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martedì 28 novembre 2017

Editoriale Novembre 2017


Divulgazione e Scientificità.

Nel chiudere questo numero di Quaderni on line non si può non ribadire la funzione propria di tale iniziativa che è quella di raggiungere la massima divulgazione dei temi di storia e storia militare incentrati sul concetto del "valore militare". Tali temi hanno nella vesta cartacea "Quaderni del Nastro Azzurro" lo specifico approfondimento proprio del dibattito accademico. Questo dato occorre sottolinearlo li dove ci si trova di fronte a saggi, saggi brevi e articoli di una certa consistenza, che però non hanno i crismi della scientificità accademica, ma quelli della informazione, della divulgazione.
Per questo Quaderni on Line sono lo strumento di propaganda ideale per questo genere di lavori e quindi integra il lavoro di ricerca ed approfondimento che è in pieno svolgimento.

Su questa scia dal mese di dicembre inizia la fase finale della predisposizione del Dizionario Minimo della Grande Guerra che sarà un banco di prova della consistenza culturale dell'Istituto. Tutti i presidenti i consiglieri ed i soci, naturalmente opportunamente valutati, saranno chiamati a dare il loro contributo in quanto questa opera deve essere un opera corale, a guida CESVAM, che dovrà caratterizzare l'anno 2018, centenario della vittoria nella Grande Guerra.

Massimo Coltrinari
(direttore.cesvam@istitutonastroazzurro.org

domenica 26 novembre 2017

Pistoia. Mostra Sulla Grande Guerra













 A Margine della conferenza sul Terzo Anno di Guerra si e visita a Pistoia la mostra dedicata ai profughi veneti in Toscana a seguito della ritirata di Caporetto
Mostra valuta e documentata che illustra un aspetto del 1917 molto sentito ed importante per il fronte interno

Il Presidente Bernini Ha avviato con il CESVaM un intenso rapporto che ha visto il realizzarsi di questa conferenza e proseguirà' cin il Progetto Albania nel prossimo 2018

sabato 25 novembre 2017

Prigionia Militare Italiana in mano degli Stati Uniti. Seconda Guerra Mondiale

MUSEI, ARCHIVI, BIBLIOTECHE

Hereford.

Documento redatto in data 17 agosto 1945, dal maggiore medico prof. Luigi Cabitto, sanitario del Compound 4 del Campo di Hereford (Texas), e dal gen. Nazzareno Scattaglia, intermediario dello stesso Campo, inviato il 25 dello stesso mese all'Ambasciatore d'ltalia a Washington, Alberto Tarchiani, e per conoscenza alla Delegazione americana della Croce Rossa Internazionale.


Nella mia qualità di sanitario di questo Compound è mio dovere riferire alla S. V. la scarsa alimentazione dei prigionieri e sui pericoli che ne possono derivare, affinché la S.V. nella sua qualità di Fiduciario rivolga adeguato reclamo alle Autorità competenti.  In linea generale, tutti indistintamente i prigionieri del Compound  4 sono diminuiti notevolmente di peso, diminuzione che varia da 15 a 5 chilogrammi per persona. E' da ritenere che tale diminuzione sia, quale media, di 10 chilogrammi.  La scarsità e quasi assenza totale dei grassi (un grammo di olio ed una decina di grammi al giorno di strutto per persona) rende difficoltata la funzione intestinale.  Le stitichezze sono molto frequenti ed ostinate, ed il ristagno di feci nell'intestino causa l'assorbimento di sostanze tossiche del tipo delle ptomaine, e conseguenti fatti di intossicazione. Le funzioni cardiache sono in molti prigionieri assai precarie (toni prolungati - toni ottusi - soffi anemici - tachicardie parossistiche - frequenti svenimenti - fatti di astenia) tanto che se sopravvenisse qualche malattia endemica od epidemica anche non di grave entità, potrebbe esservi insufficienza di resistenza organica da dare una mortalità notevole. Non pochi prigionieri di età giovanile presentano disturbi polmonari che, se fino ad oggi non possono classificarsi quali specifici, devono tuttavia ritenersi del tipo "pretubercolare".  E non si tratta qui di predisposizione "congenita" o da vecchia data "acquisita" ma di una predisposizione specificatamente determinata da una protratta denutrizione, e quindi da una diminuzione generale di resistenza dell'organismo a qualsiasi genere di malattia, a qualsiasi tipo di bacillo e specialmente al bacillo di Koch per la sua diffusione e per la sua caratteristica resistenza quando si trovi in un organismo, è uno dei bacilli che più facilmente possono determinare una situazione nettamente patologica. Né è possibile tentare con opportuni medicamenti di migliorare le situazioni organiche, poiché all'infermeria del Compound vengono assegnate settimanalmente di medicine adatte contro queste forme di malattia, solo sei fiale di gluconato di calcio per quasi 900 prigionieri del Campo 4. La scarsità e la monotonia di viveri causano anche numerosi disturbi a tipo neuritico che potrebbero, almeno parzialmente, venire curati con vitamina B1. Ma anche questo medicamento viene assegnato all'infermeria in scarsissima quantità. In altri tempi era concesso comperare alla "cantina" del campo preparati vitaminici; ora tale concessione venne abolita.  Ho presentato diversi "predisposti" all'ufficiale medico dell'ospedale americano perché almeno a costoro venisse assegnato un vitto migliore, ma mi fu risposto che nulla si poteva fare in loro favore. II colonnello americano Comandante del Campo avrebbe dichiarato che, secondo gli ordini ricevuti da Washington, dovrebbero venire assegnati ai prigionieri non lavoratori viveri di almeno 2.500 caIorie quotidiane. Un tenente colonnello che il giorno 15 agosto 1945 ispezionò il nostro campo, mi confermò questo nostro diritto, diritto del resto che la nostra Patria paga in moneta sonante. Ora, questa cifra di 2.500 calorie è stata in due mesi e mezzo solo rare volte raggiunta, mentre spesso si scese anche a 1.500 - 1.600 calorie.   Dalle cifre da me dedotte a seconda della tabella di Messini (Trattato di terapia clinica - U.T.E.T. 1942) basata su ricerche del Messini stesso e di altri autori, quali Mottazzi - Pugliese - Rondoni - Greppi - Zoia - Atwater and Woods - W. Noorden - Koering, la media delle calorie giornaliere assegnateci nel mese di giugno 1945 è di 2.142,33; mentre quella di luglio è di 2.096. Senza tenere conto che una parte delle verdure (cavoli-patate) è spesso guasta e deve venire quindi gettata, e che ciò che ci viene somministrato quale carne consiste in ossa sapientemente spolpate (estrema parte del piede di maiale - colonna vertebrale) che non possono assolutamente più dare che pochissime calorie quando le si faccia bollire a lungo. II loro contenuto di albumine e di grassi è quindi minimo e praticamente trascurabile. Per maggiore precisione, allego una tabella dei viveri assegnati nella prima quindicina di agosto 1945, la cui media è di calorie 2.107,2 giornaliere.   E' pertanto evidente che la media va continuamente abbassandosi, ed è altrettanto evidente che il Comando americano del Campo ci sottrae abusivamente una non piccola quantità di viveri. Ora, se si considera con i più quotati Autori che per un ammalato degente continuamente a letto sono necessarie da 1.700 a 1.800 calorie quotidiane, è facile dedurre che continuando con questa grave scarsità di viveri, si avranno gravi depauperamenti organici, tali da portare a conseguenze spesso irreparabili e talvolta anche letali.  Inoltre, i prigionieri del campo devono provvedere alla confezione dei viveri, alla lavatura biancheria, alla pulizia degli alloggiamenti, per cui il loro consumo di calorie va elevandosi -e non di poco - al di sopra delle 2.000 calorie. La Convenzione di Ginevra raccomanda che i prigionieri vengano messi in condizioni di coltivare gli sports. Ora, per questa estrema restrizione di viveri, ogni sport venne abolito, si che il Comando americano stesso ha ritenuto inutile tenere ancora aperto il campo sportivo. Ritengo che - anche per la elevata altitudine del campo - il consumo minimo per persona salga a 2.300 grandi calorie al giorno adeguatamente divise nel necessario fabbisogno di carboidrati, albumine, grassi.  Ora, finché l'organismo ha in sé delle riserve, si avranno solo dei dimagramenti senza conseguenze, ma, finite le riserve, avrà inizio un'autodigestione che colpirà il fegato, i muscoli, il cuore ed infine anche il cervello. Si avranno allora i segni caratteristici della cachessia da fame, con tutte le sue gravissime conseguenze. Noi siamo giunti ora a questo punto, come è dimostrato dalle frequenti neuriti gastro-intestinali, dalle comuni vertigini, dagli svenimenti, dai disturbi intellettuali che - sinora - si rivelano con gravi debolezze della memoria ed eccessiva difficoltà ad apprendere. E' pertanto mio preciso dovere insistere presso la S.V. perché nella Sua qualità di "fiduciario" del campo n° 4, faccia conoscere la situazione di questi italiani agli Alti Comandi Americani, all'Ambasciatore d'ltalia, alla Croce Rossa Internazionale, al Nunzio Apostolico, facendo rilevare come fra breve tempo non sarebbe più facile ricorrere ai ripari, ma si restituirebbero alla Patria degli individui tarati e non più idonei al duro lavoro di ricostruzione che ci attende. Che le condizioni di vita di questo Campo n° 4 siano gravemente insufficienti, è comprovato dal fatto, constatato dal sig. Colonnello americano che procedette all'ispezione del 15 agosto, che le mense delle compagnie somministrano come cibo perfino le bucce di patate confezionate a mo' di frittata, e dal fatto che molti ufficiali tra cui per citare il nome, il conte Foscari, si cibano di grilli e cavallette che fanno friggere nell'olio minerale che la "cantina" vende quale "brillantina" per capelli.


