In Siria, il governo turco ha cambiato schieramento: da grande protettore dei “sunniti” a compagno di strada della Russia e dell’Iran. La nuova coalizione è stata inaugurata al vertice fra Russia, Iran e Turchia che si è svolto a Mosca il 27 dicembre 2016.
Esso segna una vera svolta nella guerra civile siriana e, in attesa di Donald Trump, illumina la prospettiva di una Siria divisa in zone d’influenza fra potenze esterne. L’attacco di Istanbul, al nightclub Reyna, l’ultimo dell’anno, nella serie di atti terroristici che hanno insanguinato la Turchia sin dalla fine del 2015 va valutato anche in questa nuova prospettiva.
Il peso dei curdi È la questione curda che ha spinto Racep Tayip Erdoğan a cambiare politica. Nell’autunno scorso, i curdi siriani - in testa alla coalizione delle Forze democratiche siriane sostenuta dagli Stati Uniti in funzione anti autoproclamatosi “stato islamico” con l’obbiettivo principale di conquistare Raqqa - hanno attraversato l’Eufrate e conquistato la città di Manbij con lo scopo di ripulire la zona a nord di Aleppo e ricongiungere il cantone curdo di Afrin (nel nord ovest della Siria) a quelli già accorpati nel nord est.
I curdi siriani mirano a costituire, fra Turchia e Siria, un territorio a guida curda (la Federazione del Nord della Siria - “Rojava”) privo di soluzioni di continuità. Per i turchi questo progetto, di per sé inquietante, non può che saldarsi con quello indipendentista dei curdi turchi e del Pkk che il governo di Ankara combatte con una feroce guerra interna.
In realtà, la guerra civile in atto in Turchia è più figlia della deriva autoritaria di Erdoğan che non dell’indipendentismo dei curdi turchi. Ma, come che sia, nella logica del governo turco, l’avanzata curdo-siriana e la sua saldatura con i curdi turchi costituiscono una seria minaccia nazionale assolutamente da fermare. Perciò, terzi in Siria dopo gli iraniani e i russi ad avere una presenza diretta nel conflitto, hanno invaso l’area a nord di Aleppo.
L’hanno fatto impiegando alcune delle milizie siriane di loro ubbidienza e mettendo così in luce di avere una seria influenza sulle forze non jihadiste dell’opposizione al regime di Damasco. Questa influenza non è nuova, ma fino a non molto tempo fa il sostegno fornito ambiguamente dai turchi, non solo alle forze non jihadiste dell’opposizione, ma anche a quelle jihadiste, ne aveva significativamente ridotto la portata.
Dopo la stretta nei confronti dei jihadisti, specialmente dell’autoproclamatosi “stato islamico”, la Turchia ha rafforzato i suoi legami e la sua influenza sulle forze non jihadiste dell’opposizione. La scissione emersa nell’ambito dell’importante gruppo salafita di Ahrar al-Sham a metà dello scorso dicembre fra un’ala di piena ortodossia jihadista e una definibile come pragmatica (filo-turca) ha alla sua origine il lavoro dei servizi turchi e comporta un notevole spostamento negli equilibri dell’opposizione a Damasco.
Il ruolo della Turchia nel conflitto siriano L’influenza acquisita dai turchi nell’opposizione non jihadista a Bashar al-Assad permette alla Turchia di sedere al tavolo della coalizione con Russia e Iran non - per proprietà transitiva - come protettore del presidente siriano, bensì come protettore di una considerevole parte dell’opposizione non jihadista al regime di Damasco, pronta, sotto la guida di Ankara, a trattare con Assad verso una transizione politica. È del resto questo il fondamento politico del cessate il fuoco iniziato con apparente successo il 29 dicembre.
Non si tratta di un rovesciamento delle alleanze da parte della Turchia, ma di una leadership turca sull’opposizione siriana che consente l’avvio di un processo politico. Tuttavia, occorre chiedersi quanto sia salda questa leadership. Dobbiamo pensare che questa transizione politica sponsorizzata dalla Turchia sia più fattibile di quella che hanno invano cercato di costruire negli anni passati l’Onu e il Gruppo di sostegno alla Siria - comunque naufragata nella mancata elezione di Hillary Clinton?
Tanti ostacoli, forse troppi Stando a quanto abbiamo appreso dalle vicende diplomatiche precedenti, le milizie non jihadiste dovrebbero continuare a opporsi strenuamente alle condizioni che Russia e Iran hanno posto fin qui: una transizione guidata da Assad e - almeno secondo le preferenze di Teheran - una permanenza dello stesso Assad a conclusione della transizione piuttosto che un allargamento della leadership, come intendono i russi. Il nuovo processo politico potrebbe perciò ben presto arenarsi, come i precedenti.
Questa, del resto, non è che la più evidente delle pietre di inciampo del progetto del vertice di Mosca e dei negoziati fra le parti che esso ha previsto ad Astana. Altre pietre d’inciampo sono il deflusso che avverrà a favore dei jihadisti, che restano anti-Assad, dalle file di quelli che, seguendo la Turchia, s’imbarcherebbero ora in un’ambigua transizione politica.
Reazioni ci saranno anche da parte dei Paesi arabi del Golfo, che però si trovano oggettivamente indeboliti. Sarà in particolare delusa la dirigenza qatariota. Inoltre, da parte russa le intese moscovite non sono un favore ai curdi, con i quali hanno peraltro un rapporto piuttosto amichevole. Per cui sarà anche questa un’evoluzione da osservare. Tutto ciò dovrà infine quadrare con l’arrivo di Trump, la cui politica resta poco chiara malgrado le dichiarazioni e le interpretazioni. Non è noto se a Mosca si sia parlato anche dell’Iraq, un tassello chiave di qualsiasi prospettiva di sistemazione dell’area.
Una Turchia più importante, ma più vulnerabile? La direzione che chiaramente emerge è, almeno per ora, quella di una divisione della Siria in zone d’influenza. Il nord sembrerebbe dover diventare di spettanza turca. L’est cadrebbe sotto l’influenza della Russia e dell’Iran e il sud, per il tramite della Giordania, verrebbe in sostanza lasciato agli Usa.
Questo regolamento dovrà però fare i conti con quello che resta dell’autoproclamatosi “stato islamico” e con le ridotte dei jihadisti, specialmente nell’Edlib. Il progetto era quello di una conquista di Raqqa da parte delle Forze democratiche siriane a guida curda, con l’appoggio degli Stati Uniti. Nel nuovo assetto non è però davvero chiaro quale posto avranno i curdi siriani e se, messo in discussione il loro progetto al nord, essi avranno un qualche interesse a conquistare Raqqa o a trattare con Assad e su quale base.
Infine, se i jihadisti siriani verranno davvero messi all’angolo, si potrebbe aprire una nuova filiera terroristica in Turchia. La politica estera della Turchia, da quando Erdoğan ha deciso diventarne il “sultano”, non ha fatto che moltiplicare i nemici. Ammesso che l’attacco al Reyna sia dello “stato islamico”, quelli a seguire potrebbero acquistare anche un sapore qaedista.
Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
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