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sabato 18 novembre 2017

I Campi di concentramnto in ungheria nel secondo dopoguerra

 ARCHIVIO
di Stefano Ricci
Nonostante in patria sia una delle questioni storiche più conosciute e dibattute, con un ricco seguito di interviste, documentari, monografie e pellicole cinematografiche, il tema dei campi di prigionia sovietici in Ungheria, sorti nel 1948, dopo la presa del potere da parte del Partito Ungherese dei Lavoratori, è uno degli argomenti legati all’insediamento in Europa delle cosiddette “democrazie popolari” meno tradotti all’estero di tutta la storiografia contemporanea.         
Questo, nonostante in Ungheria – come del resto in Polonia – la memoria collettiva sia molto sensibile alle deportazioni di vasti strati della propria popolazione verso i gulag sovietici, ampiamente diffusi e radicati sul territorio nazionale.   
Da Kistarcsa a Reczk, nella vasta regione dei monti Mátra, passando per Horoszlany, Varpalota e Tiszalök, sono molte le testimonianze capaci di fornirci un quadro complessivo di quel periodo, dominato quasi per intero dalla temuta Allamvedelmi Hitaval, la Sicurezza di Stato originariamente creata per punire i criminali di guerra e poi, nel 1949, trasformata in un ente svincolato dallo stesso Ministero degli Interni, col compito di eliminare ogni minaccia alla nascente dittatura di Mátyás Rákosi, procedendo all’internamento dei detenuti e amministrando i campi del nuovo regime.
Fra queste, la testimonianza più eccezionale è, senz’ombra di dubbio, quella fornitaci da György Faludy, poeta e traduttore, arrestato nel 1949, all’epoca del processo Rajk, e internato a Reczk, gulag assurto ad emblema del comunismo ungherese.          
A colpire, da subito, è l’assurdità dei motivi per cui, migliaia di ungheresi, proprio a partire dal 1949, sono stati tratti in arresto: dalle accuse di sabotaggio a quelle di trotzkismo, Faludy racconta persino di come, uno dei responsabili dell’Istituto di meteorologia, sia stato arrestato per aver un giorno annunciato una «leggera brezza proveniente da occidente» e, l’indomani, un «influsso d’aria gelida proveniente da nordest, in arrivo dall’Unione Sovietica», proprio nelle ore in cui una divisione sovietica era pronta a varcare la frontiera ungherese.           
L’internamento di Faludy a Reczk è, però, preceduto da una sosta di circa quindici giorni nel campo di transito di Kistarcsa, costruito sul modello dei campi di concentramento nazisti: alte torri di guardia, filo spinato, baracche fatiscenti, ampio cortile centrale e lettiere sovrapposte.      
Da lì, Faludy è così condotto a Reczk, che nel 1950, secondo i dati ufficiali, ospita più di 1200 detenuti; tra di loro, sindacalisti, ex ufficiali dell’esercito, quadri di vari partiti fino ad allora alleati politici dei comunisti, contadini e operai.
Faludy racconta persino di un uomo torturato per errore e portato a Reczk perché ormai troppo malconcio per esser condotto nuovamente a casa.
La vita, all’interno del campo, è dominata dal lavoro: cave e boschi costituiscono il luogo in cui i detenuti passano la maggior parte della loro giornata; i ritmi sono frenetici e numerosi sono gli incidenti e gli infortuni.       
«Un giovane ingegnere», racconta Faludy, «era stato schiacciato da una roccia che pesava parecchie tonnellate; quando la pietra aveva incominciato a rotolare, i suoi vicini avevano gridato per avvertirlo […] l’uomo aveva alzato lo sguardo e sarebbe potuto fuggire, ma era rimasto al suo posto abbassando il capo con aria rassegnata».           
Un modo disperato per evitare, almeno per un paio di giorni, il massacro fisico di un lavoro il cui scopo non è la produzione, ma l’indebolimento psicologico, è la tufta, una pratica consistente nell’ingoiare pezzi di metallo, chiodi o lamette per esser ricoverati d’urgenza nell’ospedale del campo e ricevere, così, maggiore riposo e pasti più abbondanti.    
Proprio la denutrizione, infatti, è la prima causa di morte all’interno del campo; gli alimenti sono poveri e con poche calorie, inadatti pertanto ad una vita di fatiche: la colazione consiste solo di una tazza di surrogato di caffè d’orzo, mentre il pranzo prevede una zuppa di legumi da consumare in piedi, sul luogo di lavoro; per cena, invece, solo un po’ di verdura e 500 grammi di pane (spesso, però, la verdura è insufficiente per tutti e, al suo posto, vengono serviti piselli secchi destinati al bestiame).  
Come nota uno dei medici del campo: «con queste razioni, considerando le condizioni di lavoro e psicologiche, nel giro di un anno tutti i prigionieri saranno morti di fame, eccetto ovviamente quelli che non lavorano […] tra 12 mesi, il 95% dei detenuti saranno morti, tra sei cominceremo a registrare le prime perdite […] tra nove mesi, la gente morirà come le mosche d’autunno».
A complicare un quadro di per sé già precario, poi, concorrono delle condizioni igieniche totalmente deplorevoli: come riportano molteplici fonti, ai prigionieri non è mai concesso di lavarsi, salvo una volta al mese, quando, ogni due persone, viene loro consegnato un solo pezzo di sapone di Marsiglia. 
Le docce, infatti, verranno installate solo nel 1952, poiché quando a Reczk giungono i primi prigionieri, nel 1949, le tubature dell’acqua non erano ancora state installate.         
           