Hereford, Texas, 17 agosto 1945. II Sanitario del Compound,  Luigi Cabitto.,Professore dottore maggiore medico.

Contatti : centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org


venerdì 24 novembre 2017

CESVAM. Ulteriore richiesta alle Federazioni


Ancona IV Novembre 2017. Cerimonia al Monumento ai Caduti
Il Presidente della Federazione di Ancona, 
Mondaini, 
accanto al Labaro della Federazione Provinciale di Ancona
tenuto da un marinaio in Uniforme da parata
comandato dal Comando Scuole della Marina Militare di Ancona



Come da regolamento, 
 il Labaro del Nastro Azzurro
 è in testa di fila dello schieramento dei labari e bandiere della altre Associazioni



Come per le cerimonie 
vorremmo anche per la diffusione culturale dei valori che il Nastro Azzurro istituzionalmente persegue lo stesso impegno e aderenza 

Al giorno d'oggi nessun Presidente ha inviato una lista 
con i nomi e gli indirizzi postali delle persone scelte a cui fa inviare, gratuitamente,
i QUADERNI DEL NASTRO AZZURRO
ripetutamente richiesta da oltre due anni.

Senza questa azione capillare le Federazioni non potranno mai fare un proselitismo di aderenza e motivazionale,
ma sopratutto non riusciranno a fare quel salto di qualità che la
istituzione del CESVAM 
auspica e promuove

Si rinnova la richiesta

Ogni Presidente di Federazione ha facoltà di inviare a
centrostudicesvam@istitutonastroazzurro..org
una lista fino a dieci nomi di persone,
 che sono interessate ad essere coinvolte nella attività sia locali che nazionali
del Nastro Azzurro
a cui inviare gratuitamente, dal prossimo n. 1 I Semestre 2018
la rivista 
"QUADERNI DEL NASTRO AZZURRO"


Il Direttore el CESVAM
(per chiarimenti e note:   A scrivere a direttore.cesvam@istitutonastroazzurro.org)


