Il blog è espressione del Centro Studi sul Valore Militare - Ce.S.Va.M.- istituito il 25 settembre 2014 dal Consiglio Nazionale dell'Istituto del Nastro Azzurro fra Combattenti Decorati al Valore Militare.Lo scopo del CEsVAM è quello di promuovere studi sul Valore Militare.E' anche la continuazione on line della Rivista "Quaderni" del Nastro Azzurro. Il Blog è curato dal Direttore del CEsVAN, Gen. Dott. Massimo Coltrinari (direttore.cesvam@istitutonastroazzurro.org)
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martedì 28 novembre 2017
Editoriale Novembre 2017
Divulgazione e Scientificità.
Nel chiudere questo numero di Quaderni on line non si può non ribadire la funzione propria di tale iniziativa che è quella di raggiungere la massima divulgazione dei temi di storia e storia militare incentrati sul concetto del "valore militare". Tali temi hanno nella vesta cartacea "Quaderni del Nastro Azzurro" lo specifico approfondimento proprio del dibattito accademico. Questo dato occorre sottolinearlo li dove ci si trova di fronte a saggi, saggi brevi e articoli di una certa consistenza, che però non hanno i crismi della scientificità accademica, ma quelli della informazione, della divulgazione.
Per questo Quaderni on Line sono lo strumento di propaganda ideale per questo genere di lavori e quindi integra il lavoro di ricerca ed approfondimento che è in pieno svolgimento.
Su questa scia dal mese di dicembre inizia la fase finale della predisposizione del Dizionario Minimo della Grande Guerra che sarà un banco di prova della consistenza culturale dell'Istituto. Tutti i presidenti i consiglieri ed i soci, naturalmente opportunamente valutati, saranno chiamati a dare il loro contributo in quanto questa opera deve essere un opera corale, a guida CESVAM, che dovrà caratterizzare l'anno 2018, centenario della vittoria nella Grande Guerra.
Massimo Coltrinari
(direttore.cesvam@istitutonastroazzurro.org
domenica 26 novembre 2017
Pistoia. Mostra Sulla Grande Guerra
A Margine della conferenza sul Terzo Anno di Guerra si e visita a Pistoia la mostra dedicata ai profughi veneti in Toscana a seguito della ritirata di Caporetto
Mostra valuta e documentata che illustra un aspetto del 1917 molto sentito ed importante per il fronte interno
Il Presidente Bernini Ha avviato con il CESVaM un intenso rapporto che ha visto il realizzarsi di questa conferenza e proseguirà' cin il Progetto Albania nel prossimo 2018
sabato 25 novembre 2017
Prigionia Militare Italiana in mano degli Stati Uniti. Seconda Guerra Mondiale
MUSEI, ARCHIVI, BIBLIOTECHE
Hereford.
Documento redatto in data 17 agosto 1945, dal
maggiore medico prof. Luigi Cabitto, sanitario del Compound 4 del Campo di
Hereford (Texas), e dal gen. Nazzareno Scattaglia, intermediario dello stesso
Campo, inviato il 25 dello stesso mese all'Ambasciatore d'ltalia a Washington,
Alberto Tarchiani, e per conoscenza alla Delegazione americana della Croce
Rossa Internazionale.
Nella mia qualità di sanitario di questo
Compound è mio dovere riferire alla S. V. la scarsa alimentazione dei
prigionieri e sui pericoli che ne possono derivare, affinché la S.V. nella sua qualità di
Fiduciario rivolga adeguato reclamo alle Autorità competenti. In linea generale, tutti indistintamente i
prigionieri del Compound 4 sono diminuiti notevolmente di peso,
diminuzione che varia da 15 a
5 chilogrammi
per persona. E' da ritenere che tale diminuzione sia, quale media, di 10 chilogrammi . La scarsità e quasi assenza totale dei grassi
(un grammo di olio ed una decina di grammi al giorno di strutto per persona)
rende difficoltata la funzione intestinale. Le stitichezze sono molto frequenti ed
ostinate, ed il ristagno di feci nell'intestino causa l'assorbimento di
sostanze tossiche del tipo delle ptomaine, e conseguenti fatti di
intossicazione. Le funzioni cardiache sono in molti prigionieri assai
precarie (toni prolungati - toni ottusi - soffi anemici - tachicardie
parossistiche - frequenti svenimenti - fatti di astenia) tanto che se
sopravvenisse qualche malattia endemica od epidemica anche non di grave entità,
potrebbe esservi insufficienza di resistenza organica da dare una mortalità
notevole. Non pochi prigionieri di età giovanile presentano disturbi
polmonari che, se fino ad oggi non possono classificarsi quali specifici,
devono tuttavia ritenersi del tipo "pretubercolare". E non si tratta qui di predisposizione
"congenita" o da vecchia data "acquisita" ma di una
predisposizione specificatamente determinata da una protratta denutrizione, e
quindi da una diminuzione generale di resistenza dell'organismo a qualsiasi
genere di malattia, a qualsiasi tipo di bacillo e specialmente al bacillo di
Koch per la sua diffusione e per la sua caratteristica resistenza quando si
trovi in un organismo, è uno dei bacilli che più facilmente possono determinare
una situazione nettamente patologica. Né è possibile tentare con
opportuni medicamenti di migliorare le situazioni organiche, poiché
all'infermeria del Compound vengono assegnate settimanalmente di medicine
adatte contro queste forme di malattia, solo sei fiale di gluconato di calcio
per quasi 900 prigionieri del Campo 4. La scarsità e la monotonia di viveri
causano anche numerosi disturbi a tipo neuritico che potrebbero, almeno
parzialmente, venire curati con vitamina B1. Ma anche questo medicamento viene
assegnato all'infermeria in scarsissima quantità. In altri tempi era
concesso comperare alla "cantina" del campo preparati vitaminici; ora
tale concessione venne abolita. Ho presentato diversi
"predisposti" all'ufficiale medico dell'ospedale americano perché
almeno a costoro venisse assegnato un vitto migliore, ma mi fu risposto che
nulla si poteva fare in loro favore. II colonnello americano Comandante del
Campo avrebbe dichiarato che, secondo gli ordini ricevuti da Washington,
dovrebbero venire assegnati ai prigionieri non lavoratori viveri di almeno
2.500 caIorie quotidiane. Un tenente colonnello che il giorno 15 agosto
1945 ispezionò il nostro campo, mi confermò questo nostro diritto, diritto del
resto che la nostra Patria paga in moneta sonante. Ora, questa cifra di
2.500 calorie è stata in due mesi e mezzo solo rare volte raggiunta, mentre
spesso si scese anche a 1.500 - 1.600 calorie. Dalle cifre da me
dedotte a seconda della tabella di Messini (Trattato di terapia clinica -
U.T.E.T. 1942) basata su ricerche del Messini stesso e di altri autori, quali
Mottazzi - Pugliese - Rondoni - Greppi - Zoia - Atwater and Woods - W. Noorden
- Koering, la media delle calorie giornaliere assegnateci nel mese di giugno
1945 è di 2.142,33; mentre quella di luglio è di 2.096. Senza tenere
conto che una parte delle verdure (cavoli-patate) è spesso guasta e deve venire
quindi gettata, e che ciò che ci viene somministrato quale carne consiste in
ossa sapientemente spolpate (estrema parte del piede di maiale - colonna
vertebrale) che non possono assolutamente più dare che pochissime calorie
quando le si faccia bollire a lungo. II loro contenuto di albumine e di grassi
è quindi minimo e praticamente trascurabile. Per maggiore precisione,
allego una tabella dei viveri assegnati nella prima quindicina di agosto 1945,
la cui media è di calorie 2.107,2 giornaliere. E' pertanto evidente
che la media va continuamente abbassandosi, ed è altrettanto evidente che il
Comando americano del Campo ci sottrae abusivamente una non piccola quantità di
viveri. Ora, se si considera con i più quotati Autori che per un
ammalato degente continuamente a letto sono necessarie da 1.700 a 1.800 calorie
quotidiane, è facile dedurre che continuando con questa grave scarsità di
viveri, si avranno gravi depauperamenti organici, tali da portare a conseguenze
spesso irreparabili e talvolta anche letali. Inoltre, i prigionieri del campo devono
provvedere alla confezione dei viveri, alla lavatura biancheria, alla pulizia
degli alloggiamenti, per cui il loro consumo di calorie va elevandosi -e non di
poco - al di sopra delle 2.000 calorie. La Convenzione di Ginevra
raccomanda che i prigionieri vengano messi in condizioni di coltivare gli
sports. Ora, per questa estrema restrizione di viveri, ogni sport venne
abolito, si che il Comando americano stesso ha ritenuto inutile tenere ancora
aperto il campo sportivo. Ritengo che - anche per la elevata altitudine
del campo - il consumo minimo per persona salga a 2.300 grandi calorie al
giorno adeguatamente divise nel necessario fabbisogno di carboidrati, albumine,
grassi. Ora, finché l'organismo ha in sé delle riserve, si avranno solo
dei dimagramenti senza conseguenze, ma, finite le riserve, avrà inizio
un'autodigestione che colpirà il fegato, i muscoli, il cuore ed infine anche il
cervello. Si avranno allora i segni caratteristici della cachessia da fame, con
tutte le sue gravissime conseguenze. Noi siamo giunti ora a questo punto, come
è dimostrato dalle frequenti neuriti gastro-intestinali, dalle comuni
vertigini, dagli svenimenti, dai disturbi intellettuali che - sinora - si
rivelano con gravi debolezze della memoria ed eccessiva difficoltà ad
apprendere. E' pertanto mio preciso dovere insistere presso la S.V. perché nella Sua qualità
di "fiduciario" del campo n° 4, faccia conoscere la situazione di
questi italiani agli Alti Comandi Americani, all'Ambasciatore d'ltalia, alla
Croce Rossa Internazionale, al Nunzio Apostolico, facendo rilevare come fra
breve tempo non sarebbe più facile ricorrere ai ripari, ma si restituirebbero
alla Patria degli individui tarati e non più idonei al duro lavoro di
ricostruzione che ci attende. Che le condizioni di vita di questo Campo
n° 4 siano gravemente insufficienti, è comprovato dal fatto, constatato dal
sig. Colonnello americano che procedette all'ispezione del 15 agosto, che le
mense delle compagnie somministrano come cibo perfino le bucce di patate
confezionate a mo' di frittata, e dal fatto che molti ufficiali tra cui per
citare il nome, il conte Foscari, si cibano di grilli e cavallette che fanno
friggere nell'olio minerale che la "cantina" vende quale
"brillantina" per capelli.
