soprattutto bavaresi e austriache, pertanto ben si piazzava
nelle vendite, e anche l’estratto per brodo omonimo ebbe un notevole successo.
Accanto alle birre italiane, soprattutto dalla seconda metà degli anni Trenta e
fino al 1941-1942, proprio alla Fiera di Milano, la quarta per importanza
mondiale, si trovarono le birre tedesche, esposte in interessanti stand dove la
mescita e l’assaggio erano seguiti da un folto pubblico di giornalisti. La
presenza degli stand tedeschi non era stata vista di buon occhio da tutti,
specialmente da chi, già non essendo allineato alla politica fascista, ma
troppo in vista per subirne le conseguenze, aveva contestato o comunque non
aveva digerito affatto la presa di posizione sulle leggi razziali. La visita
dei padiglioni fieristici milanesi che, appunto, costituivano quanto di più
interessante e moderno circolava sulle piazze mondiali, avveniva sempre anche
da parte delle autorità, tra le quali il re Vittorio Emanuele III, il duca
d’Aosta, molti ambasciatori stranieri, molte autorità civili e militari, tra
cui spiccavano annualmente il ministro Starace, Vittorio Mussolini e altri,
accompagnati da gerarchi fascisti e poi anche nazisti. Se è vero che il Re
prediligeva visitare gli stand dell’aeronautica, ad esempio, o delle bellissime
vetture Balilla, è anche vero che per la Fiera giravano bellissime signorine,
vestite in tailleur, che portavano con sé cestini di caramelle al miele
Ambrosoli (1939); che pubblicizzavano i tortellini o la stessa birra.
L’Amaretto di Saronno o i biscotti Lazzaroni divennero i testimoni
dell’evoluzione della società in corso: la famosa scatola Lazzaroni di
biscotti, molto inglese nella fattezza così come era inglese il sapore dei
biscotti stessi, non doveva mancare nei salotti buoni delle città italiane. I
biscotti e le caramelle cominciarono a spopolare, simbolo proprio della
rinascita economica del primo dopoguerra: aziende come Saiwa, fondata a Genova
da Pietro Marchese, o Elah nata da Francesco Ferdinando Moliè nel 1909, sempre
più producevano preparati per budini, creme da tavola e dessert vari. Lazzaroni
veniva pubblicizzata, nel 1934, da trampolieri, mentre Elah scelse l’abitudine
degli animali esotici, come l’elefante. Magnesia S. Pellegrino aveva invece
scelto lo struzzo, mentre altri si accontentavano delle più caserecce capre.
Animali che circolavano per le fiere vivi, naturalmente, con la pubblicità montata
addosso (1935), oppure su eleganti calessini che essi stessi tiravano. Sempre
per restare in tema, quasi l’Italia non fosse toccata dalla miriade di ricerche
scientifiche sulle carie da zuccheri, oppure sulla necessità della dieta povera
di zuccheri che spesso venivano sbandierate nell’alleata Germania, Unica, che
produceva la famosissima caramella Nougatine ricoperta di cioccolato fondente,
utilizzava la sagoma di un nero delle colonie (1931) per la propria pubblicità.
Avevamo poi Pernigotti (dal 1868) per il torrone, Venchi dal 1878 per la
produzione di praline, Perugina (fondata nel 1907) che negli anni Venti si
affermerà con il famoso Bacio. Battaglie per la conquista dei mercati a suon di
cioccolatini, ma anche di panettone: nel 1919, Angelo Motta apre a Milano un
piccolo laboratorio che diverrà un’industria e anche questo tipo di produzione
diverrà campo di battaglia, contro Gioacchino Alemagna nel 1921 e con il figlio
di questi Alberto poi, per conquistare sempre più acquirenti. Sarà la Perugina
a scegliere di investire, per prima, nella radio per la propria pubblicità.
