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giovedì 23 novembre 2017

Theresinstad:l'ultimo degli ingiusti

APPROFONDIMENTI
di Filippo Romeo

Era un collaboratore o solo un disgraziato costretto ad accettare la perversa logica che obbligava i membri dei consigli ebraici ad amministrare la macchina di morte ai danni dei loro stessi corregionali? Generalmente questa è la tragica domanda che si pone chi impatta con il tema dei campi di concentramento ed, in particolare, che analizza la figura di coloro che “gestivano” i ghetti dai quali gli ebrei venivano deportati con un biglietto di sola.
È oltremodo comprensibile che la risposta data da quanti hanno spesso veduto deportare vecchi, donne e bambini proprio in base alla “selezione” gestita dai Consigli Ebraici sia stata sempre e comunque caratterizzata da giudizi molto negativi. In questo senso, il recente documentario di Claude Lanzmann, “L’ultimo degli ingiusti”, ha autorevolmente riportato in auge l’attenzione sull’annosa questione concernete il ruolo avuto proprio dai citati consigli ebraici nel compimento dello sterminio nazista, cercando di far luce sull’assai controversa figura di Benjamin Murmelstein.
Per cogliere il senso e la portata di ciò, occorre fare un salto indietro nella storia.
I consigli ebraici furono corpi amministrativi che la Germania nazista ha imposto agli ebrei rinchiusi nei ghetti e la cui costituzione avveniva su richiesta del capo delle SD (servizio di sicurezza delle SS) il quale, per mezzo di una circolare, faceva richiesta ad ogni comunità di costituire un consiglio composto da Anziani ebrei e, per quanto possibile, dalle rimanenti personalità e rabbini. Quest’organo di rappresentanza – meglio noto come Judenrate – unico responsabile del governo locale del ghetto, svolgeva l’ufficio di eseguire con esattezza tutte le istruzioni impartite mediante le circolari dall’amministrazione tedesca dalla quale era completamente e letteralmente dipendente. Secondo la disposizione, era infatti compito dei consigli ebraici attuare alla lettera gli ordini ricevuti dal regime, per mezzo del loro presidente o del vice eletto tra gli stessi membri del Consiglio. Più in particolare, gli Judenrate si occupavano dell’applicazione dei decreti delle autorità di occupazione e si ponevano come interlocutori tra popolazione ebraica e nazisti. In ragione di ciò erano obbligati a fornire manodopera schiava alle industrie belliche tedesche e a collaborare alla deportazione degli ebrei verso i campi di sterminio. Tali ingrate mansioni li ponevano, pertanto, in una posizione di grande responsabilità nei confronti dei loro stessi corregionali e ciò spiega il motivo per il quale gran parte del loro incombente operato continua tutt’oggi ad essere tema di dibattito e di discussione tra gli storici.
Tuttavia, se nella maggior parte dei casi l’approccio e la valutazione su questa amara vicenda è stato negativo, ve ne sono altri in cui il giudizio rimane “sospeso” sul presupposto che non sia affatto semplice capire se e in che misura il loro operato, ancorché determinato da una collaborazione sottomessa con i nazisti nel folle piano di stermino, sia anche consistito nel tentativo di salvare il maggior numero di ebrei costretti nei ghetti.
La vicenda diventa ancor più scabrosa e controversa nel caso di figure come Mordechai Chaim Rumkowski, presidente del consiglio ebraico di Łódź, morto ad Auschwitz, il quale obbligò ad enormi sforzi produttivi la popolazione, eseguendo puntualmente ordini tedeschi nella speranza di salvare parte degli ebrei rinchiusi nel ghetto, o di Adam Czerniaków, presidente del ghetto di Varsavia, suicidatosi nel 1942 quando non riuscì a impedire la deportazione della maggioranza degli ebrei del ghetto. Il giudizio rimane ancora più sospeso nel caso di Benjamin Murmelstein, l’ultimo presidente del consiglio degli anziani del “ghetto modello” di Terezin dell’allora Cecoslovacchia: l’unico a sopravvivere. Situato a circa 60 Km da Praga ed edificato nel 1941 da Adolf Eichmann, Terezin fu considerato fin dalla sua creazione un ghetto speciale, adibito ad accogliere inizialmente ebrei tedeschi e cecoslovacchi destinati a rimanere in attesa della disgregazione e dello sterminio che di lì a poco si sarebbe compiuto; una sorta di luogo di giacenza prima dello smistamento e della deportazione nei campi di sterminio nei territori orientali per tutti gli ebrei del cosiddetto “Protettorato di Boemia e Moravia”. Più tardi, vi furono deportati anche gli ebrei della Germania, Austria, Olanda e Danimarca. Nel periodo in cui fu attivo – dal 24 novembre 1941 fino alla liberazione avvenuta l’8 maggio 1945 – passarono per Terezin ben 140.000 prigionieri e ne perirono circa 35.000. Fra i prigionieri vi erano anche bambini, all’incirca 15.000 compresi i neonati. Erano in prevalenza bambini degli ebrei cechi, deportati insieme ai genitori, in un flusso continuo di trasporti fin dagli inizi dell’esistenza del ghetto, di cui, dopo la guerra, ne fece ritorno poco meno di un centinaio, tutti di età superiore ai quattordici anni, in quanto i più piccoli morirono nel corso nel 1944 nelle camere a gas di Auschwitz. Il ghetto di Terezin era considerato dai Nazisti un “ghetto modello”, tanto da spingerli a realizzare nel 1944 il famoso film documentario Theresienstadt, al fine di mostrare a una comunità allarmata dalle notizie che filtravano dai territori occupati il modo dignitoso