Hereford, Texas, 17 agosto 1945. II
Sanitario del Compound, Luigi Cabitto.,Professore
dottore maggiore medico.
Contatti : centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org
venerdì 24 novembre 2017
CESVAM. Ulteriore richiesta alle Federazioni
Ancona IV Novembre 2017. Cerimonia al Monumento ai Caduti
Il Presidente della Federazione di Ancona,
Mondaini,
accanto al Labaro della Federazione Provinciale di Ancona
tenuto da un marinaio in Uniforme da parata
comandato dal Comando Scuole della Marina Militare di Ancona
Come da regolamento,
il Labaro del Nastro Azzurro
è in testa di fila dello schieramento dei labari e bandiere della altre Associazioni
Come per le cerimonie
vorremmo anche per la diffusione culturale dei valori che il Nastro Azzurro istituzionalmente persegue lo stesso impegno e aderenza
Al giorno d'oggi nessun Presidente ha inviato una lista
con i nomi e gli indirizzi postali delle persone scelte a cui fa inviare, gratuitamente,
i QUADERNI DEL NASTRO AZZURRO
ripetutamente richiesta da oltre due anni.
Senza questa azione capillare le Federazioni non potranno mai fare un proselitismo di aderenza e motivazionale,
ma sopratutto non riusciranno a fare quel salto di qualità che la
istituzione del CESVAM
auspica e promuove
Si rinnova la richiesta
Ogni Presidente di Federazione ha facoltà di inviare a
centrostudicesvam@istitutonastroazzurro..org
una lista fino a dieci nomi di persone,
che sono interessate ad essere coinvolte nella attività sia locali che nazionali
del Nastro Azzurro
a cui inviare gratuitamente, dal prossimo n. 1 I Semestre 2018
la rivista
"QUADERNI DEL NASTRO AZZURRO"
Il Direttore el CESVAM
(per chiarimenti e note: A scrivere a direttore.cesvam@istitutonastroazzurro.org)
giovedì 23 novembre 2017
Theresinstad:l'ultimo degli ingiusti
APPROFONDIMENTI
di
Filippo Romeo
Era
un collaboratore o solo un disgraziato costretto ad accettare la
perversa logica che obbligava i membri dei consigli ebraici ad
amministrare la macchina di morte ai danni dei loro stessi
corregionali? Generalmente questa è la tragica domanda che si pone
chi impatta con il tema dei campi di concentramento ed, in
particolare, che analizza la figura di coloro che “gestivano” i
ghetti dai quali gli ebrei venivano deportati con un biglietto di
sola.
È
oltremodo comprensibile che la risposta data da
quanti hanno spesso veduto deportare vecchi, donne e bambini proprio
in base alla “selezione” gestita dai Consigli Ebraici
sia stata sempre e comunque caratterizzata
da giudizi molto negativi. In questo senso, il recente
documentario di Claude Lanzmann, “L’ultimo degli ingiusti”,
ha autorevolmente riportato in auge l’attenzione sull’annosa
questione concernete il ruolo avuto proprio dai citati consigli
ebraici nel compimento dello sterminio nazista, cercando di far luce
sull’assai controversa figura di Benjamin Murmelstein.
Per
cogliere il senso e la portata di ciò, occorre fare un salto
indietro nella storia.
I
consigli ebraici furono corpi amministrativi che la Germania nazista
ha imposto agli ebrei rinchiusi nei ghetti e la cui costituzione
avveniva su richiesta del capo delle SD (servizio di sicurezza delle
SS) il quale, per mezzo di una circolare, faceva richiesta ad ogni
comunità di costituire un consiglio composto da Anziani ebrei e, per
quanto possibile, dalle rimanenti personalità e rabbini.
Quest’organo di rappresentanza – meglio noto come Judenrate
– unico
responsabile del governo locale del ghetto, svolgeva l’ufficio di
eseguire con esattezza tutte le istruzioni impartite mediante le
circolari dall’amministrazione tedesca dalla quale era
completamente e letteralmente dipendente. Secondo la disposizione,
era infatti compito dei consigli ebraici attuare alla lettera gli
ordini ricevuti dal regime, per mezzo del loro presidente o del vice
eletto tra gli stessi membri del Consiglio. Più in particolare, gli
Judenrate
si occupavano dell’applicazione dei decreti delle autorità di
occupazione e si ponevano come interlocutori tra popolazione ebraica
e nazisti. In ragione di ciò erano obbligati a fornire manodopera
schiava alle industrie belliche tedesche e a collaborare alla
deportazione degli ebrei verso i campi di sterminio. Tali ingrate
mansioni li ponevano, pertanto, in una posizione di grande
responsabilità nei confronti dei loro stessi corregionali e ciò
spiega il motivo per il quale gran parte del loro incombente operato
continua tutt’oggi ad essere tema di dibattito e di discussione tra
gli storici.
Tuttavia,
se nella maggior parte dei casi l’approccio e la valutazione su
questa amara vicenda è stato negativo, ve ne sono altri in cui il
giudizio rimane “sospeso” sul presupposto che non sia affatto
semplice capire se e in che misura il loro operato, ancorché
determinato
da una collaborazione sottomessa con i nazisti nel folle piano di
stermino, sia anche consistito nel tentativo di salvare il maggior
numero di ebrei costretti nei ghetti.
La
vicenda diventa ancor più scabrosa e controversa nel caso di figure
come Mordechai Chaim Rumkowski, presidente del consiglio ebraico di
Łódź,
morto ad Auschwitz, il quale obbligò ad enormi sforzi produttivi la
popolazione, eseguendo puntualmente ordini tedeschi nella speranza di
salvare parte degli ebrei rinchiusi nel ghetto, o di Adam
Czerniaków, presidente del ghetto di Varsavia, suicidatosi nel 1942
quando non riuscì a impedire la deportazione della maggioranza degli
ebrei del ghetto. Il giudizio rimane ancora più sospeso nel caso di
Benjamin Murmelstein, l’ultimo presidente del consiglio degli
anziani del “ghetto
modello”
di Terezin dell’allora Cecoslovacchia: l’unico a sopravvivere.