giovedì 23 novembre 2017

Theresinstad:l'ultimo degli ingiusti

APPROFONDIMENTI
di Filippo Romeo

Era un collaboratore o solo un disgraziato costretto ad accettare la perversa logica che obbligava i membri dei consigli ebraici ad amministrare la macchina di morte ai danni dei loro stessi corregionali? Generalmente questa è la tragica domanda che si pone chi impatta con il tema dei campi di concentramento ed, in particolare, che analizza la figura di coloro che “gestivano” i ghetti dai quali gli ebrei venivano deportati con un biglietto di sola.
È oltremodo comprensibile che la risposta data da quanti hanno spesso veduto deportare vecchi, donne e bambini proprio in base alla “selezione” gestita dai Consigli Ebraici sia stata sempre e comunque caratterizzata da giudizi molto negativi. In questo senso, il recente documentario di Claude Lanzmann, “L’ultimo degli ingiusti”, ha autorevolmente riportato in auge l’attenzione sull’annosa questione concernete il ruolo avuto proprio dai citati consigli ebraici nel compimento dello sterminio nazista, cercando di far luce sull’assai controversa figura di Benjamin Murmelstein.
Per cogliere il senso e la portata di ciò, occorre fare un salto indietro nella storia.
I consigli ebraici furono corpi amministrativi che la Germania nazista ha imposto agli ebrei rinchiusi nei ghetti e la cui costituzione avveniva su richiesta del capo delle SD (servizio di sicurezza delle SS) il quale, per mezzo di una circolare, faceva richiesta ad ogni comunità di costituire un consiglio composto da Anziani ebrei e, per quanto possibile, dalle rimanenti personalità e rabbini. Quest’organo di rappresentanza – meglio noto come Judenrate – unico responsabile del governo locale del ghetto, svolgeva l’ufficio di eseguire con esattezza tutte le istruzioni impartite mediante le circolari dall’amministrazione tedesca dalla quale era completamente e letteralmente dipendente. Secondo la disposizione, era infatti compito dei consigli ebraici attuare alla lettera gli ordini ricevuti dal regime, per mezzo del loro presidente o del vice eletto tra gli stessi membri del Consiglio. Più in particolare, gli Judenrate si occupavano dell’applicazione dei decreti delle autorità di occupazione e si ponevano come interlocutori tra popolazione ebraica e nazisti. In ragione di ciò erano obbligati a fornire manodopera schiava alle industrie belliche tedesche e a collaborare alla deportazione degli ebrei verso i campi di sterminio. Tali ingrate mansioni li ponevano, pertanto, in una posizione di grande responsabilità nei confronti dei loro stessi corregionali e ciò spiega il motivo per il quale gran parte del loro incombente operato continua tutt’oggi ad essere tema di dibattito e di discussione tra gli storici.
Tuttavia, se nella maggior parte dei casi l’approccio e la valutazione su questa amara vicenda è stato negativo, ve ne sono altri in cui il giudizio rimane “sospeso” sul presupposto che non sia affatto semplice capire se e in che misura il loro operato, ancorché determinato da una collaborazione sottomessa con i nazisti nel folle piano di stermino, sia anche consistito nel tentativo di salvare il maggior numero di ebrei costretti nei ghetti.
La vicenda diventa ancor più scabrosa e controversa nel caso di figure come Mordechai Chaim Rumkowski, presidente del consiglio ebraico di Łódź, morto ad Auschwitz, il quale obbligò ad enormi sforzi produttivi la popolazione, eseguendo puntualmente ordini tedeschi nella speranza di salvare parte degli ebrei rinchiusi nel ghetto, o di Adam Czerniaków, presidente del ghetto di Varsavia, suicidatosi nel 1942 quando non riuscì a impedire la deportazione della maggioranza degli ebrei del ghetto. Il giudizio rimane ancora più sospeso nel caso di Benjamin Murmelstein, l’ultimo presidente del consiglio degli anziani del “ghetto modello” di Terezin dell’allora Cecoslovacchia: l’unico a sopravvivere. Situato a circa 60 Km da Praga ed edificato nel 1941 da Adolf Eichmann, Terezin fu considerato fin dalla sua creazione un ghetto speciale, adibito ad accogliere inizialmente ebrei tedeschi e cecoslovacchi destinati a rimanere in attesa della disgregazione e dello sterminio che di lì a poco si sarebbe compiuto; una sorta di luogo di giacenza prima dello smistamento e della deportazione nei campi di sterminio nei territori orientali per tutti gli ebrei del cosiddetto “Protettorato di Boemia e Moravia”. Più tardi, vi furono deportati anche gli ebrei della Germania, Austria, Olanda e Danimarca. Nel periodo in cui fu attivo – dal 24 novembre 1941 fino alla liberazione avvenuta l’8 maggio 1945 – passarono per Terezin ben 140.000 prigionieri e ne perirono circa 35.000. Fra i prigionieri vi erano anche bambini, all’incirca 15.000 compresi i neonati. Erano in prevalenza bambini degli ebrei cechi, deportati insieme ai genitori, in un flusso continuo di trasporti fin dagli inizi dell’esistenza del ghetto, di cui, dopo la guerra, ne fece ritorno poco meno di un centinaio, tutti di età superiore ai quattordici anni, in quanto i più piccoli morirono nel corso nel 1944 nelle camere a gas di Auschwitz. Il ghetto di Terezin era considerato dai Nazisti un “ghetto modello”, tanto da spingerli a realizzare nel 1944 il famoso film documentario Theresienstadt, al fine di mostrare a una comunità allarmata dalle notizie che filtravano dai territori occupati il modo dignitoso col quale venivano trattati gli ebrei, le loro buone condizioni relative a cibo e cure, le attività sportive e le iniziative culturali, quali spettacoli teatrali e cinematografici, cui potevano partecipare. In verità, Terezin era e rimaneva un tragico “ghetto lager” caratterizzato, al pari di luoghi simili, dal dramma umano e dalla morte di cui proprio Murmelstein ha fornito una lucida descrizione, raccogliendo le sue testimonianze in un libro intitolato “Terezin. Il ghetto-modello di Eichmann”, edito nel 1961 dalla Cappelli e ora ripubblicato dall’editrice La Scuola. In questo libro, Murmelstein descrive con dovizia di particolari sia la vita dei deportati, tra i quali personaggi prominenti che nella “vita precedente” erano stati autorevoli politici, artisti, studiosi, scienziati, che le caratteristiche del luogo in cui a sopravvivere erano soprattutto i vecchi e non gli uomini in grado di lavorare, al contrario di quanto succedeva altrove. L’autore si sofferma a lungo sul lavoro di abbellimento del ghetto nel 1943 in vista del film che di lì a poco sarebbe stato girato per le descritte finalità propagandistiche. A rileggerlo oggi, dopo avere nel corso degli anni avuto tante notizie sul martirio patito dagli ebrei sotto il nazismo, il libro di Murmelstein non appare così sconvolgente. Ma all’epoca si sapeva ancora poco di ciò che era avvenuto, e le sue pagine costituirono una  fonte incredibile. Questa fonte ha acquistato nuova luce dopo la recentissima proiezione del documentario del regista Claude Lanzmann basato sull’intervista a lui rilasciata da Murmelstein nel 1975 a Roma. In questo documentario il protagonista aggiunge ulteriori particolari, giudizi e, soprattutto, parla di sé nell’intento (verosimilmente) di spiegare la sua posizione nel tentativo ammorbidire la visione di quanti lo giudicavano aspramente. Nei suoi racconti mette in luce, senza filtri, il terribile dilemma di fronte al quale, suo malgrado, era stato posto: salvare il ghetto, e quindi la vita quantomeno di una parte dei suoi abitanti a spese dell’altra parte, oppure non eseguire gli ordini lasciando che tutto fosse distrutto. Dalla sua testimonianza, inoltre, emerge, anche con evidenza, il conflitto interno ai nazisti fra quanti erano interessati, in vista della sconfitta, a trattare con gli Alleati usando la vita degli ebrei come ostaggio e quanti, al contrario, volevano la loro eliminazione totale.
Mulmelstein, che nel dopoguerra fu imprigionato dai comunisti cechi, processato con l’accusa di aver collaborato coi nazisti e poi assolto (anche se le accuse di collaborazionismo mosse dalla comunità ebraica lo segnarono a vita nonostante l’esito del processo) si è stabilito nel 1947 a Roma dove morì nel 1989 dopo lunghe sofferenze e dove gli fu negato il diritto ad una tomba nel cimitero ebraico della capitale. A porre seccamente il veto fu l’allora rabbino capo Elio Toaff, che già nel 1983 gli aveva negato l’iscrizione alla Comunità, il quale vietò addirittura al figlio di recitare in Sinagoga la preghiera in ricordo del padre, perché avesse “parte del mondo futuro”. Una posizione, quella di Toaff, motivata sulla base di tutte le informazioni negative sul conto di Murmelstein, una tra tutte proprio quella di essere stato l’unico jewish elder di Tereniz – definizione nazista – ad essere sopravvissuto a differenza dei suoi sfortunati predecessori (Jacob Edelstein e Paul Eppstein) che furono giustiziati dai nazisti di fronte alle mogli e ai figli. Murmelstein, da allora apostrofato con l’epiteto di “Murmelschwein” il collaborazionista, rimane nella memoria come il kapò di quella città che “Hitler aveva donato agli ebrei” e sulla quale aveva costruito un modello di ghetto per ingannare il mondo.
Ad offuscare ancora di più la sua figura anche quel suo passato che, parrebbe, sia stato caratterizzato da una collaborazione con Adolf Eichmann che incaricò il rabbino di deportare gli ebrei di Vienna verso il ghetto cecoslovacco, e dall’avergli impartito lezioni di ebraico.
Secondo alcuni Murmelstein, invece, fu uomo pragmatico, temerario, capace di far leva sui punti deboli dei suoi carnefici, su quei nazisti che avrebbero voluto fare di lui un burattino che egli aveva finto di essere per poter meglio giocarli, fino a sfruttare la cupidigia di Eichmann per i soldi riuscendo a patteggiare per far emigrare da Terezin ben 121.000 ebrei.
Oggi, quindi, far luce sulla figura storica di Murmelstein significa parlare di giustizia della memoria, per riabilitare colui a cui – lo ricordiamo – fu negata una tomba al cimitero ebraico di Roma. Di questo avviso è Lanzmann il quale sostiene che Murmelstein non è stato un traditore, ma un eroe, perché seppur costretto a sacrificare centinaia di ebrei, fu capace di salvarne molte migliaia sottraendoli ad una morte sicura e, inoltre, che differenza di chi prese la via dell’esilio, rimase al fianco del popolo ebraico, fino all’ultimo. Secondo Lanzmann la lezione da trarre da questa vicenda è quella secondo cui «in determinate situazioni non esiste altro comportamento che l’obbedienza e che ogni tipo di resistenza diventa inutile» .
In sostanza, appare chiaro che la grande colpa di Murmelstein, che ricordiamo fu assolto da i tribunali dai quali fu chiamato ad essere giudicato, sia stata quella di sopravvivere. È forse arrivato il momento che sia assolto anche dalla storia.