col quale venivano trattati gli ebrei, le loro buone condizioni relative a cibo e cure, le attività sportive e le iniziative culturali, quali spettacoli teatrali e cinematografici, cui potevano partecipare. In verità, Terezin era e rimaneva un tragico “ghetto lager” caratterizzato, al pari di luoghi simili, dal dramma umano e dalla morte di cui proprio Murmelstein ha fornito una lucida descrizione, raccogliendo le sue testimonianze in un libro intitolato “Terezin. Il ghetto-modello di Eichmann”, edito nel 1961 dalla Cappelli e ora ripubblicato dall’editrice La Scuola. In questo libro, Murmelstein descrive con dovizia di particolari sia la vita dei deportati, tra i quali personaggi prominenti che nella “vita precedente” erano stati autorevoli politici, artisti, studiosi, scienziati, che le caratteristiche del luogo in cui a sopravvivere erano soprattutto i vecchi e non gli uomini in grado di lavorare, al contrario di quanto succedeva altrove. L’autore si sofferma a lungo sul lavoro di abbellimento del ghetto nel 1943 in vista del film che di lì a poco sarebbe stato girato per le descritte finalità propagandistiche. A rileggerlo oggi, dopo avere nel corso degli anni avuto tante notizie sul martirio patito dagli ebrei sotto il nazismo, il libro di Murmelstein non appare così sconvolgente. Ma all’epoca si sapeva ancora poco di ciò che era avvenuto, e le sue pagine costituirono una  fonte incredibile. Questa fonte ha acquistato nuova luce dopo la recentissima proiezione del documentario del regista Claude Lanzmann basato sull’intervista a lui rilasciata da Murmelstein nel 1975 a Roma. In questo documentario il protagonista aggiunge ulteriori particolari, giudizi e, soprattutto, parla di sé nell’intento (verosimilmente) di spiegare la sua posizione nel tentativo ammorbidire la visione di quanti lo giudicavano aspramente. Nei suoi racconti mette in luce, senza filtri, il terribile dilemma di fronte al quale, suo malgrado, era stato posto: salvare il ghetto, e quindi la vita quantomeno di una parte dei suoi abitanti a spese dell’altra parte, oppure non eseguire gli ordini lasciando che tutto fosse distrutto. Dalla sua testimonianza, inoltre, emerge, anche con evidenza, il conflitto interno ai nazisti fra quanti erano interessati, in vista della sconfitta, a trattare con gli Alleati usando la vita degli ebrei come ostaggio e quanti, al contrario, volevano la loro eliminazione totale.
Mulmelstein, che nel dopoguerra fu imprigionato dai comunisti cechi, processato con l’accusa di aver collaborato coi nazisti e poi assolto (anche se le accuse di collaborazionismo mosse dalla comunità ebraica lo segnarono a vita nonostante l’esito del processo) si è stabilito nel 1947 a Roma dove morì nel 1989 dopo lunghe sofferenze e dove gli fu negato il diritto ad una tomba nel cimitero ebraico della capitale. A porre seccamente il veto fu l’allora rabbino capo Elio Toaff, che già nel 1983 gli aveva negato l’iscrizione alla Comunità, il quale vietò addirittura al figlio di recitare in Sinagoga la preghiera in ricordo del padre, perché avesse “parte del mondo futuro”. Una posizione, quella di Toaff, motivata sulla base di tutte le informazioni negative sul conto di Murmelstein, una tra tutte proprio quella di essere stato l’unico jewish elder di Tereniz – definizione nazista – ad essere sopravvissuto a differenza dei suoi sfortunati predecessori (Jacob Edelstein e Paul Eppstein) che furono giustiziati dai nazisti di fronte alle mogli e ai figli. Murmelstein, da allora apostrofato con l’epiteto di “Murmelschwein” il collaborazionista, rimane nella memoria come il kapò di quella città che “Hitler aveva donato agli ebrei” e sulla quale aveva costruito un modello di ghetto per ingannare il mondo.
Ad offuscare ancora di più la sua figura anche quel suo passato che, parrebbe, sia stato caratterizzato da una collaborazione con Adolf Eichmann che incaricò il rabbino di deportare gli ebrei di Vienna verso il ghetto cecoslovacco, e dall’avergli impartito lezioni di ebraico.
Secondo alcuni Murmelstein, invece, fu uomo pragmatico, temerario, capace di far leva sui punti deboli dei suoi carnefici, su quei nazisti che avrebbero voluto fare di lui un burattino che egli aveva finto di essere per poter meglio giocarli, fino a sfruttare la cupidigia di Eichmann per i soldi riuscendo a patteggiare per far emigrare da Terezin ben 121.000 ebrei.
Oggi, quindi, far luce sulla figura storica di Murmelstein significa parlare di giustizia della memoria, per riabilitare colui a cui – lo ricordiamo – fu negata una tomba al cimitero ebraico di Roma. Di questo avviso è Lanzmann il quale sostiene che Murmelstein non è stato un traditore, ma un eroe, perché seppur costretto a sacrificare centinaia di ebrei, fu capace di salvarne molte migliaia sottraendoli ad una morte sicura e, inoltre, che differenza di chi prese la via dell’esilio, rimase al fianco del popolo ebraico, fino all’ultimo. Secondo Lanzmann la lezione da trarre da questa vicenda è quella secondo cui «in determinate situazioni non esiste altro comportamento che l’obbedienza e che ogni tipo di resistenza diventa inutile» .
In sostanza, appare chiaro che la grande colpa di Murmelstein, che ricordiamo fu assolto da i tribunali dai quali fu chiamato ad essere giudicato, sia stata quella di sopravvivere. È forse arrivato il momento che sia assolto anche dalla storia.


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