Situato a circa 60 Km da Praga ed edificato nel 1941 da Adolf
Eichmann, Terezin fu considerato fin dalla sua creazione un ghetto
speciale, adibito ad accogliere inizialmente ebrei tedeschi e
cecoslovacchi destinati a rimanere in attesa della disgregazione e
dello sterminio che di lì a poco si sarebbe compiuto; una sorta di
luogo di giacenza prima dello smistamento e della deportazione nei
campi di sterminio nei territori orientali per tutti gli ebrei del
cosiddetto “Protettorato di Boemia e Moravia”. Più tardi, vi
furono deportati anche gli ebrei della Germania, Austria, Olanda e
Danimarca. Nel periodo in cui fu attivo – dal 24 novembre 1941 fino
alla liberazione avvenuta l’8 maggio 1945 – passarono per Terezin
ben 140.000 prigionieri e ne perirono circa 35.000. Fra i prigionieri
vi erano anche bambini, all’incirca 15.000 compresi i neonati.
Erano in prevalenza bambini degli ebrei cechi, deportati insieme ai
genitori, in un flusso continuo di trasporti fin dagli inizi
dell’esistenza del ghetto, di cui, dopo la guerra, ne fece ritorno
poco meno di un centinaio, tutti di età superiore ai quattordici
anni, in quanto i più piccoli morirono nel corso nel 1944 nelle
camere a gas di Auschwitz. Il ghetto di Terezin era considerato dai
Nazisti un “ghetto
modello”,
tanto da spingerli a realizzare nel 1944 il famoso film documentario
Theresienstadt,
al fine di mostrare
a una comunità allarmata dalle notizie che filtravano dai territori
occupati il modo dignitoso col quale venivano trattati gli ebrei, le
loro buone condizioni relative a cibo e cure, le attività sportive e
le iniziative culturali, quali spettacoli teatrali e cinematografici,
cui potevano partecipare. In verità, Terezin era e rimaneva un
tragico “ghetto lager” caratterizzato, al pari di luoghi simili,
dal dramma umano e dalla morte di cui proprio Murmelstein ha fornito
una lucida descrizione, raccogliendo le sue testimonianze in un libro
intitolato “Terezin.
Il ghetto-modello di Eichmann”,
edito
nel 1961 dalla Cappelli e ora ripubblicato dall’editrice La Scuola.
In questo libro, Murmelstein descrive con dovizia di particolari sia
la vita dei deportati, tra i quali personaggi prominenti
che nella “vita precedente” erano stati autorevoli politici,
artisti, studiosi, scienziati, che le caratteristiche del luogo in
cui a sopravvivere erano soprattutto i vecchi e non gli uomini in
grado di lavorare, al contrario di quanto succedeva altrove.
L’autore si sofferma a lungo sul lavoro di abbellimento del ghetto
nel 1943 in vista del film che di lì a poco sarebbe stato girato per
le descritte finalità propagandistiche. A rileggerlo oggi, dopo
avere nel corso degli anni avuto tante notizie sul martirio patito
dagli ebrei sotto il nazismo, il libro di Murmelstein non appare così
sconvolgente. Ma all’epoca si sapeva ancora poco di ciò che era
avvenuto, e le sue pagine costituirono una fonte incredibile.
Questa fonte ha acquistato nuova luce dopo la recentissima proiezione
del documentario del regista Claude Lanzmann basato sull’intervista
a lui rilasciata da Murmelstein nel 1975 a Roma. In questo
documentario il protagonista aggiunge ulteriori particolari, giudizi
e, soprattutto, parla di sé nell’intento (verosimilmente) di
spiegare la sua posizione nel tentativo ammorbidire
la visione di quanti lo giudicavano aspramente. Nei suoi racconti
mette in luce, senza filtri, il terribile dilemma di fronte al quale,
suo malgrado, era stato posto: salvare il ghetto, e quindi la vita
quantomeno di una parte dei suoi abitanti a spese dell’altra parte,
oppure non eseguire gli ordini lasciando che tutto fosse distrutto.
Dalla sua testimonianza, inoltre, emerge, anche con evidenza, il
conflitto interno ai nazisti fra quanti erano interessati, in vista
della sconfitta, a trattare con gli Alleati usando la vita degli
ebrei come ostaggio e quanti, al contrario, volevano la loro
eliminazione totale.
Mulmelstein,
che nel dopoguerra fu imprigionato dai comunisti cechi, processato
con l’accusa di aver collaborato coi nazisti e poi assolto (anche
se le accuse di collaborazionismo mosse dalla comunità ebraica lo
segnarono a vita nonostante l’esito del processo) si è stabilito
nel 1947 a Roma dove morì nel 1989 dopo lunghe sofferenze e dove gli
fu negato il
diritto ad una tomba nel cimitero ebraico della capitale. A porre
seccamente il veto fu l’allora rabbino capo Elio Toaff, che
già nel 1983 gli aveva negato l’iscrizione alla Comunità, il
quale vietò addirittura al figlio di recitare in Sinagoga la
preghiera in ricordo del padre, perché avesse “parte del mondo
futuro”. Una posizione, quella di Toaff,
motivata sulla base di tutte le informazioni negative sul conto di
Murmelstein,
una tra tutte proprio quella di essere
stato l’unico jewish
elder di Tereniz
– definizione nazista – ad
essere
sopravvissuto a differenza dei suoi sfortunati predecessori (Jacob
Edelstein e Paul Eppstein) che furono giustiziati dai nazisti di
fronte alle mogli e ai figli. Murmelstein, da allora apostrofato con
l’epiteto di “Murmelschwein” il collaborazionista, rimane nella
memoria come il kapò di quella città che “Hitler
aveva donato agli ebrei”
e sulla quale aveva costruito un modello di ghetto per ingannare il
mondo.
Ad
offuscare ancora di più la sua figura anche quel suo passato che,
parrebbe, sia stato caratterizzato da una collaborazione con Adolf
Eichmann che incaricò il rabbino di deportare gli ebrei di Vienna
verso il ghetto cecoslovacco, e dall’avergli impartito lezioni di
ebraico.
Secondo
alcuni Murmelstein, invece, fu uomo pragmatico, temerario, capace di
far leva sui punti deboli dei suoi carnefici, su quei nazisti che
avrebbero voluto fare di lui un burattino che egli aveva finto di
essere per poter meglio giocarli, fino a sfruttare la cupidigia di
Eichmann per i soldi riuscendo a patteggiare per far emigrare da
Terezin ben 121.000 ebrei.
Oggi,
quindi, far luce sulla figura storica di Murmelstein significa
parlare di giustizia della memoria, per riabilitare colui a cui –
lo ricordiamo – fu negata una tomba al cimitero ebraico di Roma. Di
questo avviso è Lanzmann il quale sostiene che Murmelstein non è
stato un traditore, ma un eroe, perché seppur costretto a
sacrificare centinaia di ebrei, fu capace di salvarne molte migliaia
sottraendoli ad una morte sicura e, inoltre, che differenza di chi
prese la via dell’esilio, rimase al fianco del popolo ebraico, fino
all’ultimo. Secondo Lanzmann la lezione da trarre da questa vicenda
è quella secondo cui «in
determinate situazioni non esiste altro comportamento che
l’obbedienza e che ogni tipo di resistenza diventa inutile»
.
In
sostanza, appare chiaro che la grande colpa di Murmelstein, che
ricordiamo fu assolto da i tribunali dai quali fu chiamato ad essere
giudicato, sia stata quella di sopravvivere.
È forse arrivato il momento che sia assolto anche dalla storia.
mercoledì 22 novembre 2017
martedì 21 novembre 2017
Le Suore del Monastero di Santa Priscilla e gli Ebrei 19143-1945
APPROFONDIMENTI
di
Antonella Troiani
Durante
l’occupazione nazista, le benedettine di Priscilla nascosero
centinaia di perseguitati con la complicità dell’ambasciatore del
Reich presso la Santa Sede, Ernst von Weizsäcker. L’operazione di
occultamento non era esente da rischi, poiché i tedeschi
rastrellavano tutto il territorio italiano in cerca di ebrei e
partigiani; ma, per questi ultimi, era l’unico modo per sfuggire
miracolosamente al treno della morte che portava ad Auschwitz.