martedì 21 novembre 2017

Le Suore del Monastero di Santa Priscilla e gli Ebrei 19143-1945

APPROFONDIMENTI
di Antonella Troiani

Durante l’occupazione nazista, le benedettine di Priscilla nascosero centinaia di perseguitati con la complicità dell’ambasciatore del Reich presso la Santa Sede, Ernst von Weizsäcker. L’operazione di occultamento non era esente da rischi, poiché i tedeschi rastrellavano tutto il territorio italiano in cerca di ebrei e partigiani; ma, per questi ultimi, era l’unico modo per sfuggire miracolosamente al treno della morte che portava ad Auschwitz. Numerosissimi sono stati gli ebrei salvati dalla rete di assistenza della Chiesa e un caso emblematico per tutti è quello delle Suore Oblate Benedettine di Priscilla, che durante gli anni oscuri della seconda guerra mondiale, sotto la sagace direzione del loro fondatore, don Giulio Belvederi, presso la loro casa alle Catacombe di Priscilla, nascosero centinaia di perseguitati. Nonostante il tema della persecuzione contro gli ebrei e il Vaticano sia stata una querelle infinita e motivo di controversia accesa, fin dall’autunno del 1943, di fronte ad una precipitazione degli eventi, la Santa Sede decise di provvedere ad impartire direttive ai superiori dei vari ordini religiosi, i quali spalancarono le porte dei propri conventi per accogliere, anche sotto mentite spoglie, così come affermato da Giovanni Preziosi, nel suo articolo apparso su L’Osservatore Romano di domenica 7 luglio 2013, tutti coloro i quali erano in serio pericolo di vita. L’autore, sopracitato, sottolinea, che le oblate benedettine di Priscilla- un piccolo ramo del grande tronco benedettino, sorto agli inizi del 1937 nella casa sulla via Salaria presso le Catacombe di Priscilla- si siano distinte in questa autentica gara di solidarietà, prodigandosi a soccorrere tutti i perseguitati, ospitandoli nella loro comunità e organizzando una duplice attività di protezione dei ricercati, sotto la guida di don Belvederi, fondatore dell’ordine, e con la collaborazione di Giulio Andreotti, presidente della Fuci (Federazione Universitaria Cattolica Italiana); unica associazione riconosciuta nelle università durante il fascismo, nella quale si formerà buona parte della futura classe dirigente democristiana. Secondo quanto affermato da suora Gloria Carli, la rete di assistenza riusciva a produrre anche false carte d’identità degli ebrei e di altri rifugiati, poiché le suore avevano una piccola tipografia, al servizio dell’Archeologia cristiana; i documenti venivano stampati e poi vidimati con i timbri delle città già liberate. Questa rete di assistenza, attenta e meticolosa, era stata ideata da Giulio Andreotti il quale provvedeva alla stampa e alla consegna diretta dei documenti agli ebrei nascosti in Vaticano. La filiera era stata studiata e pianificata al dettaglio. Come affermato da G. Preziosi nell’articolo già menzionato, uno degli organizzatori di questa rete è stato un collaboratore di De Gasperi, nonché futuro segretario della Democrazia Cristiana, Guido Gonnella, il quale provvedeva a recapitare una busta contenente le false carte d’identità stampate nella tipografia delle suore benedettine all’edicola dei giornali che si trovava nei pressi del colonnato di piazza San Pietro. Dall’edicola, la busta veniva immediatamente prelevata e portata in Vaticano dove si procedeva a regolarizzare i documenti; dopodiché il plico faceva il percorso inverso per ritornare al mittente. Affinché la protezione non venisse scoperta, tutti coloro che ne beneficiarono, avevano delle regole da osservare e dei comportamenti da tenere. A un segnale prestabilito e convenzionale, in caso di pericolo, passando per un accesso segreto, tutti gli “ospiti” si dileguavano nelle vicine catacombe dove restavano fin quando l’allarme cessava. Nell’articolo, comparso sul quotidiano della Santa Sede, si ricordano alcuni perseguitati che hanno beneficiato della protezione. Si menziona uno dei Visconti di Modrone di Milano e Lorenzo Camerino; quest’ultimo, di origine ebraica, beneficiò della protezione delle oblate di Priscilla assieme alla sua famiglia composta dalla moglie, Maria Molon, e dalla figlia Francesca, che al tempo dei rastrellamenti era soltanto una bambina dell’età di cinque anni. La famiglia Camerino rimase nascosta presso le catacombe di Priscilla fino al termine della guerra. Detta notizia si evince da una lettera che la signora Maria Molon scrisse alle suore, da Venezia, in occasione del Natale del 1945. La donna scrisse questa lettera in ricordo del Natale 1943 trascorso nella casa di Priscilla. Rivolgendosi alla Madre Reverenda, come riportato nell’articolo di G. Preziosi, scrisse “Il ritorno nella mia casa e la gioia di ritrovare i miei cari non mi hanno fatto mai dimenticare e tanto meno mi fanno dimenticare ora che si avvicina il Santo Natale, Lei e tutte le Suore di Priscilla. La bontà veramente ispirata dal Signore, che è stata per noi tutti fonte di coraggio e di speranza in uno dei momenti più tragici della nostra vita, ha lasciato nel nostro cuore e nella nostra mente un’impronta che è diventata la regola cui vorremmo conformare la nostra esistenza. Purtroppo le contingenze del vivere quotidiano ci fanno tanto spesso sentire invece quanto il costume delle buone Sorelle sia lontano dal nostro. E per questo davvero tante volte vorremmo essere più vicini a Voi tutte per poter ancora dividere della Vostra serenità. È così vivo in tutti noi il ricordo del Natale trascorso nella Casa di Priscilla che in ogni ora di queste nostre giornate riviviamo quella Festa del 1943 che è stata, nonostante la tragicità dell’epoca, d’indimenticabile serenità”. Nella lettera, la signora Molon, ricorda l’animo puro di monsignor Belvederi, considerato da tutta la famiglia come un vero Padre. Un padre, con grandezza d’animo, di bontà e di cultura; un padre che si è messo al servizio dell’umanità e di tutti i perseguitati. Oltre alla famiglia Camerino, per un lasso di tempo più breve, è ospite della casa di Priscilla, il professor Giorgio Del Vecchio, un accademico di origini ebraiche, docente di filosofia del diritto e preside della facoltà di giurisprudenza dell’università di Roma. Fu discriminato dal regime per queste sue ascendenze. Ottenne ospitalità presso le suore benedettine, assieme alla propria consorte, grazie ai buoni uffici dell’esponente democristiano Guido Gonnella. Altra ospite, fu la celebre archeologa tedesca Hermine Speier che, dall’aprile 1943, a seguito dell’estromissione dall’Istituto Archeologico Germanico, perché di origine ebraica, venne assunta da Pio XI per riordinare l’archivio fotografico dei Musei Vaticani. I rifugiati della casa di Priscilla, durante il periodo di permanenza nel monastero, poterono godere della cura e dell’attenzione che monsignor Giulio Belvederi dedicò loro. Sarà proprio don Belvederi, negli anni successivi, a riconoscere quanto sia stata importante la complicità dell’ambasciatore del Reich presso la Santa Sede, Weizsäcker, affinché la gestapo non perquisisse la casa delle suore benedettine di Priscilla. Padre Belvederi racconta di come l’ambasciatore abbia finto di non sapere della rete clandestina allestita da tanti religiosi con il consenso della Santa Sede per salvare i ricercati. L’ambasciatore Weizsäcker temeva che la deportazione degli ebrei di Roma avrebbe potuto danneggiare l’immagine della Germania favorendo la propaganda nemica. Inoltre, una eventuale protesta del Papa, avrebbe peggiorato ancor più le cose mettendo in imbarazzo i tedeschi e riducendo la possibilità di un compromesso di pace negoziato dalla Santa Sede e scatenando, forse, episodi di resistenza e di disordini pubblici. Ciò spinse l’ambasciatore Weizsäcker a fare in modo che gli ebrei fossero segretamente avvertiti per disperdersi prima di essere arrestati. Nonostante queste misure strategiche di protezione e le tattiche per nascondere i perseguitati, il 16 ottobre 1943, il “sabato nero” del ghetto di Roma, le SS invasero le strade romane e rastrellarono oltre mille ebrei. E’ la data che segna l’ultima tappa di un triste itinerario iniziato nel settembre 1938 con la promulgazione delle leggi razziali. A seguito, con la liberazione della capitale, a opera degli alleati, e il ristabilimento dell’ordine pubblico, si concluse il calvario dei tanti ebrei rifugiati, scampati al rastrellamento e alla deportazione nei lager nazisti, perché nascosti nelle varie case religiose sparse per tutta la città. Il 7 luglio 1944, fu il sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Giovanni Battista Montini, a nome del Papa, a ringraziare l’unione delle comunità israelitiche d’Italia e la comunità romana che avevano espresso la loro gratitudine e la loro riconoscenza al Pontefice Pio XII per gli sforzi profusi allo scopo di far cessare le persecuzioni razziali.

