APPROFONDIMENTI
di
Filippo Romeo
Era
un collaboratore o solo un disgraziato costretto ad accettare la
perversa logica che obbligava i membri dei consigli ebraici ad
amministrare la macchina di morte ai danni dei loro stessi
corregionali? Generalmente questa è la tragica domanda che si pone
chi impatta con il tema dei campi di concentramento ed, in
particolare, che analizza la figura di coloro che “gestivano” i
ghetti dai quali gli ebrei venivano deportati con un biglietto di
sola.
È
oltremodo comprensibile che la risposta data da
quanti hanno spesso veduto deportare vecchi, donne e bambini proprio
in base alla “selezione” gestita dai Consigli Ebraici
sia stata sempre e comunque caratterizzata
da giudizi molto negativi. In questo senso, il recente
documentario di Claude Lanzmann, “L’ultimo degli ingiusti”,
ha autorevolmente riportato in auge l’attenzione sull’annosa
questione concernete il ruolo avuto proprio dai citati consigli
ebraici nel compimento dello sterminio nazista, cercando di far luce
sull’assai controversa figura di Benjamin Murmelstein.
Per
cogliere il senso e la portata di ciò, occorre fare un salto
indietro nella storia.
I
consigli ebraici furono corpi amministrativi che la Germania nazista
ha imposto agli ebrei rinchiusi nei ghetti e la cui costituzione
avveniva su richiesta del capo delle SD (servizio di sicurezza delle
SS) il quale, per mezzo di una circolare, faceva richiesta ad ogni
comunità di costituire un consiglio composto da Anziani ebrei e, per
quanto possibile, dalle rimanenti personalità e rabbini.
Quest’organo di rappresentanza – meglio noto come Judenrate
– unico
responsabile del governo locale del ghetto, svolgeva l’ufficio di
eseguire con esattezza tutte le istruzioni impartite mediante le
circolari dall’amministrazione tedesca dalla quale era
completamente e letteralmente dipendente. Secondo la disposizione,
era infatti compito dei consigli ebraici attuare alla lettera gli
ordini ricevuti dal regime, per mezzo del loro presidente o del vice
eletto tra gli stessi membri del Consiglio. Più in particolare, gli
Judenrate
si occupavano dell’applicazione dei decreti delle autorità di
occupazione e si ponevano come interlocutori tra popolazione ebraica
e nazisti. In ragione di ciò erano obbligati a fornire manodopera
schiava alle industrie belliche tedesche e a collaborare alla
deportazione degli ebrei verso i campi di sterminio. Tali ingrate
mansioni li ponevano, pertanto, in una posizione di grande
responsabilità nei confronti dei loro stessi corregionali e ciò
spiega il motivo per il quale gran parte del loro incombente operato
continua tutt’oggi ad essere tema di dibattito e di discussione tra
gli storici.
Tuttavia,
se nella maggior parte dei casi l’approccio e la valutazione su
questa amara vicenda è stato negativo, ve ne sono altri in cui il
giudizio rimane “sospeso” sul presupposto che non sia affatto
semplice capire se e in che misura il loro operato, ancorché
determinato
da una collaborazione sottomessa con i nazisti nel folle piano di
stermino, sia anche consistito nel tentativo di salvare il maggior
numero di ebrei costretti nei ghetti.
La
vicenda diventa ancor più scabrosa e controversa nel caso di figure
come Mordechai Chaim Rumkowski, presidente del consiglio ebraico di
Łódź,
morto ad Auschwitz, il quale obbligò ad enormi sforzi produttivi la
popolazione, eseguendo puntualmente ordini tedeschi nella speranza di
salvare parte degli ebrei rinchiusi nel ghetto, o di Adam
Czerniaków, presidente del ghetto di Varsavia, suicidatosi nel 1942
quando non riuscì a impedire la deportazione della maggioranza degli
ebrei del ghetto. Il giudizio rimane ancora più sospeso nel caso di
Benjamin Murmelstein, l’ultimo presidente del consiglio degli
anziani del “ghetto
modello”
di Terezin dell’allora Cecoslovacchia: l’unico a sopravvivere.