Numerosissimi sono stati gli ebrei salvati dalla rete di assistenza
della Chiesa e un caso emblematico per tutti è quello delle Suore
Oblate Benedettine di Priscilla,
che durante gli anni oscuri della seconda guerra mondiale, sotto la
sagace direzione del loro fondatore, don Giulio Belvederi, presso la
loro casa alle Catacombe di Priscilla, nascosero centinaia di
perseguitati. Nonostante il tema della persecuzione contro gli ebrei
e il Vaticano sia stata una querelle infinita e motivo di
controversia accesa, fin dall’autunno del 1943, di fronte ad una
precipitazione degli eventi, la Santa Sede decise di provvedere ad
impartire direttive ai superiori dei vari ordini religiosi, i quali
spalancarono le porte dei propri conventi per accogliere, anche sotto
mentite spoglie, così come affermato da Giovanni Preziosi, nel suo
articolo apparso su L’Osservatore
Romano
di domenica 7 luglio 2013, tutti coloro i quali erano in serio
pericolo di vita. L’autore, sopracitato, sottolinea, che le oblate
benedettine di Priscilla- un piccolo ramo del grande tronco
benedettino, sorto agli inizi del 1937 nella casa sulla via Salaria
presso le Catacombe di Priscilla- si siano distinte in questa
autentica gara di solidarietà, prodigandosi a soccorrere tutti i
perseguitati, ospitandoli nella loro comunità e organizzando una
duplice attività di protezione dei ricercati, sotto la guida di don
Belvederi, fondatore dell’ordine, e con la collaborazione di Giulio
Andreotti, presidente della Fuci (Federazione Universitaria Cattolica
Italiana); unica associazione riconosciuta nelle università durante
il fascismo, nella quale si formerà buona parte della futura classe
dirigente democristiana. Secondo quanto affermato da suora Gloria
Carli, la rete di assistenza riusciva a produrre anche false carte
d’identità degli ebrei e di altri rifugiati, poiché le suore
avevano una piccola tipografia, al servizio dell’Archeologia
cristiana; i documenti venivano stampati e poi vidimati con i timbri
delle città già liberate. Questa rete di assistenza, attenta e
meticolosa, era stata ideata da Giulio Andreotti il quale provvedeva
alla stampa e alla consegna diretta dei documenti agli ebrei nascosti
in Vaticano. La filiera era stata studiata e pianificata al
dettaglio. Come affermato da G. Preziosi nell’articolo già
menzionato, uno degli organizzatori di questa rete è stato un
collaboratore di De Gasperi, nonché futuro segretario della
Democrazia Cristiana, Guido Gonnella, il quale provvedeva a
recapitare una busta contenente le false carte d’identità stampate
nella tipografia delle suore benedettine all’edicola dei giornali
che si trovava nei pressi del colonnato di piazza San Pietro.
Dall’edicola, la busta veniva immediatamente prelevata e portata in
Vaticano dove si procedeva a regolarizzare i documenti; dopodiché
il plico faceva il percorso inverso per ritornare al mittente.
Affinché la protezione non venisse scoperta, tutti coloro che ne
beneficiarono, avevano delle regole da osservare e dei comportamenti
da tenere. A un segnale prestabilito e convenzionale, in caso di
pericolo, passando per un accesso segreto, tutti gli “ospiti” si
dileguavano nelle vicine catacombe dove restavano fin quando
l’allarme cessava. Nell’articolo, comparso sul quotidiano della
Santa Sede, si ricordano alcuni perseguitati che hanno beneficiato
della protezione. Si menziona uno dei Visconti di Modrone di Milano e
Lorenzo Camerino; quest’ultimo, di origine ebraica, beneficiò
della protezione delle oblate di Priscilla assieme alla sua famiglia
composta dalla moglie, Maria Molon, e dalla figlia Francesca, che al
tempo dei rastrellamenti era soltanto una bambina dell’età di
cinque anni. La famiglia Camerino rimase nascosta presso le catacombe
di Priscilla fino al termine della guerra. Detta notizia si evince da
una lettera che la signora Maria Molon scrisse alle suore, da
Venezia, in occasione del Natale del 1945. La donna scrisse questa
lettera in ricordo del Natale 1943 trascorso nella casa di Priscilla.
Rivolgendosi alla Madre Reverenda, come riportato nell’articolo di
G. Preziosi, scrisse “Il
ritorno nella mia casa e la gioia di ritrovare i miei cari non mi
hanno fatto mai dimenticare e tanto meno mi fanno dimenticare ora che
si avvicina il Santo Natale, Lei e tutte le Suore di Priscilla. La
bontà veramente ispirata dal Signore, che è stata per noi tutti
fonte di coraggio e di speranza in uno dei momenti più tragici della
nostra vita, ha lasciato nel nostro cuore e nella nostra mente
un’impronta che è diventata la regola cui vorremmo conformare la
nostra esistenza. Purtroppo le contingenze del vivere quotidiano ci
fanno tanto spesso sentire invece quanto il costume delle buone
Sorelle sia lontano dal nostro. E per questo davvero tante volte
vorremmo essere più vicini a Voi tutte per poter ancora dividere
della Vostra serenità. È così
vivo
in tutti noi il ricordo del Natale trascorso
nella
Casa
di Priscilla che in ogni ora di queste nostre giornate riviviamo
quella Festa del 1943 che è stata, nonostante la tragicità
dell’epoca, d’indimenticabile serenità”. Nella
lettera, la signora Molon, ricorda l’animo puro di monsignor
Belvederi, considerato da tutta la famiglia come un vero Padre. Un
padre, con grandezza d’animo, di bontà e di cultura; un padre che
si è messo al servizio dell’umanità e di tutti i perseguitati.
Oltre alla famiglia Camerino, per un lasso di tempo più breve, è
ospite della casa di Priscilla, il professor Giorgio Del Vecchio, un
accademico di origini ebraiche, docente di filosofia del diritto e
preside della facoltà di giurisprudenza dell’università di Roma.
Fu discriminato dal regime per queste sue ascendenze. Ottenne
ospitalità presso le suore benedettine, assieme alla propria
consorte, grazie ai buoni uffici dell’esponente democristiano Guido
Gonnella. Altra ospite, fu la celebre archeologa tedesca Hermine
Speier che, dall’aprile 1943, a seguito dell’estromissione
dall’Istituto Archeologico Germanico, perché di origine ebraica,
venne assunta da Pio XI per riordinare l’archivio fotografico dei
Musei Vaticani. I rifugiati della casa di Priscilla, durante il
periodo di permanenza nel monastero, poterono godere della cura e
dell’attenzione che monsignor Giulio Belvederi dedicò loro. Sarà
proprio don Belvederi, negli anni successivi, a riconoscere quanto
sia stata importante la complicità dell’ambasciatore del Reich
presso la Santa Sede, Weizsäcker, affinché la gestapo non
perquisisse la casa delle suore benedettine di Priscilla. Padre
Belvederi racconta di come l’ambasciatore abbia finto di non sapere
della rete clandestina allestita da tanti religiosi con il consenso
della Santa Sede per salvare i ricercati. L’ambasciatore
Weizsäcker temeva che la deportazione degli ebrei di Roma avrebbe
potuto danneggiare l’immagine della Germania favorendo la
propaganda nemica. Inoltre, una eventuale protesta del Papa, avrebbe
peggiorato ancor più le cose mettendo in imbarazzo i tedeschi e
riducendo la possibilità di un compromesso di pace negoziato dalla
Santa Sede e scatenando, forse, episodi di resistenza e di disordini
pubblici. Ciò spinse l’ambasciatore Weizsäcker a fare in modo che
gli ebrei fossero segretamente avvertiti per disperdersi prima di
essere arrestati. Nonostante queste misure strategiche di protezione
e le tattiche per nascondere i perseguitati, il 16 ottobre 1943, il
“sabato nero” del ghetto di Roma, le SS invasero le strade romane
e rastrellarono oltre mille ebrei. E’ la data che segna l’ultima
tappa di un triste itinerario iniziato nel settembre 1938 con la
promulgazione delle leggi razziali. A seguito, con la liberazione
della capitale, a opera degli alleati, e il ristabilimento
dell’ordine pubblico, si concluse il calvario dei tanti ebrei
rifugiati, scampati al rastrellamento e alla deportazione nei lager
nazisti, perché nascosti nelle varie case religiose sparse per tutta
la città. Il 7 luglio 1944, fu il sostituto della Segreteria di
Stato, monsignor Giovanni Battista Montini, a nome del Papa, a
ringraziare l’unione delle comunità israelitiche d’Italia e la
comunità romana che avevano espresso la loro gratitudine e la loro
riconoscenza al Pontefice Pio XII per gli sforzi profusi allo scopo
di far cessare le persecuzioni razziali.
lunedì 20 novembre 2017
Presentato il Volume Dei diari brindisini di Mario Roatta
Il Direttore del Cesvam insieme al Curatore ed al Dott.