lunedì 20 novembre 2017

Presentato il Volume Dei diari brindisini di Mario Roatta







Il Direttore del Cesvam insieme al Curatore ed al Dott. 
Donato Tombale
Introdotti dal Presidente della STASI
Alessandra Sacconi
Hanno illustrato i contenuti
Del Diario di
Mario Roatta
Dal 6 settembre al 31 dicembre 1943
E' seguito un interessante dibattito




domenica 19 novembre 2017

Progetto Master I Livello in Storia Militare II Fase



Sono in corso riunioni per definire l'architettura
Del Master con i preposti uffici della universita'Cusano con il fine di arrivare al protocollo di intesa per la fine di novembre


sabato 18 novembre 2017

I Campi di concentramnto in ungheria nel secondo dopoguerra

 ARCHIVIO
di Stefano Ricci
Nonostante in patria sia una delle questioni storiche più conosciute e dibattute, con un ricco seguito di interviste, documentari, monografie e pellicole cinematografiche, il tema dei campi di prigionia sovietici in Ungheria, sorti nel 1948, dopo la presa del potere da parte del Partito Ungherese dei Lavoratori, è uno degli argomenti legati all’insediamento in Europa delle cosiddette “democrazie popolari” meno tradotti all’estero di tutta la storiografia contemporanea.         
Questo, nonostante in Ungheria – come del resto in Polonia – la memoria collettiva sia molto sensibile alle deportazioni di vasti strati della propria popolazione verso i gulag sovietici, ampiamente diffusi e radicati sul territorio nazionale.   
Da Kistarcsa a Reczk, nella vasta regione dei monti Mátra, passando per Horoszlany, Varpalota e Tiszalök, sono molte le testimonianze capaci di fornirci un quadro complessivo di quel periodo, dominato quasi per intero dalla temuta Allamvedelmi Hitaval, la Sicurezza di Stato originariamente creata per punire i criminali di guerra e poi, nel 1949, trasformata in un ente svincolato dallo stesso Ministero degli Interni, col compito di eliminare ogni minaccia alla nascente dittatura di Mátyás Rákosi, procedendo all’internamento dei detenuti e amministrando i campi del nuovo regime.
Fra queste, la testimonianza più eccezionale è, senz’ombra di dubbio, quella fornitaci da György Faludy, poeta e traduttore, arrestato nel 1949, all’epoca del processo Rajk, e internato a Reczk, gulag assurto ad emblema del comunismo ungherese.          
A colpire, da subito, è l’assurdità dei motivi per cui, migliaia di ungheresi, proprio a partire dal 1949, sono stati tratti in arresto: dalle accuse di sabotaggio a quelle di trotzkismo, Faludy racconta persino di come, uno dei responsabili dell’Istituto di meteorologia, sia stato arrestato per aver un giorno annunciato una «leggera brezza proveniente da occidente» e, l’indomani, un «influsso d’aria gelida proveniente da nordest, in arrivo dall’Unione Sovietica», proprio nelle ore in cui una divisione sovietica era pronta a varcare la frontiera ungherese.           
L’internamento di Faludy a Reczk è, però, preceduto da una sosta di circa quindici giorni nel campo di transito di Kistarcsa, costruito sul modello dei campi di concentramento nazisti: alte torri di guardia, filo spinato, baracche fatiscenti, ampio cortile centrale e lettiere sovrapposte.      
Da lì, Faludy è così condotto a Reczk, che nel 1950, secondo i dati ufficiali, ospita più di 1200 detenuti; tra di loro, sindacalisti, ex ufficiali dell’esercito, quadri di vari partiti fino ad allora alleati politici dei comunisti, contadini e operai.
Faludy racconta persino di un uomo torturato per errore e portato a Reczk perché ormai troppo malconcio per esser condotto nuovamente a casa.
La vita, all’interno del campo, è dominata dal lavoro: cave e boschi costituiscono il luogo in cui i detenuti passano la maggior parte della loro giornata; i ritmi sono frenetici e numerosi sono gli incidenti e gli infortuni.       
«Un giovane ingegnere», racconta Faludy, «era stato schiacciato da una roccia che pesava parecchie tonnellate; quando la pietra aveva incominciato a rotolare, i suoi vicini avevano gridato per avvertirlo […] l’uomo aveva alzato lo sguardo e sarebbe potuto fuggire, ma era rimasto al suo posto abbassando il capo con aria rassegnata».           
Un modo disperato per evitare, almeno per un paio di giorni, il massacro fisico di un lavoro il cui scopo non è la produzione, ma l’indebolimento psicologico, è la tufta, una pratica consistente nell’ingoiare pezzi di metallo, chiodi o lamette per esser ricoverati d’urgenza nell’ospedale del campo e ricevere, così, maggiore riposo e pasti più abbondanti.    
Proprio la denutrizione, infatti, è la prima causa di morte all’interno del campo; gli alimenti sono poveri e con poche calorie, inadatti pertanto ad una vita di fatiche: la colazione consiste solo di una tazza di surrogato di caffè d’orzo, mentre il pranzo prevede una zuppa di legumi da consumare in piedi, sul luogo di lavoro; per cena, invece, solo un po’ di verdura e 500 grammi di pane (spesso, però, la verdura è insufficiente per tutti e, al suo posto, vengono serviti piselli secchi destinati al bestiame).  
Come nota uno dei medici del campo: «con queste razioni, considerando le condizioni di lavoro e psicologiche, nel giro di un anno tutti i prigionieri saranno morti di fame, eccetto ovviamente quelli che non lavorano […] tra 12 mesi, il 95% dei detenuti saranno morti, tra sei cominceremo a registrare le prime perdite […] tra nove mesi, la gente morirà come le mosche d’autunno».
A complicare un quadro di per sé già precario, poi, concorrono delle condizioni igieniche totalmente deplorevoli: come riportano molteplici fonti, ai prigionieri non è mai concesso di lavarsi, salvo una volta al mese, quando, ogni due persone, viene loro consegnato un solo pezzo di sapone di Marsiglia. 
Le docce, infatti, verranno installate solo nel 1952, poiché quando a Reczk giungono i primi prigionieri, nel 1949, le tubature dell’acqua non erano ancora state installate.         
           