Finanzierà con Buitoni la realizzazione di due serie di puntate di una rivista
radiofonica intitolata “I quattro moschettieri”, liberamente tratta dal libro
di Alexandre Dumas. L’idea ebbe un successo clamoroso, tanto che diverrà “I
quattro moschettieri in pallone”: quattro personaggi in maschera scenderanno sulla
Fiera di Milano in pallone e circa centomila persone si raduneranno intorno
agli stand delle due aziende ideatrici dell’iniziativa. Il clamore fu tale che
le produzioni si moltiplicarono, e a queste si unì quella del famoso feroce
Saladino (personaggio molto amato dalla retorica di regime), il quale ebbe la
sua fetta di successo grazie soprattutto alla raccolta di figurine, con le
quali si doveva appunto dare la caccia a quella che raffigurava il mitico
personaggio da battere con le novelle “crociate”. I tempi volevano poi, oltre
ad un popolo italiano forte (grazie al riso, ad esempio, alla pastina all’uovo,
alla pasta glutinata, al VOV, all’olio d’oliva Sasso, alla farina alimentare
Carlo Erba, al massimo ricostituente per bambini “Eutrofina”, al vital
nutrimento ROM, e molto altro) delle donne dedite alla casa, alla cura della
prole, al decoro che poteva garantire una nazione forte e con solide basi.
Rivolta alle donne era la pubblicità delle macchine per scrivere, dato che il
lavoro di segretaria ben si addiceva ad un signorina, e così Marcello Dudovich
disegnerà il manifesto per la Olivetti nel 1925, mentre lo studio Boggeri
curerà quello per la stessa azienda nel 1934. Passiamo da una ragazza semplice,
dal rossetto rosso e abito immacolato, all’avvenente e seducente, elegante
signora degli anni Trenta, in cappello a larga tesa blu, capace di guardare al
futuro. Naturalmente erano rivolte prevalentemente alle donne le pubblicità
della moda, quando le novità si ammiravano a La Rinascente, dal nome dannunziano
del 1917, con pubblicità sempre con lo scopo di illustrare una sana morale
borghese. Le donne erano eleganti, benestanti, quasi mai massaie, lavoratrici o
contadine e gli uomini erano sicuri di sé, appartenenti ad una classe borghese
dominatrice. Come nei film degli anni Venti, le giovinette delle immagini erano
snob, studiavano in collegio privato, vivevano in ville lussuose e bevevano
champagne telefonando alle amiche per organizzare partite a tennis o gite a
prendere il sole, in automobili decappottabili dai motori rombanti. Andava
mitizzata la vita vista dal basso, dal provincialismo di gran parte d’Italia
che doveva guardare alla borghesia fascista, in questo caso, come a simbolo a
cui aspirare. Da un lato la modernità e dall’altro l’autarchia, la miseria
delle piccole città e delle campagne, il mito della guerra, pubblicizzato da
slogan come “Ali fasciste sul mondo”, “Lavoro e armi”. La moda doveva non solo
colpire e incuriosire, attirare acquirenti con le novità, ma anche trovare
soluzioni sempre nuove, soprattutto con la difficoltà di approvvigionamento di
tessuti a seguito dell’embargo. Proprio questo momento fu foriero per l’Italia di
ulteriore creatività: venne prodotta la seta artificiale, il rayon, ma anche lo
sniafiocco (il cotone nazionale), l’albene, il selenal, il tessile per
l’indipendenza, il lanital, fibra prodotta dalla Snia Viscosa, tratta dalla
caseina e pubblicizzata come la “nostra lana” o i “tessuti dell’impero”. Nel 1937,
tutte queste nuove fibre tessili venivano prodotte in 7 milioni di chili in
Italia, ad indicare come l’impegno all’indipendenza dagli altri Paesi avesse
creato un volano per l’industria. Il rayon utilizzato per la produzione delle
calze da donna, divenne idea anche per i manifesti, come quelli del 1934
ritraenti una figura di donna in poltrona a cui venivano messe in risalto le
lucentissime gambe, seducenti grazie alle calze di rayon. Che arrivava con le
“5000miglia del Rayon” (Federico Seneca, 1935). Interessante l’insegna della De
Angeli-Frua, produttrice di tessuti, che dichiarava che i loro prodotti
“Vincono le sanzioni”. Mano a mano che la creazione pubblicitaria si
approfondiva, più gli stili si intersecavano. Futurismo e Cubismo si intrecciavano
e i contrasti cromatici diventavano eleganti, la sintesi creava una magia
unica, teatrale.
La
pubblicità italiana del Ventennio ritraeva un Paese dedito a crearsi nazione
forte, autoritaria più che autorevole, per imporsi sugli altri e nelle colonie
come punto di riferimento e faro di cultura in senso stretto e politico. Di
certo, una propensione a dettare legge a tavola c’era e, per questi versi, per
fortuna è anche rimasta.
Alessia
Comm. Biasiolo, Socia del Nastro Azzurro, Federazione di Brescia
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