APPROFONDIMENTI
1945-1951:
per gli ebrei continua la vita nei campi
di
Salvatore
Rizzi
All’indomani
della fine della seconda guerra mondiale in tutta Europa erano presenti fino a
10 milioni di persone - tra prigionieri di guerra, internati, civili in fuga - che
dovevano fare ritorno alle rispettive case. Un flusso migratorio di vaste
proporzioni che necessitava di un’organizzazione internazionale per i rimpatri.
Gli Alleati così si affidarono all’United Nations Relief and Rehabilitation Administration (UNRRA), agenzia di soccorso creata ad hoc già nel 1943 per coordinare le
misure di espatrio dei paesi interessati, per ricollocare dunque quelli che
erano chiamati i Displaced Persons (DPs)
- la definizione tecnica, data dal sociologo E.M. Kulisher, - per profughi di
guerra. Il lavoro dell’agenzia permise che la grande maggioranza di essi
riuscisse a tornare nel proprio paese di origine già dal settembre 1945.
Facevano eccezione però all’incirca un milione di persone dislocate tra
Germania, Austria e Italia che rifiutavano di abbandonare il paese nemico per
motivi politici (perseguitati in patria perché collaborazionisti o
anticomunisti). E in più vi erano bloccati anche 100000 ebrei, sopravvissuti
alla Shoah nei campi di concentramento, impossibilitati a emigrare nei propri paesi
e recuperare le proprie abitazioni nell’intento di ricostruire nuclei familiari
e comunità; numero che si andava a sommare ai circa 600000 ebrei dalla
nazionalità dubbia che da apolidi de
facto cercavano di trovare rifugio in Palestina, dove si stava costituendo
il “focolare ebraico nazionale” ad opera dell’Agenzia Ebraica di Ben Gurion.
Gli ebrei perseguitati dal nazismo furono quindi costretti a restare, per
disposizioni contingenti all’emergenza da parte dei Comandi Alleati, negli ex
territori del Terzo Reich occupati dalle forze alleate, e vennero alloggiati in
speciali centri di accoglienza temporanei del tutto simili nell’architettura ai
campi di internamento dove erano stati rinchiusi a partire dal 1939. Il maggior
numero di campi profughi si trovava nella zona occupata dagli americani, ossia
il centro-sud della Germania e parte dell’Austria occidentale, da Ziegenhain
nel Palatinato, fino a Salisburgo. I campi più importanti come quello di
Dachau, Feldafing e Landsberg accoglievano rispettivamente fino a 2190, 3309 e
5000 profughi: in totale nella zona americana i rifugiati ebrei del 1946 nella
lunga attesa del rimpatrio – e che sarebbero transitati in parte nei campi - furono
più di 175000 contro i poco più dei 28000 della zona britannica e i 1500 di
quella francese. Il campo più importante di DPs, però, fu quello di
Bergen-Belsen, nella Bassa Sassonia a giurisdizione inglese, che ospitò fino a
11000 profughi ebrei quando nel 1946 passò sotto l’autorità dell’UNRRA. La
detenzione in questi campi, seppur con la qualifica di profughi, per gli ebrei
fu comunque dura e non solo per la perpetuazione della prigionia sotto altre
forme. Si consideri la durata dei nuovi internamenti: alcuni campi resteranno
operativi fino al 1951. E poi per l’indeterminatezza della condizione: pur
godendo di una particolare tutela dal diritto internazionale per mezzo
dell’UNRRA, venivano considerati dai militari alla stregua di criminali da
tenere sotto controllo dall’esterno dei reticolati. Come ebbe a dire già nell’agosto
del 1945 – ad appena tre mesi dalla caduta del Terzo Reich - il procuratore E.G. Harrison, incaricato dal
presidente americano H. Truman di stilare un resoconto sulla condizione dei
rifugiati: “Stiamo trattando gli ebrei come hanno fatto i nazisti sostituendoci
a loro nella sorveglianza”.
Questa indefinita condizione di profughi-internati nei campi era data dai
nuovi scenari geopolitici che si stavano delineando sulle macerie del potere
nazista, e che vedeva coinvolte le forze vincitrici della seconda guerra
mondiale: Stati Uniti e Gran Bretagna in testa. Le leggi stringenti
sull’emigrazione non permettevano agli ebrei traversate oceaniche per trovare
ospitalità in Canada o negli Stati Uniti. Lo spaventoso numero di possibili
immigrati in Palestina impediva alla stessa Gran Bretagna di concedere tali e
tanti visti e passaporti del territorio sotto suo mandato poiché si voleva
scongiurare da una parte la destabilizzazione di una regione a totale confessione
islamica con una forte e imposta presenza ebraica, e dell’altra impedire
possibili infiltrazioni comuniste date dai profughi originari dell’Est Europa.