Donato Tombale
Introdotti dal Presidente della STASI
Alessandra Sacconi
Hanno illustrato i contenuti
Del Diario di
Mario Roatta
Dal 6 settembre al 31 dicembre 1943
E' seguito un interessante dibattito
domenica 19 novembre 2017
Progetto Master I Livello in Storia Militare II Fase
Sono in corso riunioni per definire l'architettura
Del Master con i preposti uffici della universita'Cusano con il fine di arrivare al protocollo di intesa per la fine di novembre
sabato 18 novembre 2017
I Campi di concentramnto in ungheria nel secondo dopoguerra
ARCHIVIO
di Stefano Ricci
Nonostante in patria sia una delle questioni
storiche più conosciute e dibattute, con un ricco seguito di interviste,
documentari, monografie e pellicole cinematografiche, il tema dei campi di prigionia
sovietici in Ungheria, sorti nel 1948, dopo la presa del potere da parte del
Partito Ungherese dei Lavoratori, è uno degli argomenti legati all’insediamento
in Europa delle cosiddette “democrazie popolari” meno tradotti all’estero di
tutta la storiografia contemporanea.
Questo, nonostante in Ungheria – come del resto in Polonia – la memoria collettiva sia molto sensibile alle deportazioni di vasti strati della propria popolazione verso i gulag sovietici, ampiamente diffusi e radicati sul territorio nazionale.
Da Kistarcsa a Reczk, nella vasta regione dei monti Mátra, passando per Horoszlany, Varpalota e Tiszalök, sono molte le testimonianze capaci di fornirci un quadro complessivo di quel periodo, dominato quasi per intero dalla temuta Allamvedelmi Hitaval, la Sicurezza di Stato originariamente creata per punire i criminali di guerra e poi, nel 1949, trasformata in un ente svincolato dallo stesso Ministero degli Interni, col compito di eliminare ogni minaccia alla nascente dittatura di Mátyás Rákosi, procedendo all’internamento dei detenuti e amministrando i campi del nuovo regime.
Fra queste, la testimonianza più eccezionale è, senz’ombra di dubbio, quella fornitaci da György Faludy, poeta e traduttore, arrestato nel 1949, all’epoca del processo Rajk, e internato a Reczk, gulag assurto ad emblema del comunismo ungherese.
A colpire, da subito, è l’assurdità dei motivi per cui, migliaia di ungheresi, proprio a partire dal 1949, sono stati tratti in arresto: dalle accuse di sabotaggio a quelle di trotzkismo, Faludy racconta persino di come, uno dei responsabili dell’Istituto di meteorologia, sia stato arrestato per aver un giorno annunciato una «leggera brezza proveniente da occidente» e, l’indomani, un «influsso d’aria gelida proveniente da nordest, in arrivo dall’Unione Sovietica», proprio nelle ore in cui una divisione sovietica era pronta a varcare la frontiera ungherese.
L’internamento di Faludy a Reczk è, però, preceduto da una sosta di circa quindici giorni nel campo di transito di Kistarcsa, costruito sul modello dei campi di concentramento nazisti: alte torri di guardia, filo spinato, baracche fatiscenti, ampio cortile centrale e lettiere sovrapposte.
Da lì, Faludy è così condotto a Reczk, che nel 1950, secondo i dati ufficiali, ospita più di 1200 detenuti; tra di loro, sindacalisti, ex ufficiali dell’esercito, quadri di vari partiti fino ad allora alleati politici dei comunisti, contadini e operai.
Faludy racconta persino di un uomo torturato per errore e portato a Reczk perché ormai troppo malconcio per esser condotto nuovamente a casa.
La vita, all’interno del campo, è dominata dal lavoro: cave e boschi costituiscono il luogo in cui i detenuti passano la maggior parte della loro giornata; i ritmi sono frenetici e numerosi sono gli incidenti e gli infortuni.
«Un giovane ingegnere», racconta Faludy, «era stato schiacciato da una roccia che pesava parecchie tonnellate; quando la pietra aveva incominciato a rotolare, i suoi vicini avevano gridato per avvertirlo […] l’uomo aveva alzato lo sguardo e sarebbe potuto fuggire, ma era rimasto al suo posto abbassando il capo con aria rassegnata».
Un modo disperato per evitare, almeno per un paio di giorni, il massacro fisico di un lavoro il cui scopo non è la produzione, ma l’indebolimento psicologico, è la tufta, una pratica consistente nell’ingoiare pezzi di metallo, chiodi o lamette per esser ricoverati d’urgenza nell’ospedale del campo e ricevere, così, maggiore riposo e pasti più abbondanti.
Proprio la denutrizione, infatti, è la prima causa di morte all’interno del campo; gli alimenti sono poveri e con poche calorie, inadatti pertanto ad una vita di fatiche: la colazione consiste solo di una tazza di surrogato di caffè d’orzo, mentre il pranzo prevede una zuppa di legumi da consumare in piedi, sul luogo di lavoro; per cena, invece, solo un po’ di verdura e 500 grammi di pane (spesso, però, la verdura è insufficiente per tutti e, al suo posto, vengono serviti piselli secchi destinati al bestiame).
Come nota uno dei medici del campo: «con queste razioni, considerando le condizioni di lavoro e psicologiche, nel giro di un anno tutti i prigionieri saranno morti di fame, eccetto ovviamente quelli che non lavorano […] tra 12 mesi, il 95% dei detenuti saranno morti, tra sei cominceremo a registrare le prime perdite […] tra nove mesi, la gente morirà come le mosche d’autunno».
A complicare un quadro di per sé già precario, poi, concorrono delle condizioni igieniche totalmente deplorevoli: come riportano molteplici fonti, ai prigionieri non è mai concesso di lavarsi, salvo una volta al mese, quando, ogni due persone, viene loro consegnato un solo pezzo di sapone di Marsiglia.
Le docce, infatti, verranno installate solo nel 1952, poiché quando a Reczk giungono i primi prigionieri, nel 1949, le tubature dell’acqua non erano ancora state installate.
Questo, nonostante in Ungheria – come del resto in Polonia – la memoria collettiva sia molto sensibile alle deportazioni di vasti strati della propria popolazione verso i gulag sovietici, ampiamente diffusi e radicati sul territorio nazionale.
Da Kistarcsa a Reczk, nella vasta regione dei monti Mátra, passando per Horoszlany, Varpalota e Tiszalök, sono molte le testimonianze capaci di fornirci un quadro complessivo di quel periodo, dominato quasi per intero dalla temuta Allamvedelmi Hitaval, la Sicurezza di Stato originariamente creata per punire i criminali di guerra e poi, nel 1949, trasformata in un ente svincolato dallo stesso Ministero degli Interni, col compito di eliminare ogni minaccia alla nascente dittatura di Mátyás Rákosi, procedendo all’internamento dei detenuti e amministrando i campi del nuovo regime.
Fra queste, la testimonianza più eccezionale è, senz’ombra di dubbio, quella fornitaci da György Faludy, poeta e traduttore, arrestato nel 1949, all’epoca del processo Rajk, e internato a Reczk, gulag assurto ad emblema del comunismo ungherese.
A colpire, da subito, è l’assurdità dei motivi per cui, migliaia di ungheresi, proprio a partire dal 1949, sono stati tratti in arresto: dalle accuse di sabotaggio a quelle di trotzkismo, Faludy racconta persino di come, uno dei responsabili dell’Istituto di meteorologia, sia stato arrestato per aver un giorno annunciato una «leggera brezza proveniente da occidente» e, l’indomani, un «influsso d’aria gelida proveniente da nordest, in arrivo dall’Unione Sovietica», proprio nelle ore in cui una divisione sovietica era pronta a varcare la frontiera ungherese.
L’internamento di Faludy a Reczk è, però, preceduto da una sosta di circa quindici giorni nel campo di transito di Kistarcsa, costruito sul modello dei campi di concentramento nazisti: alte torri di guardia, filo spinato, baracche fatiscenti, ampio cortile centrale e lettiere sovrapposte.
Da lì, Faludy è così condotto a Reczk, che nel 1950, secondo i dati ufficiali, ospita più di 1200 detenuti; tra di loro, sindacalisti, ex ufficiali dell’esercito, quadri di vari partiti fino ad allora alleati politici dei comunisti, contadini e operai.
Faludy racconta persino di un uomo torturato per errore e portato a Reczk perché ormai troppo malconcio per esser condotto nuovamente a casa.
La vita, all’interno del campo, è dominata dal lavoro: cave e boschi costituiscono il luogo in cui i detenuti passano la maggior parte della loro giornata; i ritmi sono frenetici e numerosi sono gli incidenti e gli infortuni.
«Un giovane ingegnere», racconta Faludy, «era stato schiacciato da una roccia che pesava parecchie tonnellate; quando la pietra aveva incominciato a rotolare, i suoi vicini avevano gridato per avvertirlo […] l’uomo aveva alzato lo sguardo e sarebbe potuto fuggire, ma era rimasto al suo posto abbassando il capo con aria rassegnata».