Per tutti questi motivi, Reczk è stato più volte definito il “campo della morte lenta”.      
Si cerca di reagire organizzando dibattiti filosofici, impartendo lezioni di matematica, raccontandosi libri letti in passato o semplicemente chiacchierando sul lavoro svolto in precedenza; si cerca, inoltre, di avere notizie dall’esterno sbirciando quei pochi giornali che i guardiani usano al gabinetto.  
Proprio in questo modo, ricorda Faludy, i prigionieri  seguono l’andamento della Guerra di Corea e le Olimpiadi di Helsinki e, sempre in questo modo, apprendono – speranzosi – dell’elezione alla Casa Bianca di Dwight Eisenhower.           
Non mancano le evasioni, puntualmente sventate; Faludy, nei suoi scritti, ne ricorda una conclusasi poche settimane più tardi, con il ritorno di tutti i fuggiaschi nel campo di Reczk.    
Le punizioni per un simile gesto variano dalle percosse, la cui esecuzione è affidata ai “kapo”, capibaracca spesso esentati dal lavoro o adibiti alla registrazione dell’ingresso dei detenuti nelle latrine, all’isolamento, consistente nella reclusione dei detenuti, per diverse ore, all’interno di piccoli stanzini di quattro metri quadri, senza riscaldamento, picchiati o spruzzati d’acqua gelida per mano dei guardiani, a seconda del loro umore.   
Nei casi d’insubordinazione più gravi, poi, il prigioniero, oltre che esser punito con l’isolamento, veniva anche legato ad un bastone passante dietro le proprie gambe; una pratica, questa, che alla reclusione univa anche la tortura. 
I detenuti di Reczk sperano così in un intervento occidentale: eventi come l’elezione di Churchill o la rivolta degli operai di Berlino vengono accolti con applausi ed esplosioni di gioia, specie quando nei gulag si diffonde la notizia della morte di Stalin. 
Le speranze, però, lasciano presto il posto alla disillusione ed alla disperazione; ogni trasgressione viene fermamente punita con una permanenza in cella d’indefinibile durata, dove si ricevono pasti ridotti.  
Presto, denutrizione e mancanza d’igiene portano anche alla comparsa di malattie, perlopiù infettive.
I malati vengono condotti nel piccolo ospedale da campo, diretto da medici anch’essi prigionieri, mentre quelli più gravi vengono trasferiti a Budapest, spesso senza far più ritorno.  
Un illustre osservatore come Elémer Földàry – Boér racconta la storia di un anziano prigioniero deceduto per mancanza di cure, poiché la penicillina destinata a salvarlo era stata utilizzata poco prima per curare il cane di un guardiano.      
La situazione, seppur microscopicamente, migliora a partire dal 1953, quando le razioni alimentari divengono più abbondanti e vengono sciolte le “brigate disciplinari” del campo, composte da teste calde e scansafatiche, costretti a dormire per terra in una baracca speciale.     
Alcuni osservatori, come Benko Zoltan, hanno collegato queste migliorie con la richiesta da parte ungherese di aderire all’ONU, ma è forse più corretto sostenere che esse siano il frutto del clima distensivo inaugurato da Imre Nagy nel luglio del ’53, quando piccoli gruppi di detenuti vengono persino rimessi in libertà; sempre Nagy, nello stesso anno, ordinerà infatti lo smantellamento totale e immediato dei campi d’internamento.    
All’uscita, come Joël Kotek e Pierre Rigoulot hanno sapientemente analizzato nel loro immenso lavoro, Il Secolo dei Campi, «si assiste ad uno spettacolo unico nella storia dei campi del XX secolo […] i detenuti liberati devono passare lentamente davanti ad un magistrato che ripete a ciascuno: “in nome della Repubblica popolare ungherese, intendo porgerle delle scuse per le ingiustizie, i torti e le umiliazioni che ha dovuto subire”».      
Oltre a Reczk, sempre nel 1953 furono smantellati anche i rimanenti campi d’internamento; secondo fonti ufficiali se ne contavano circa un centinaio, alle strette dipendenze del Ministero degli Interni, per un totale di oltre 44.000 detenuti politici, 10.000 dei quali lavoravano per il Ministero dei Lavori Pubblici.           
A questi dati, poi, devono essere aggiunti anche quelli legati al numero di ungheresi che, come accaduto in moltissimi altri paesi facenti parte del blocco sovietico, hanno conosciuto tutta la tragicità delle cosiddette “deportazioni interne”, organizzate dalle autorità centrali con lo scopo di ripopolare alcune zone situate ad est di Budapest, nella regione dell’Alföld, meglio conosciuta come Grande Pianura Ungherese, cuore geografico del più vasto Bacino Pannonico.      


info:centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org

venerdì 17 novembre 2017

Appuntamento a Tarquinia. Sabato 18 novembre 2018

ATTIVITA' CESVAM


I GIORNI TRAGICI DELL’ARMISTIZIO NEL DIARIO SEGRETO DEL GENERALE MARIO ROATTA. INCONTRO ALLA SOCIETÀ TARQUINENSE D’ARTE E STORIA-18 NOVEMBRE ORE 16,30

Sabato 18 novembre,
 ore 16. 30 

alla Società Tarquinense d’arte e storia 
(via delle Torri, 33 – Tarquinia) 
presentazione del libro Mario Roatta. 

Diario. 
6 settembre – 31 dicembre 1943, 

a cura di Francesco Fochetti ( Mursia).

Partecipano: Alessandra Sileoni, presidente della Società Tarquiniense d’Arte e Storia;
Donato Tamblè, professore e dirigente MiBACT, vicepresidente Società Italiana di Storia Militare; Massimo Coltrinari, generale 
Francesco Fochetti, archivista storico e curatore del volume






























Sei metri lineari di documenti, appunti, diari, fotografie: a quasi cinquant’anni dalla sua morte ritrovato l’archivio del generale Mario Roatta, Capo di Stato maggiore dell’Esercito italiano, membro del Consiglio della Corona, tra i protagonisti più discussi del Ventennio e soprattutto dell’8 settembre e del periodo del Governo brindisino. L’importante scoperta si deve all’archivista storico Francesco Fochetti che, con una complessa e delicata operazione di raccolta di informazioni e contatti con gli eredi, è riuscito a individuare e recuperare l’archivio segreto del generale e , in collaborazione con la Soprintendenza archivistica del Lazio, portare a buon fine le pratiche per il riconoscimento del Notevole interesse storico.
Fochetti ha curato la pubblicazione per Mursia del primo volume dei Diari di Roatta, relativo al periodo 6 settembre – 31 dicembre 1943. (Mario Roatta, Diario. 6 settembre- 31 dicembre 1943. A cura di Francesco Fochetti. Con inserto fotografico. Euro 21,00, Mursia).
Delle carte di Roatta si supponeva l’esistenza, ma le vicende giudiziarie post belliche che investirono il generale - accuse per le presunte attività illegali del SIM, Servizio Informazioni Militari, compreso il coinvolgimento nell’omicidio dei fratelli Rosselli nel 1937, per la mancata difesa di Roma nei giorni dell’8 settembre 1943 e l’inchiesta sulla presunta condotta inumana al comando della II Armata in Croazia -   lo indussero a seppellire, moralmente e materialmente, l’archivio.
Con la pubblicazione del primo volume  del diario e altre che seguiranno, questo prezioso archivio viene ora messo a disposizione degli studiosi e del pubblico, dopo un rigoroso processo di ricomposizione e trascrizione.
Nel diario del 1943, scritto nell’immediatezza degli avvenimenti, emergono con evidenza il caos dei comandi delle Forze Armate, le incertezze del Re pronto a smentire il governo sull’Armistizio, la mancanza di informazioni che i vertici militari e politici avevano su quello che stava avvenendo a Roma o nei Balcani dove si consumava, tra le altre, la tragedia di Cefalonia. E ancora: le trattative con Eisenhower  per il cosiddetto «Armistizio lungo», i complicati rapporti con i nuovi alleati, i dettagli privati e quotidiani del governo provvisorio a Brindisi. Roatta assiste alla caduta di un mondo dalle cui rovine verrà travolto: il governo jugoslavo lo accusa di crimini di guerra. Il maresciallo Tito vuole la sua testa, gli alleati premono e Badoglio la servirà loro su un piatto d’argento.