Fino a quando lo Stato di Israele non si costituì ufficialmente nel 1948, dando
inizio ad un esodo regolamentato dei rifugiati, i profughi e gli immigrati
clandestini non trovarono che accoglienza forzata nei campi.
E non solo in quelli tedeschi. Centri di detenzione temporanea nacquero o
si perpetuarono anche nella stessa Palestina a causa della costante
immigrazione clandestina, fenomeno che era iniziato con la guerra stessa. Ed è
così che gli ebrei erranti nella Germania post-bellica che cercavano di
raggiungere la Palestina venivano intercettati dalle autorità inglesi – per lo
più su navi - è rinchiusi nel campo di Atlit, luogo di detenzione già creato nel
1938 a sud di Haifa, sulla sponda orientale del Mediterraneo, a soli duecento
chilometri da Gerusalemme. Seppur imprigionati questi ebrei erano comunque
vicino alla loro Patria Ideale, in una condizione psicologica migliore rispetto
a coloro che erano internati in Germania. Per il resto vivevano in baracche in
lamiere dalle forti escursioni termiche, sempre sovraffollate, o in tende di
fortuna allestite quando le baracche erano insufficienti. Atlit divenne infine un
campo profughi con 5000 internati stabili, segno che i flussi migratori
clandestini erano corposi e soprattutto continui, guidati dall’influenza
dell’Agenzia Ebraica. Gli inglesi risposero impedendo la detenzione dei
profughi su territorio palestinese e nell’estate del 1946 aprirono nuovi campi
sull’isola di Cipro, sul versante sudorientale, a Caraolos e a Xylotymbu. Da
allora Cipro detenne fino al gennaio 1949 nei propri campi circa il 67%
dell’immigrazione clandestina totale ebraica verso la Palestina. In pochi mesi, nel 1946 Cipro era stata
inondata da 15000 profughi nullatenenti e con una media di 750 arrivi al mese, in
due anni e mezzo, l’isola avrebbe trattenuto un totale di 51500 persone. Oltre
a impegnare le forze britanniche nella difesa dei flussi migratori sui
territori a mandato – dato che l’esercito di Sua Maestà impiegò 100000 unità a
difesa della Palestina - le lobby ebraiche cercarono di gestire e influenzare
contemporaneamente più fronti critici.
La strategia sionista fu quella di forzare le resistenze britanniche
sull’approdo ebraico in Palestina anche attraverso i campi di internamento
statunitensi su suolo tedesco, facendo pressioni indirette agli americani. Già
nell’inverno del 1946 si dovettero allestire undici nuovi campi per ricevere la
quasi totalità degli ebrei profughi nella zona a giurisdizione statunitense. In
un solo anno dalla fine delle ostilità in Europa in questi campi si affollarono
142000 ebrei. La situazione si aggravò con le notizie di sommosse antisemite
nell’Europa dell’Est al ritorno degli ebrei. In poco tempo in Germania e
Austria trovarono rifugio 226000 DPs, che – nonostante i tentativi di
ostruzionismo americano che negavano vitto e alloggio nei campi per i nuovi
arrivati – alla fine del 1947 divennero 250000 sui 463000 ebrei in diaspora in
tutta l’Europa. Gli Stati Uniti d’America capirono che la questione palestinese
andava risolta al più presto per non aggravare ulteriormente il peso dei
rifugiati sul continente europeo e le loro condizioni di vita nei campi. La
divisione della Palestina - metà araba, meta ebraica, con due Stati Nazionali
ben distinti - andava attuata al più presto. Come disse il Segretario di Stato
americano D. Acheson già nell’agosto 1946: “La spartizione della Palestina è
l’unico modo per sveltire l’emigrazione”. La divisione venne approvata, con il
piano redatto dall’United Nations Special
Committee on Palestine (UNSCOP), dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 29
novembre del 1947. Dall’estate del 1948, dopo la costituzione dello Stato di
Israele e il ritiro del mandato britannico sulla Palestina, a 20000 ebrei sarà
permesso di lasciare i campi di detenzione a Cipro e recarsi nella nuova
patria. Seguiranno poi i rilasci di passaporto anche agli ebrei detenuti in
Europa che svuoteranno man mano i campi.