Un modo disperato per evitare, almeno per un paio di giorni, il massacro fisico di un lavoro il cui scopo non è la produzione, ma l’indebolimento psicologico, è la tufta, una pratica consistente nell’ingoiare pezzi di metallo, chiodi o lamette per esser ricoverati d’urgenza nell’ospedale del campo e ricevere, così, maggiore riposo e pasti più abbondanti.
Proprio la denutrizione, infatti, è la prima causa di morte all’interno del campo; gli alimenti sono poveri e con poche calorie, inadatti pertanto ad una vita di fatiche: la colazione consiste solo di una tazza di surrogato di caffè d’orzo, mentre il pranzo prevede una zuppa di legumi da consumare in piedi, sul luogo di lavoro; per cena, invece, solo un po’ di verdura e 500 grammi di pane (spesso, però, la verdura è insufficiente per tutti e, al suo posto, vengono serviti piselli secchi destinati al bestiame).
Come nota uno dei medici del campo: «con queste razioni, considerando le condizioni di lavoro e psicologiche, nel giro di un anno tutti i prigionieri saranno morti di fame, eccetto ovviamente quelli che non lavorano […] tra 12 mesi, il 95% dei detenuti saranno morti, tra sei cominceremo a registrare le prime perdite […] tra nove mesi, la gente morirà come le mosche d’autunno».
A complicare un quadro di per sé già precario, poi, concorrono delle condizioni igieniche totalmente deplorevoli: come riportano molteplici fonti, ai prigionieri non è mai concesso di lavarsi, salvo una volta al mese, quando, ogni due persone, viene loro consegnato un solo pezzo di sapone di Marsiglia.
Le docce, infatti, verranno installate solo nel 1952, poiché quando a Reczk giungono i primi prigionieri, nel 1949, le tubature dell’acqua non erano ancora state installate.
Per tutti questi motivi, Reczk è stato più volte definito il “campo della morte lenta”.
Si cerca di reagire organizzando dibattiti filosofici, impartendo lezioni di matematica, raccontandosi libri letti in passato o semplicemente chiacchierando sul lavoro svolto in precedenza; si cerca, inoltre, di avere notizie dall’esterno sbirciando quei pochi giornali che i guardiani usano al gabinetto.
Proprio in questo modo, ricorda Faludy, i prigionieri seguono l’andamento della Guerra di Corea e le Olimpiadi di Helsinki e, sempre in questo modo, apprendono – speranzosi – dell’elezione alla Casa Bianca di Dwight Eisenhower.
Non mancano le evasioni, puntualmente sventate; Faludy, nei suoi scritti, ne ricorda una conclusasi poche settimane più tardi, con il ritorno di tutti i fuggiaschi nel campo di Reczk.
Le punizioni per un simile gesto variano dalle percosse, la cui esecuzione è affidata ai “kapo”, capibaracca spesso esentati dal lavoro o adibiti alla registrazione dell’ingresso dei detenuti nelle latrine, all’isolamento, consistente nella reclusione dei detenuti, per diverse ore, all’interno di piccoli stanzini di quattro metri quadri, senza riscaldamento, picchiati o spruzzati d’acqua gelida per mano dei guardiani, a seconda del loro umore.
Nei casi d’insubordinazione più gravi, poi, il prigioniero, oltre che esser punito con l’isolamento, veniva anche legato ad un bastone passante dietro le proprie gambe; una pratica, questa, che alla reclusione univa anche la tortura.
I detenuti di Reczk sperano così in un intervento occidentale: eventi come l’elezione di Churchill o la rivolta degli operai di Berlino vengono accolti con applausi ed esplosioni di gioia, specie quando nei gulag si diffonde la notizia della morte di Stalin.
Le speranze, però, lasciano presto il posto alla disillusione ed alla disperazione; ogni trasgressione viene fermamente punita con una permanenza in cella d’indefinibile durata, dove si ricevono pasti ridotti.
Presto, denutrizione e mancanza d’igiene portano anche alla comparsa di malattie, perlopiù infettive.
I malati vengono condotti nel piccolo ospedale da campo, diretto da medici anch’essi prigionieri, mentre quelli più gravi vengono trasferiti a Budapest, spesso senza far più ritorno.
Un illustre osservatore come Elémer Földàry – Boér racconta la storia di un anziano prigioniero deceduto per mancanza di cure, poiché la penicillina destinata a salvarlo era stata utilizzata poco prima per curare il cane di un guardiano.
La situazione, seppur microscopicamente, migliora a partire dal 1953, quando le razioni alimentari divengono più abbondanti e vengono sciolte le “brigate disciplinari” del campo, composte da teste calde e scansafatiche, costretti a dormire per terra in una baracca speciale.
Alcuni osservatori, come Benko Zoltan, hanno collegato queste migliorie con la richiesta da parte ungherese di aderire all’ONU, ma è forse più corretto sostenere che esse siano il frutto del clima distensivo inaugurato da Imre Nagy nel luglio del ’53, quando piccoli gruppi di detenuti vengono persino rimessi in libertà; sempre Nagy, nello stesso anno, ordinerà infatti lo smantellamento totale e immediato dei campi d’internamento.
All’uscita, come Joël Kotek e Pierre Rigoulot hanno sapientemente analizzato nel loro immenso lavoro, Il Secolo dei Campi, «si assiste ad uno spettacolo unico nella storia dei campi del XX secolo […] i detenuti liberati devono passare lentamente davanti ad un magistrato che ripete a ciascuno: “in nome della Repubblica popolare ungherese, intendo porgerle delle scuse per le ingiustizie, i torti e le umiliazioni che ha dovuto subire”».
Oltre a Reczk, sempre nel 1953 furono smantellati anche i rimanenti campi d’internamento; secondo fonti ufficiali se ne contavano circa un centinaio, alle strette dipendenze del Ministero degli Interni, per un totale di oltre 44.000 detenuti politici, 10.000 dei quali lavoravano per il Ministero dei Lavori Pubblici.
A questi dati, poi, devono essere aggiunti anche quelli legati al numero di ungheresi che, come accaduto in moltissimi altri paesi facenti parte del blocco sovietico, hanno conosciuto tutta la tragicità delle cosiddette “deportazioni interne”, organizzate dalle autorità centrali con lo scopo di ripopolare alcune zone situate ad est di Budapest, nella regione dell’Alföld, meglio conosciuta come Grande Pianura Ungherese, cuore geografico del più vasto Bacino Pannonico.
info:centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org
venerdì 17 novembre 2017
Appuntamento a Tarquinia. Sabato 18 novembre 2018
ATTIVITA' CESVAM
I
GIORNI TRAGICI DELL’ARMISTIZIO NEL DIARIO SEGRETO DEL GENERALE
MARIO ROATTA. INCONTRO ALLA SOCIETÀ TARQUINENSE D’ARTE E STORIA-18
NOVEMBRE ORE 16,30
Sabato 18
novembre,
ore 16. 30
alla Società Tarquinense d’arte e storia
(via
delle Torri, 33 – Tarquinia)
presentazione del libro Mario
Roatta.
Diario.
6 settembre – 31 dicembre 1943,
a cura di Francesco Fochetti ( Mursia).
Partecipano:
Alessandra Sileoni, presidente della Società
Tarquiniense d’Arte e Storia;
Donato Tamblè,
professore e dirigente MiBACT,
vicepresidente Società Italiana di Storia
Militare; Massimo Coltrinari, generale
Francesco Fochetti,
archivista storico e curatore del
volume
Sei metri lineari di documenti, appunti, diari, fotografie: a quasi cinquant’anni dalla sua morte ritrovato l’archivio del generale Mario Roatta, Capo di Stato maggiore dell’Esercito italiano, membro del Consiglio della Corona, tra i protagonisti più discussi del Ventennio e soprattutto dell’8 settembre e del periodo del Governo brindisino. L’importante scoperta si deve all’archivista storico Francesco Fochetti che, con una complessa e delicata operazione di raccolta di informazioni e contatti con gli eredi, è riuscito a individuare e recuperare l’archivio segreto del generale e , in collaborazione con la Soprintendenza archivistica del Lazio, portare a buon fine le pratiche per il riconoscimento del Notevole interesse storico.
Fochetti
ha curato la pubblicazione per Mursia del primo volume dei
Diari di Roatta, relativo al periodo 6 settembre – 31
dicembre 1943. (Mario Roatta, Diario. 6 settembre-
31 dicembre 1943. A cura di Francesco Fochetti. Con
inserto fotografico. Euro 21,00, Mursia).