Biografia Mario Roatta

Il generale Mario Roatta nasce a Modena il 2 gennaio 1887 da Maria Antonietta Richard, originaria di Doussard nell’Alta Savoia e da Giovan Battista Roatta, militare di carriera del Regio Esercito. Frequentata l’Accademia di Modena e si perfeziona nell’uso delle lingue, soprattutto in Germania. Nella Prima Guerra mondiale, col grado di capitano, combatte su numerosi fronti; pluridecorato e con il grado di tenente colonnello, a febbraio 1919 è inviato a Berlino, per organizzare il rimpatrio dei prigionieri, redigere rapporti sull’esercito tedesco e sulla rivolta Spartachista. A luglio fa parte della «Commissione militare interalleata di controllo», di Versailles. Sposa nel 1922 Ines Mancini, comanda col grado di colonnello, la «Scuola centrale di fanteria» di Civitavecchia e dal 1926 al 1930 è addetto militare a Varsavia (dove trasferisce la sua famiglia, accresciuta nel  1928 dalla nascita del figlio Sergio), con competenze su Lettonia, Estonia, Finlandia. Nel 1930 viene nominato comandante dell’«84°reggimento di fanteria» e poi al Corpo d’armata di Bari. Il 15 gennaio 1934 assume la carica di capo del SIM (Servizio di Informazioni Militare) di cui, con un’opera di riorganizzazione e miglioramento tecnologico migliorerà l’efficienza, e per questo in seguito promosso al grado di  generale. Nominato nel 1936 Capo missione nel corpo militare inviato in Spagna, assumerà la falsa identità di Mancini Roberto, lasciando quindi il comando del SIM al vicecapo Angioy. Rimpatriato a dicembre 1938 in seguito al ferimento durante la battaglia di Malaga, è poi nominato generale di divisione. Inviato come addetto militare a Berlino da luglio a novembre 1939, il 16 novembre è nominato Sottocapo di Stato Maggiore, dal 24 marzo 1941 al 20 gennaio 1942 è Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, quindi generale al comando della II armata in Croazia fino al 10 febbraio 1943, quando viene destinato al comando della VI armata in Sicilia. Il 1° giugno 1943 è nuovamente Capo di Stato Maggiore dell’Esercito; membro del Consiglio della Corona, in seguito all’armistizio, il 9 settembre si trasferisce a Brindisi, con gli Stati Maggiori e il governo, al seguito del Re. Destituito l’11 novembre dalla sua carica, per le pressioni esercitate sui governi alleati da Tito, comandante dell’«Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia»,  per presunti crimini durante il comando della II armata in Croazia. Ritornato a Roma, sottoposto a inchiesta dalla Commissione per la mancata difesa di Roma, il 16 novembre 1944 viene arrestato negli uffici dell’Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo e poi  processato per le presunte attività illegali del SIM ( compreso il coinvolgimento nell’omicidio dei fratelli Rosselli nel 1937). Ricoverato nell’Ospedale militare Virgilio, la sera del 4 marzo 1945 evade, sottraendosi alla sentenza di condanna all’ergastolo del 12 marzo 1945, iniziando così una lunga latitanza. Il 6 marzo 1948 la Cassazione annulla la sentenza, il 19 febbraio 1949 il Tribunale militare di Roma stabilisce di non procedere contro le accuse di resa colposa e abbandono di comando e nel 1951 la Procura militare archivia l’istruttoria per i presunti crimini di Guerra. Presente in Spagna dal 1948, vi resterà fino al rientro definitivo nel 1967 a Roma, dove muore il 6 gennaio 1968.




Francesco Fochetti, curatore.
Archivista storico, si occupa di tutela delle fonti documentali conservate in istituzioni pubbliche e private. Nominato dal 2007 Ispettore archivistico onorario dalla Direzione Generale per gli archivi, è autore del recente rinvenimento dell’archivio del generale Mario Roatta, di cui, in sinergia con la Soprintendenza archivistica e bibliografica del Lazio, ha curato la Dichiarazione di notevole interesse storico,  procedendo allo studio analitico e alla pubblicazione delle parti più rilevanti.
Per informazioni: ufficio stampa Mursia – 0227727326 –email: press@mursia.com