In questi ulteriori
sei anni di detenzione dalla fine della guerra sul teatro europeo (1945-1951),
la vita quotidiana degli ebrei internati si svolse esclusivamente all’interno
delle mura perimetrate dal filo spinato, svestendo la divisa a righe della
prigionia nazista e indossando abiti civili. I controlli all’interno dei campi
erano tali che l’autorganizzazione dello spazio vitale dei profughi era
“libera” di fluire. Pur frustrati dalla perdita o la dispersione dei propri
cari che aveva causato lo sradicamento dell’istituzione familiare – tant’è che
l’UNRRA creerà un’apposita sezione per la ricerca dei dispersi favorendone il
congiungimento – gli abitanti dei campi di internamento post-nazisti fecero
nascere all’interno di essi nuovi nuclei sociali, rendendo più fluide le relazioni.
Fenomenologia sociale che era notabile soprattutto nei grandi campi, come
quello di Bergen-Belsen. Dopo i primi mesi di ambientamento, già dal secondo
anno, le coppie che si formavano tra DPs vantavano un tasso di natalità tra i
più alti al mondo. Decine di famiglie si formavano quotidianamente, tanto da
celebrarsi tra i 20 e i 30 matrimoni al giorno. La vita sociale, culturale e
politica prosperò da subito nei campi. Si crearono fazioni politiche e
rappresentanze comunitarie forti e influenti. Capaci per esempio di organizzare
rivolte o proteste collettive esemplari come lo sciopero della fame per la
durezza delle condizioni di vita. A Bergen-Belsen si creò perfino una gerarchia
politico-amministrativa definita: con 40 comunità distinte che eleggevano i
propri rappresentanti in un Comitato esecutivo atto a fare pressioni nell’avere
le autorizzazioni necessarie a raggiungere la Palestina. Nel campo inglese
venne addirittura stampato un giornale quotidiano.
Dall’osservazione
dell’organizzazione della vita quotidiana nei campi si intuisce come gli ebrei,
nei lunghi periodi di detenzione si preparassero a tornare ad una agognata normalità
nella loro Eretz Israel (Terra di Israele) nella speranza di accorciare i tempi
di detenzione. Gli uomini e le donne si
istruirono nei mestieri più utili insegnati attraverso l’attivazione di veri e
propri corsi: falegnameria, maglieria, sartoria, scrittura a macchina,
radiomontaggio, lavorazione del ferro, etc. Così facendo I DPs avrebbero potuto
chiedere - e ottenere più facilmente - un permesso di emigrazione per motivi di
lavoro. La determinazione però con la quale gli ebrei rifugiati cercarono di
imporre il proprio diritto a tornare nelle proprie terre di origine e rifondare
una comunità, oppure a insediarsi in Palestina - permettendo così all’Agenzia
Ebraica di fare richieste sempre più pressanti a Gran Bretagna e Stati Uniti –
è testimoniata dall’educazione dei bambini.
La popolazione giovanile dei campi, seppur la più debole perché
soggetta a malattie, andava a “scuola”. Già minati nelle coscienze per via
della mancata percezione di differenza di trattamento tra carnefici e
salvatori, i bambini che erano riusciti a sopravvivere allo sterminio dovevano
obbligatoriamente – per quanto fosse poi possibile – recuperare il tempo di studio perso. Nella
sola Bergen-Belsen per esempio, già nel luglio del 1945 si era formata una
scuola elementare di 340 alunni che sarebbe stata affiancata a breve da una
scuola superiore professionale. Non mancava la biblioteca, ma scarseggiavano i
maestri. L’UNRRA organizzò così dei brevi seminari formativi di alcune
settimane per i futuri maestri. Le
materie sulle quali vennero formati gli insegnanti erano diverse ma sempre
riconducibili all’instaurazione nelle coscienze dei fanciulli dell’identità
ebraica. Tra il 1945 e il 1951 sarebbero state insegnate alle nuove generazioni
di ebrei, che avevano conosciuto la vita solo tra reticolati e alti muri:
l’ebraico, la letteratura ebraica, la storia ebraica, la storia del sionismo,
la Bibbia, la sociologia, la psicologia, la cooperazione, l’organizzazione dei
kibbutz, la geologia, la biologia, l’igiene, e – meta ultima, obbiettivo finale
dei DPs ebrei – la geografia della Palestina. I genitori dei bambini
desideravano che i figli ricevessero una rigida educazione da scuola rabbinica
e il programma educativo elencato era utile ai leader dei campi profughi per
impostare un’ ideologia sionista necessaria ai bambini nel futura prossima vita
in Israele.
contatti: centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org.
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