Delle
carte di Roatta si supponeva l’esistenza, ma le vicende giudiziarie
post belliche che investirono il generale - accuse per le presunte
attività illegali del SIM, Servizio Informazioni Militari, compreso
il coinvolgimento nell’omicidio dei fratelli Rosselli nel 1937, per
la mancata difesa di Roma nei giorni dell’8 settembre 1943 e
l’inchiesta sulla presunta condotta inumana al comando della II
Armata in Croazia - lo indussero a seppellire, moralmente
e materialmente, l’archivio.
Con la
pubblicazione del primo volume del diario e altre che
seguiranno, questo prezioso archivio viene ora messo a disposizione
degli studiosi e del pubblico, dopo un rigoroso processo di
ricomposizione e trascrizione.
Nel
diario del 1943, scritto nell’immediatezza degli avvenimenti,
emergono con evidenza il caos dei comandi delle Forze Armate, le
incertezze del Re pronto a smentire il governo sull’Armistizio, la
mancanza di informazioni che i vertici militari e politici avevano su
quello che stava avvenendo a Roma o nei Balcani dove si consumava,
tra le altre, la tragedia di Cefalonia. E ancora: le trattative con
Eisenhower per il cosiddetto «Armistizio lungo», i complicati
rapporti con i nuovi alleati, i dettagli privati e quotidiani del
governo provvisorio a Brindisi. Roatta assiste alla caduta di un
mondo dalle cui rovine verrà travolto: il governo jugoslavo lo
accusa di crimini di guerra. Il maresciallo Tito vuole la sua testa,
gli alleati premono e Badoglio la servirà loro su un piatto
d’argento.
Biografia Mario Roatta
Il generale Mario Roatta
nasce a Modena il 2 gennaio 1887 da Maria Antonietta Richard,
originaria di Doussard nell’Alta Savoia e da Giovan Battista
Roatta, militare di carriera del Regio Esercito. Frequentata
l’Accademia di Modena e si perfeziona nell’uso delle lingue,
soprattutto in Germania. Nella Prima Guerra mondiale, col grado di
capitano, combatte su numerosi fronti; pluridecorato e con il grado
di tenente colonnello, a febbraio 1919 è inviato a Berlino, per
organizzare il rimpatrio dei prigionieri, redigere rapporti
sull’esercito tedesco e sulla rivolta Spartachista. A luglio fa
parte della «Commissione militare interalleata di controllo», di
Versailles. Sposa nel 1922 Ines Mancini, comanda col grado di
colonnello, la «Scuola centrale di fanteria» di Civitavecchia e dal
1926 al 1930 è addetto militare a Varsavia (dove trasferisce la sua
famiglia, accresciuta nel 1928 dalla nascita del figlio
Sergio), con competenze su Lettonia, Estonia, Finlandia. Nel 1930
viene nominato comandante dell’«84°reggimento di fanteria» e poi
al Corpo d’armata di Bari. Il 15 gennaio 1934 assume la carica di
capo del SIM (Servizio di Informazioni Militare) di cui, con un’opera
di riorganizzazione e miglioramento tecnologico migliorerà
l’efficienza, e per questo in seguito promosso al grado di
generale. Nominato nel 1936 Capo missione nel corpo militare inviato
in Spagna, assumerà la falsa identità di Mancini Roberto, lasciando
quindi il comando del SIM al vicecapo Angioy. Rimpatriato a dicembre
1938 in seguito al ferimento durante la battaglia di Malaga, è poi
nominato generale di divisione. Inviato come addetto militare a
Berlino da luglio a novembre 1939, il 16 novembre è nominato
Sottocapo di Stato Maggiore, dal 24 marzo 1941 al 20 gennaio 1942 è
Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, quindi generale al comando
della II armata in Croazia fino al 10 febbraio 1943, quando viene
destinato al comando della VI armata in Sicilia. Il 1° giugno 1943 è
nuovamente Capo di Stato Maggiore dell’Esercito; membro del
Consiglio della Corona, in seguito all’armistizio, il 9 settembre
si trasferisce a Brindisi, con gli Stati Maggiori e il governo, al
seguito del Re. Destituito l’11 novembre dalla sua carica, per le
pressioni esercitate sui governi alleati da Tito, comandante
dell’«Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia»,
per presunti crimini durante il comando della II armata in Croazia.
Ritornato a Roma, sottoposto a inchiesta dalla Commissione per la
mancata difesa di Roma, il 16 novembre 1944 viene arrestato negli
uffici dell’Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo e
poi processato per le presunte attività illegali del SIM (
compreso il coinvolgimento nell’omicidio dei fratelli Rosselli nel
1937). Ricoverato nell’Ospedale militare Virgilio, la sera del 4
marzo 1945 evade, sottraendosi alla sentenza di condanna
all’ergastolo del 12 marzo 1945, iniziando così una lunga
latitanza. Il 6 marzo 1948 la Cassazione annulla la sentenza, il 19
febbraio 1949 il Tribunale militare di Roma stabilisce di non
procedere contro le accuse di resa colposa e abbandono di comando e
nel 1951 la Procura militare archivia l’istruttoria per i presunti
crimini di Guerra. Presente in Spagna dal 1948, vi resterà fino al
rientro definitivo nel 1967 a Roma, dove muore il 6 gennaio 1968.
Francesco Fochetti,
curatore.
Archivista storico, si
occupa di tutela delle fonti documentali conservate in istituzioni
pubbliche e private. Nominato dal 2007 Ispettore archivistico
onorario dalla Direzione Generale per gli archivi, è autore
del recente rinvenimento dell’archivio del generale Mario Roatta,
di cui, in sinergia con la Soprintendenza archivistica e
bibliografica del Lazio, ha curato la Dichiarazione di notevole
interesse storico, procedendo allo studio analitico
e alla pubblicazione delle parti più rilevanti.
Per informazioni: ufficio stampa Mursia
– 0227727326 –email: press@mursia.com
giovedì 16 novembre 2017
Secondo dopoguerra. Problemi irrisolti
APPROFONDIMENTI
1945-1951:
per gli ebrei continua la vita nei campi
di
Salvatore
Rizzi
All’indomani
della fine della seconda guerra mondiale in tutta Europa erano presenti fino a
10 milioni di persone - tra prigionieri di guerra, internati, civili in fuga - che
dovevano fare ritorno alle rispettive case. Un flusso migratorio di vaste
proporzioni che necessitava di un’organizzazione internazionale per i rimpatri.
Gli Alleati così si affidarono all’United Nations Relief and Rehabilitation Administration (UNRRA), agenzia di soccorso creata ad hoc già nel 1943 per coordinare le
misure di espatrio dei paesi interessati, per ricollocare dunque quelli che
erano chiamati i Displaced Persons (DPs)
- la definizione tecnica, data dal sociologo E.M. Kulisher, - per profughi di
guerra. Il lavoro dell’agenzia permise che la grande maggioranza di essi
riuscisse a tornare nel proprio paese di origine già dal settembre 1945.
Facevano eccezione però all’incirca un milione di persone dislocate tra
Germania, Austria e Italia che rifiutavano di abbandonare il paese nemico per
motivi politici (perseguitati in patria perché collaborazionisti o
anticomunisti). E in più vi erano bloccati anche 100000 ebrei, sopravvissuti
alla Shoah nei campi di concentramento, impossibilitati a emigrare nei propri paesi
e recuperare le proprie abitazioni nell’intento di ricostruire nuclei familiari
e comunità; numero che si andava a sommare ai circa 600000 ebrei dalla
nazionalità dubbia che da apolidi de
facto cercavano di trovare rifugio in Palestina, dove si stava costituendo
il “focolare ebraico nazionale” ad opera dell’Agenzia Ebraica di Ben Gurion.