giovedì 16 novembre 2017

Secondo dopoguerra. Problemi irrisolti

APPROFONDIMENTI

1945-1951: per gli ebrei continua la vita nei campi

di
Salvatore Rizzi



All’indomani della fine della seconda guerra mondiale in tutta Europa erano presenti fino a 10 milioni di persone - tra prigionieri di guerra, internati, civili in fuga - che dovevano fare ritorno alle rispettive case. Un flusso migratorio di vaste proporzioni che necessitava di un’organizzazione internazionale per i rimpatri. Gli Alleati così si affidarono all’United Nations Relief and Rehabilitation Administration (UNRRA), agenzia di soccorso creata ad hoc già nel 1943 per coordinare le misure di espatrio dei paesi interessati, per ricollocare dunque quelli che erano chiamati i Displaced Persons (DPs) - la definizione tecnica, data dal sociologo E.M. Kulisher, - per profughi di guerra. Il lavoro dell’agenzia permise che la grande maggioranza di essi riuscisse a tornare nel proprio paese di origine già dal settembre 1945. Facevano eccezione però all’incirca un milione di persone dislocate tra Germania, Austria e Italia che rifiutavano di abbandonare il paese nemico per motivi politici (perseguitati in patria perché collaborazionisti o anticomunisti). E in più vi erano bloccati anche 100000 ebrei, sopravvissuti alla Shoah nei campi di concentramento, impossibilitati a emigrare nei propri paesi e recuperare le proprie abitazioni nell’intento di ricostruire nuclei familiari e comunità; numero che si andava a sommare ai circa 600000 ebrei dalla nazionalità dubbia che da apolidi de facto cercavano di trovare rifugio in Palestina, dove si stava costituendo il “focolare ebraico nazionale” ad opera dell’Agenzia Ebraica di Ben Gurion.
Gli ebrei perseguitati dal nazismo furono quindi costretti a restare, per disposizioni contingenti all’emergenza da parte dei Comandi Alleati, negli ex territori del Terzo Reich occupati dalle forze alleate, e vennero alloggiati in speciali centri di accoglienza temporanei del tutto simili nell’architettura ai campi di internamento dove erano stati rinchiusi a partire dal 1939. Il maggior numero di campi profughi si trovava nella zona occupata dagli americani, ossia il centro-sud della Germania e parte dell’Austria occidentale, da Ziegenhain nel Palatinato, fino a Salisburgo. I campi più importanti come quello di Dachau, Feldafing e Landsberg accoglievano rispettivamente fino a 2190, 3309 e 5000 profughi: in totale nella zona americana i rifugiati ebrei del 1946 nella lunga attesa del rimpatrio – e che sarebbero transitati in parte nei campi - furono più di 175000 contro i poco più dei 28000 della zona britannica e i 1500 di quella francese. Il campo più importante di DPs, però, fu quello di Bergen-Belsen, nella Bassa Sassonia a giurisdizione inglese, che ospitò fino a 11000 profughi ebrei quando nel 1946 passò sotto l’autorità dell’UNRRA. La detenzione in questi campi, seppur con la qualifica di profughi, per gli ebrei fu comunque dura e non solo per la perpetuazione della prigionia sotto altre forme. Si consideri la durata dei nuovi internamenti: alcuni campi resteranno operativi fino al 1951. E poi per l’indeterminatezza della condizione: pur godendo di una particolare tutela dal diritto internazionale per mezzo dell’UNRRA, venivano considerati dai militari alla stregua di criminali da tenere sotto controllo dall’esterno dei reticolati. Come ebbe a dire già nell’agosto del 1945 – ad appena tre mesi dalla caduta del Terzo Reich -  il procuratore E.G. Harrison, incaricato dal presidente americano H. Truman di stilare un resoconto sulla condizione dei rifugiati: “Stiamo trattando gli ebrei come hanno fatto i nazisti sostituendoci a loro nella sorveglianza”.
Questa indefinita condizione di profughi-internati nei campi era data dai nuovi scenari geopolitici che si stavano delineando sulle macerie del potere nazista, e che vedeva coinvolte le forze vincitrici della seconda guerra mondiale: Stati Uniti e Gran Bretagna in testa. Le leggi stringenti sull’emigrazione non permettevano agli ebrei traversate oceaniche per trovare ospitalità in Canada o negli Stati Uniti. Lo spaventoso numero di possibili immigrati in Palestina impediva alla stessa Gran Bretagna di concedere tali e tanti visti e passaporti del territorio sotto suo mandato poiché si voleva scongiurare da una parte la destabilizzazione di una regione a totale confessione islamica con una forte e imposta presenza ebraica, e dell’altra impedire possibili infiltrazioni comuniste date dai profughi originari dell’Est Europa. Fino a quando lo Stato di Israele non si costituì ufficialmente nel 1948, dando inizio ad un esodo regolamentato dei rifugiati, i profughi e gli immigrati clandestini non trovarono che accoglienza forzata nei campi.
E non solo in quelli tedeschi. Centri di detenzione temporanea nacquero o si perpetuarono anche nella stessa Palestina a causa della costante immigrazione clandestina, fenomeno che era iniziato con la guerra stessa. Ed è così che gli ebrei erranti nella Germania post-bellica che cercavano di raggiungere la Palestina venivano intercettati dalle autorità inglesi – per lo più su navi - è rinchiusi nel campo di Atlit, luogo di detenzione già creato nel 1938 a sud di Haifa, sulla sponda orientale del Mediterraneo, a soli duecento chilometri da Gerusalemme. Seppur imprigionati questi ebrei erano comunque vicino alla loro Patria Ideale, in una condizione psicologica migliore rispetto a coloro che erano internati in Germania. Per il resto vivevano in baracche in lamiere dalle forti escursioni termiche, sempre sovraffollate, o in tende di fortuna allestite quando le baracche erano insufficienti. Atlit divenne infine un campo profughi con 5000 internati stabili, segno che i flussi migratori clandestini erano corposi e soprattutto continui, guidati dall’influenza dell’Agenzia Ebraica. Gli inglesi risposero impedendo la detenzione dei profughi su territorio palestinese e nell’estate del 1946 aprirono nuovi campi sull’isola di Cipro, sul versante sudorientale, a Caraolos e a Xylotymbu. Da allora Cipro detenne fino al gennaio 1949 nei propri campi circa il 67% dell’immigrazione clandestina totale ebraica verso la Palestina.  In pochi mesi, nel 1946 Cipro era stata inondata da 15000 profughi nullatenenti e con una media di 750 arrivi al mese, in due anni e mezzo, l’isola avrebbe trattenuto un totale di 51500 persone. Oltre a impegnare le forze britanniche nella difesa dei flussi migratori sui territori a mandato – dato che l’esercito di Sua Maestà impiegò 100000 unità a difesa della Palestina - le lobby ebraiche cercarono di gestire e influenzare contemporaneamente più fronti critici.
La strategia sionista fu quella di forzare le resistenze britanniche sull’approdo ebraico in Palestina anche attraverso i campi di internamento statunitensi su suolo tedesco, facendo pressioni indirette agli americani. Già nell’inverno del 1946 si dovettero allestire undici nuovi campi per ricevere la quasi totalità degli ebrei profughi nella zona a giurisdizione statunitense. In un solo anno dalla fine delle ostilità in Europa in questi campi si affollarono 142000 ebrei. La situazione si aggravò con le notizie di sommosse antisemite nell’Europa dell’Est al ritorno degli ebrei. In poco tempo in Germania e Austria trovarono rifugio 226000 DPs, che – nonostante i tentativi di ostruzionismo americano che negavano vitto e alloggio nei campi per i nuovi arrivati – alla fine del 1947 divennero 250000 sui 463000 ebrei in diaspora in tutta l’Europa. Gli Stati Uniti d’America capirono che la questione palestinese andava risolta al più presto per non aggravare ulteriormente il peso dei rifugiati sul continente europeo e le loro condizioni di vita nei campi. La divisione della Palestina - metà araba, meta ebraica, con due Stati Nazionali ben distinti - andava attuata al più presto. Come disse il Segretario di Stato americano D. Acheson già nell’agosto 1946: “La spartizione della Palestina è l’unico modo per sveltire l’emigrazione”. La divisione venne approvata, con il piano redatto dall’United Nations Special Committee on Palestine (UNSCOP), dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 29 novembre del 1947. Dall’estate del 1948, dopo la costituzione dello Stato di Israele e il ritiro del mandato britannico sulla Palestina, a 20000 ebrei sarà permesso di lasciare i campi di detenzione a Cipro e recarsi nella nuova patria. Seguiranno poi i rilasci di passaporto anche agli ebrei detenuti in Europa che svuoteranno man mano i campi.
In questi ulteriori sei anni di detenzione dalla fine della guerra sul teatro europeo (1945-1951), la vita quotidiana degli ebrei internati si svolse esclusivamente all’interno delle mura perimetrate dal filo spinato, svestendo la divisa a righe della prigionia nazista e indossando abiti civili. I controlli all’interno dei campi erano tali che l’autorganizzazione dello spazio vitale dei profughi era “libera” di fluire. Pur frustrati dalla perdita o la dispersione dei propri cari che aveva causato lo sradicamento dell’istituzione familiare – tant’è che l’UNRRA creerà un’apposita sezione per la ricerca dei dispersi favorendone il congiungimento – gli abitanti dei campi di internamento post-nazisti fecero nascere all’interno di essi nuovi nuclei sociali, rendendo più fluide le relazioni. Fenomenologia sociale che era notabile soprattutto nei grandi campi, come quello di Bergen-Belsen. Dopo i primi mesi di ambientamento, già dal secondo anno, le coppie che si formavano tra DPs vantavano un tasso di natalità tra i più alti al mondo. Decine di famiglie si formavano quotidianamente, tanto da celebrarsi tra i 20 e i 30 matrimoni al giorno. La vita sociale, culturale e politica prosperò da subito nei campi. Si crearono fazioni politiche e rappresentanze comunitarie forti e influenti. Capaci per esempio di organizzare rivolte o proteste collettive esemplari come lo sciopero della fame per la durezza delle condizioni di vita. A Bergen-Belsen si creò perfino una gerarchia politico-amministrativa definita: con 40 comunità distinte che eleggevano i propri rappresentanti in un Comitato esecutivo atto a fare pressioni nell’avere le autorizzazioni necessarie a raggiungere la Palestina. Nel campo inglese venne addirittura stampato un giornale quotidiano.

Dall’osservazione dell’organizzazione della vita quotidiana nei campi si intuisce come gli ebrei, nei lunghi periodi di detenzione si preparassero a tornare ad una agognata normalità nella loro Eretz Israel (Terra di Israele) nella speranza di accorciare i tempi di detenzione. Gli uomini e le donne si istruirono nei mestieri più utili insegnati attraverso l’attivazione di veri e propri corsi: falegnameria, maglieria, sartoria, scrittura a macchina, radiomontaggio, lavorazione del ferro, etc. Così facendo I DPs avrebbero potuto chiedere - e ottenere più facilmente - un permesso di emigrazione per motivi di lavoro. La determinazione però con la quale gli ebrei rifugiati cercarono di imporre il proprio diritto a tornare nelle proprie terre di origine e rifondare una comunità, oppure a insediarsi in Palestina - permettendo così all’Agenzia Ebraica di fare richieste sempre più pressanti a Gran Bretagna e Stati Uniti – è testimoniata dall’educazione dei bambini.  La popolazione giovanile dei campi, seppur la più debole perché soggetta a malattie, andava a “scuola”. Già minati nelle coscienze per via della mancata percezione di differenza di trattamento tra carnefici e salvatori, i bambini che erano riusciti a sopravvivere allo sterminio dovevano obbligatoriamente – per quanto fosse poi possibile –  recuperare il tempo di studio perso. Nella sola Bergen-Belsen per esempio, già nel luglio del 1945 si era formata una scuola elementare di 340 alunni che sarebbe stata affiancata a breve da una scuola superiore professionale. Non mancava la biblioteca, ma scarseggiavano i maestri. L’UNRRA organizzò così dei brevi seminari formativi di alcune settimane  per i futuri maestri. Le materie sulle quali vennero formati gli insegnanti erano diverse ma sempre riconducibili all’instaurazione nelle coscienze dei fanciulli dell’identità ebraica. Tra il 1945 e il 1951 sarebbero state insegnate alle nuove generazioni di ebrei, che avevano conosciuto la vita solo tra reticolati e alti muri: l’ebraico, la letteratura ebraica, la storia ebraica, la storia del sionismo, la Bibbia, la sociologia, la psicologia, la cooperazione, l’organizzazione dei kibbutz, la geologia, la biologia, l’igiene, e – meta ultima, obbiettivo finale dei DPs ebrei – la geografia della Palestina. I genitori dei bambini desideravano che i figli ricevessero una rigida educazione da scuola rabbinica e il programma educativo elencato era utile ai leader dei campi profughi per impostare un’ ideologia sionista necessaria ai bambini nel futura prossima vita in Israele.


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