Situato a circa 60 Km da Praga ed edificato nel 1941 da Adolf
Eichmann, Terezin fu considerato fin dalla sua creazione un ghetto
speciale, adibito ad accogliere inizialmente ebrei tedeschi e
cecoslovacchi destinati a rimanere in attesa della disgregazione e
dello sterminio che di lì a poco si sarebbe compiuto; una sorta di
luogo di giacenza prima dello smistamento e della deportazione nei
campi di sterminio nei territori orientali per tutti gli ebrei del
cosiddetto “Protettorato di Boemia e Moravia”. Più tardi, vi
furono deportati anche gli ebrei della Germania, Austria, Olanda e
Danimarca. Nel periodo in cui fu attivo – dal 24 novembre 1941 fino
alla liberazione avvenuta l’8 maggio 1945 – passarono per Terezin
ben 140.000 prigionieri e ne perirono circa 35.000. Fra i prigionieri
vi erano anche bambini, all’incirca 15.000 compresi i neonati.
Erano in prevalenza bambini degli ebrei cechi, deportati insieme ai
genitori, in un flusso continuo di trasporti fin dagli inizi
dell’esistenza del ghetto, di cui, dopo la guerra, ne fece ritorno
poco meno di un centinaio, tutti di età superiore ai quattordici
anni, in quanto i più piccoli morirono nel corso nel 1944 nelle
camere a gas di Auschwitz. Il ghetto di Terezin era considerato dai
Nazisti un “ghetto
modello”,
tanto da spingerli a realizzare nel 1944 il famoso film documentario
Theresienstadt,
al fine di mostrare
a una comunità allarmata dalle notizie che filtravano dai territori
occupati il modo dignitoso col quale venivano trattati gli ebrei, le
loro buone condizioni relative a cibo e cure, le attività sportive e
le iniziative culturali, quali spettacoli teatrali e cinematografici,
cui potevano partecipare. In verità, Terezin era e rimaneva un
tragico “ghetto lager” caratterizzato, al pari di luoghi simili,
dal dramma umano e dalla morte di cui proprio Murmelstein ha fornito
una lucida descrizione, raccogliendo le sue testimonianze in un libro
intitolato “Terezin.
Il ghetto-modello di Eichmann”,
edito
nel 1961 dalla Cappelli e ora ripubblicato dall’editrice La Scuola.
In questo libro, Murmelstein descrive con dovizia di particolari sia
la vita dei deportati, tra i quali personaggi prominenti
che nella “vita precedente” erano stati autorevoli politici,
artisti, studiosi, scienziati, che le caratteristiche del luogo in
cui a sopravvivere erano soprattutto i vecchi e non gli uomini in
grado di lavorare, al contrario di quanto succedeva altrove.
L’autore si sofferma a lungo sul lavoro di abbellimento del ghetto
nel 1943 in vista del film che di lì a poco sarebbe stato girato per
le descritte finalità propagandistiche. A rileggerlo oggi, dopo
avere nel corso degli anni avuto tante notizie sul martirio patito
dagli ebrei sotto il nazismo, il libro di Murmelstein non appare così
sconvolgente. Ma all’epoca si sapeva ancora poco di ciò che era
avvenuto, e le sue pagine costituirono una fonte incredibile.
Questa fonte ha acquistato nuova luce dopo la recentissima proiezione
del documentario del regista Claude Lanzmann basato sull’intervista
a lui rilasciata da Murmelstein nel 1975 a Roma. In questo
documentario il protagonista aggiunge ulteriori particolari, giudizi
e, soprattutto, parla di sé nell’intento (verosimilmente) di
spiegare la sua posizione nel tentativo ammorbidire
la visione di quanti lo giudicavano aspramente. Nei suoi racconti
mette in luce, senza filtri, il terribile dilemma di fronte al quale,
suo malgrado, era stato posto: salvare il ghetto, e quindi la vita
quantomeno di una parte dei suoi abitanti a spese dell’altra parte,
oppure non eseguire gli ordini lasciando che tutto fosse distrutto.