Per tutti questi motivi, Reczk è stato più volte definito il “campo della morte lenta”.      
Si cerca di reagire organizzando dibattiti filosofici, impartendo lezioni di matematica, raccontandosi libri letti in passato o semplicemente chiacchierando sul lavoro svolto in precedenza; si cerca, inoltre, di avere notizie dall’esterno sbirciando quei pochi giornali che i guardiani usano al gabinetto.  
Proprio in questo modo, ricorda Faludy, i prigionieri  seguono l’andamento della Guerra di Corea e le Olimpiadi di Helsinki e, sempre in questo modo, apprendono – speranzosi – dell’elezione alla Casa Bianca di Dwight Eisenhower.           
Non mancano le evasioni, puntualmente sventate; Faludy, nei suoi scritti, ne ricorda una conclusasi poche settimane più tardi, con il ritorno di tutti i fuggiaschi nel campo di Reczk.    
Le punizioni per un simile gesto variano dalle percosse, la cui esecuzione è affidata ai “kapo”, capibaracca spesso esentati dal lavoro o adibiti alla registrazione dell’ingresso dei detenuti nelle latrine, all’isolamento, consistente nella reclusione dei detenuti, per diverse ore, all’interno di piccoli stanzini di quattro metri quadri, senza riscaldamento, picchiati o spruzzati d’acqua gelida per mano dei guardiani, a seconda del loro umore.   
Nei casi d’insubordinazione più gravi, poi, il prigioniero, oltre che esser punito con l’isolamento, veniva anche legato ad un bastone passante dietro le proprie gambe; una pratica, questa, che alla reclusione univa anche la tortura. 
I detenuti di Reczk sperano così in un intervento occidentale: eventi come l’elezione di Churchill o la rivolta degli operai di Berlino vengono accolti con applausi ed esplosioni di gioia, specie quando nei gulag si diffonde la notizia della morte di Stalin. 
Le speranze, però, lasciano presto il posto alla disillusione ed alla disperazione; ogni trasgressione viene fermamente punita con una permanenza in cella d’indefinibile durata, dove si ricevono pasti ridotti.  
Presto, denutrizione e mancanza d’igiene portano anche alla comparsa di malattie, perlopiù infettive.
I malati vengono condotti nel piccolo ospedale da campo, diretto da medici anch’essi prigionieri, mentre quelli più gravi vengono trasferiti a Budapest, spesso senza far più ritorno.  
Un illustre osservatore come Elémer Földàry – Boér racconta la storia di un anziano prigioniero deceduto per mancanza di cure, poiché la penicillina destinata a salvarlo era stata utilizzata poco prima per curare il cane di un guardiano.      
La situazione, seppur microscopicamente, migliora a partire dal 1953, quando le razioni alimentari divengono più abbondanti e vengono sciolte le “brigate disciplinari” del campo, composte da teste calde e scansafatiche, costretti a dormire per terra in una baracca speciale.     
Alcuni osservatori, come Benko Zoltan, hanno collegato queste migliorie con la richiesta da parte ungherese di aderire all’ONU, ma è forse più corretto sostenere che esse siano il frutto del clima distensivo inaugurato da Imre Nagy nel luglio del ’53, quando piccoli gruppi di detenuti vengono persino rimessi in libertà; sempre Nagy, nello stesso anno, ordinerà infatti lo smantellamento totale e immediato dei campi d’internamento.    
All’uscita, come Joël Kotek e Pierre Rigoulot hanno sapientemente analizzato nel loro immenso lavoro, Il Secolo dei Campi, «si assiste ad uno spettacolo unico nella storia dei campi del XX secolo […] i detenuti liberati devono passare lentamente davanti ad un magistrato che ripete a ciascuno: “in nome della Repubblica popolare ungherese, intendo porgerle delle scuse per le ingiustizie, i torti e le umiliazioni che ha dovuto subire”».      
Oltre a Reczk, sempre nel 1953 furono smantellati anche i rimanenti campi d’internamento; secondo fonti ufficiali se ne contavano circa un centinaio, alle strette dipendenze del Ministero degli Interni, per un totale di oltre 44.000 detenuti politici, 10.000 dei quali lavoravano per il Ministero dei Lavori Pubblici.           
A questi dati, poi, devono essere aggiunti anche quelli legati al numero di ungheresi che, come accaduto in moltissimi altri paesi facenti parte del blocco sovietico, hanno conosciuto tutta la tragicità delle cosiddette “deportazioni interne”, organizzate dalle autorità centrali con lo scopo di ripopolare alcune zone situate ad est di Budapest, nella regione dell’Alföld, meglio conosciuta come Grande Pianura Ungherese, cuore geografico del più vasto Bacino Pannonico.      


info:centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org

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