Dalla sua testimonianza, inoltre, emerge, anche con evidenza, il
conflitto interno ai nazisti fra quanti erano interessati, in vista
della sconfitta, a trattare con gli Alleati usando la vita degli
ebrei come ostaggio e quanti, al contrario, volevano la loro
eliminazione totale.
Mulmelstein,
che nel dopoguerra fu imprigionato dai comunisti cechi, processato
con l’accusa di aver collaborato coi nazisti e poi assolto (anche
se le accuse di collaborazionismo mosse dalla comunità ebraica lo
segnarono a vita nonostante l’esito del processo) si è stabilito
nel 1947 a Roma dove morì nel 1989 dopo lunghe sofferenze e dove gli
fu negato il
diritto ad una tomba nel cimitero ebraico della capitale. A porre
seccamente il veto fu l’allora rabbino capo Elio Toaff, che
già nel 1983 gli aveva negato l’iscrizione alla Comunità, il
quale vietò addirittura al figlio di recitare in Sinagoga la
preghiera in ricordo del padre, perché avesse “parte del mondo
futuro”. Una posizione, quella di Toaff,
motivata sulla base di tutte le informazioni negative sul conto di
Murmelstein,
una tra tutte proprio quella di essere
stato l’unico jewish
elder di Tereniz
– definizione nazista – ad
essere
sopravvissuto a differenza dei suoi sfortunati predecessori (Jacob
Edelstein e Paul Eppstein) che furono giustiziati dai nazisti di
fronte alle mogli e ai figli. Murmelstein, da allora apostrofato con
l’epiteto di “Murmelschwein” il collaborazionista, rimane nella
memoria come il kapò di quella città che “Hitler
aveva donato agli ebrei”
e sulla quale aveva costruito un modello di ghetto per ingannare il
mondo.
Ad
offuscare ancora di più la sua figura anche quel suo passato che,
parrebbe, sia stato caratterizzato da una collaborazione con Adolf
Eichmann che incaricò il rabbino di deportare gli ebrei di Vienna
verso il ghetto cecoslovacco, e dall’avergli impartito lezioni di
ebraico.
Secondo
alcuni Murmelstein, invece, fu uomo pragmatico, temerario, capace di
far leva sui punti deboli dei suoi carnefici, su quei nazisti che
avrebbero voluto fare di lui un burattino che egli aveva finto di
essere per poter meglio giocarli, fino a sfruttare la cupidigia di
Eichmann per i soldi riuscendo a patteggiare per far emigrare da
Terezin ben 121.000 ebrei.
Oggi,
quindi, far luce sulla figura storica di Murmelstein significa
parlare di giustizia della memoria, per riabilitare colui a cui –
lo ricordiamo – fu negata una tomba al cimitero ebraico di Roma. Di
questo avviso è Lanzmann il quale sostiene che Murmelstein non è
stato un traditore, ma un eroe, perché seppur costretto a
sacrificare centinaia di ebrei, fu capace di salvarne molte migliaia
sottraendoli ad una morte sicura e, inoltre, che differenza di chi
prese la via dell’esilio, rimase al fianco del popolo ebraico, fino
all’ultimo. Secondo Lanzmann la lezione da trarre da questa vicenda
è quella secondo cui «in
determinate situazioni non esiste altro comportamento che
l’obbedienza e che ogni tipo di resistenza diventa inutile»
.
In
sostanza, appare chiaro che la grande colpa di Murmelstein, che
ricordiamo fu assolto da i tribunali dai quali fu chiamato ad essere
giudicato, sia stata quella di sopravvivere.
È forse arrivato il momento che sia assolto anche dalla storia.
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