Gli ebrei perseguitati dal nazismo furono quindi costretti a restare, per
disposizioni contingenti all’emergenza da parte dei Comandi Alleati, negli ex
territori del Terzo Reich occupati dalle forze alleate, e vennero alloggiati in
speciali centri di accoglienza temporanei del tutto simili nell’architettura ai
campi di internamento dove erano stati rinchiusi a partire dal 1939. Il maggior
numero di campi profughi si trovava nella zona occupata dagli americani, ossia
il centro-sud della Germania e parte dell’Austria occidentale, da Ziegenhain
nel Palatinato, fino a Salisburgo. I campi più importanti come quello di
Dachau, Feldafing e Landsberg accoglievano rispettivamente fino a 2190, 3309 e
5000 profughi: in totale nella zona americana i rifugiati ebrei del 1946 nella
lunga attesa del rimpatrio – e che sarebbero transitati in parte nei campi - furono
più di 175000 contro i poco più dei 28000 della zona britannica e i 1500 di
quella francese. Il campo più importante di DPs, però, fu quello di
Bergen-Belsen, nella Bassa Sassonia a giurisdizione inglese, che ospitò fino a
11000 profughi ebrei quando nel 1946 passò sotto l’autorità dell’UNRRA. La
detenzione in questi campi, seppur con la qualifica di profughi, per gli ebrei
fu comunque dura e non solo per la perpetuazione della prigionia sotto altre
forme. Si consideri la durata dei nuovi internamenti: alcuni campi resteranno
operativi fino al 1951. E poi per l’indeterminatezza della condizione: pur
godendo di una particolare tutela dal diritto internazionale per mezzo
dell’UNRRA, venivano considerati dai militari alla stregua di criminali da
tenere sotto controllo dall’esterno dei reticolati. Come ebbe a dire già nell’agosto
del 1945 – ad appena tre mesi dalla caduta del Terzo Reich - il procuratore E.G. Harrison, incaricato dal
presidente americano H. Truman di stilare un resoconto sulla condizione dei
rifugiati: “Stiamo trattando gli ebrei come hanno fatto i nazisti sostituendoci
a loro nella sorveglianza”.
Questa indefinita condizione di profughi-internati nei campi era data dai
nuovi scenari geopolitici che si stavano delineando sulle macerie del potere
nazista, e che vedeva coinvolte le forze vincitrici della seconda guerra
mondiale: Stati Uniti e Gran Bretagna in testa. Le leggi stringenti
sull’emigrazione non permettevano agli ebrei traversate oceaniche per trovare
ospitalità in Canada o negli Stati Uniti. Lo spaventoso numero di possibili
immigrati in Palestina impediva alla stessa Gran Bretagna di concedere tali e
tanti visti e passaporti del territorio sotto suo mandato poiché si voleva
scongiurare da una parte la destabilizzazione di una regione a totale confessione
islamica con una forte e imposta presenza ebraica, e dell’altra impedire
possibili infiltrazioni comuniste date dai profughi originari dell’Est Europa.
Fino a quando lo Stato di Israele non si costituì ufficialmente nel 1948, dando
inizio ad un esodo regolamentato dei rifugiati, i profughi e gli immigrati
clandestini non trovarono che accoglienza forzata nei campi.
E non solo in quelli tedeschi. Centri di detenzione temporanea nacquero o
si perpetuarono anche nella stessa Palestina a causa della costante
immigrazione clandestina, fenomeno che era iniziato con la guerra stessa. Ed è
così che gli ebrei erranti nella Germania post-bellica che cercavano di
raggiungere la Palestina venivano intercettati dalle autorità inglesi – per lo
più su navi - è rinchiusi nel campo di Atlit, luogo di detenzione già creato nel
1938 a sud di Haifa, sulla sponda orientale del Mediterraneo, a soli duecento
chilometri da Gerusalemme. Seppur imprigionati questi ebrei erano comunque
vicino alla loro Patria Ideale, in una condizione psicologica migliore rispetto
a coloro che erano internati in Germania. Per il resto vivevano in baracche in
lamiere dalle forti escursioni termiche, sempre sovraffollate, o in tende di
fortuna allestite quando le baracche erano insufficienti. Atlit divenne infine un
campo profughi con 5000 internati stabili, segno che i flussi migratori
clandestini erano corposi e soprattutto continui, guidati dall’influenza
dell’Agenzia Ebraica. Gli inglesi risposero impedendo la detenzione dei
profughi su territorio palestinese e nell’estate del 1946 aprirono nuovi campi
sull’isola di Cipro, sul versante sudorientale, a Caraolos e a Xylotymbu. Da
allora Cipro detenne fino al gennaio 1949 nei propri campi circa il 67%
dell’immigrazione clandestina totale ebraica verso la Palestina. In pochi mesi, nel 1946 Cipro era stata
inondata da 15000 profughi nullatenenti e con una media di 750 arrivi al mese, in
due anni e mezzo, l’isola avrebbe trattenuto un totale di 51500 persone. Oltre
a impegnare le forze britanniche nella difesa dei flussi migratori sui
territori a mandato – dato che l’esercito di Sua Maestà impiegò 100000 unità a
difesa della Palestina - le lobby ebraiche cercarono di gestire e influenzare
contemporaneamente più fronti critici.
La strategia sionista fu quella di forzare le resistenze britanniche
sull’approdo ebraico in Palestina anche attraverso i campi di internamento
statunitensi su suolo tedesco, facendo pressioni indirette agli americani. Già
nell’inverno del 1946 si dovettero allestire undici nuovi campi per ricevere la
quasi totalità degli ebrei profughi nella zona a giurisdizione statunitense. In
un solo anno dalla fine delle ostilità in Europa in questi campi si affollarono
142000 ebrei. La situazione si aggravò con le notizie di sommosse antisemite
nell’Europa dell’Est al ritorno degli ebrei. In poco tempo in Germania e
Austria trovarono rifugio 226000 DPs, che – nonostante i tentativi di
ostruzionismo americano che negavano vitto e alloggio nei campi per i nuovi
arrivati – alla fine del 1947 divennero 250000 sui 463000 ebrei in diaspora in
tutta l’Europa. Gli Stati Uniti d’America capirono che la questione palestinese
andava risolta al più presto per non aggravare ulteriormente il peso dei
rifugiati sul continente europeo e le loro condizioni di vita nei campi. La
divisione della Palestina - metà araba, meta ebraica, con due Stati Nazionali
ben distinti - andava attuata al più presto. Come disse il Segretario di Stato
americano D. Acheson già nell’agosto 1946: “La spartizione della Palestina è
l’unico modo per sveltire l’emigrazione”. La divisione venne approvata, con il
piano redatto dall’United Nations Special
Committee on Palestine (UNSCOP), dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 29
novembre del 1947. Dall’estate del 1948, dopo la costituzione dello Stato di
Israele e il ritiro del mandato britannico sulla Palestina, a 20000 ebrei sarà
permesso di lasciare i campi di detenzione a Cipro e recarsi nella nuova
patria. Seguiranno poi i rilasci di passaporto anche agli ebrei detenuti in
Europa che svuoteranno man mano i campi.
In questi ulteriori
sei anni di detenzione dalla fine della guerra sul teatro europeo (1945-1951),
la vita quotidiana degli ebrei internati si svolse esclusivamente all’interno
delle mura perimetrate dal filo spinato, svestendo la divisa a righe della
prigionia nazista e indossando abiti civili. I controlli all’interno dei campi
erano tali che l’autorganizzazione dello spazio vitale dei profughi era
“libera” di fluire. Pur frustrati dalla perdita o la dispersione dei propri
cari che aveva causato lo sradicamento dell’istituzione familiare – tant’è che
l’UNRRA creerà un’apposita sezione per la ricerca dei dispersi favorendone il
congiungimento – gli abitanti dei campi di internamento post-nazisti fecero
nascere all’interno di essi nuovi nuclei sociali, rendendo più fluide le relazioni.
Fenomenologia sociale che era notabile soprattutto nei grandi campi, come
quello di Bergen-Belsen. Dopo i primi mesi di ambientamento, già dal secondo
anno, le coppie che si formavano tra DPs vantavano un tasso di natalità tra i
più alti al mondo. Decine di famiglie si formavano quotidianamente, tanto da
celebrarsi tra i 20 e i 30 matrimoni al giorno. La vita sociale, culturale e
politica prosperò da subito nei campi. Si crearono fazioni politiche e
rappresentanze comunitarie forti e influenti. Capaci per esempio di organizzare
rivolte o proteste collettive esemplari come lo sciopero della fame per la
durezza delle condizioni di vita. A Bergen-Belsen si creò perfino una gerarchia
politico-amministrativa definita: con 40 comunità distinte che eleggevano i
propri rappresentanti in un Comitato esecutivo atto a fare pressioni nell’avere
le autorizzazioni necessarie a raggiungere la Palestina. Nel campo inglese
venne addirittura stampato un giornale quotidiano.
Dall’osservazione
dell’organizzazione della vita quotidiana nei campi si intuisce come gli ebrei,
nei lunghi periodi di detenzione si preparassero a tornare ad una agognata normalità
nella loro Eretz Israel (Terra di Israele) nella speranza di accorciare i tempi
di detenzione. Gli uomini e le donne si
istruirono nei mestieri più utili insegnati attraverso l’attivazione di veri e
propri corsi: falegnameria, maglieria, sartoria, scrittura a macchina,
radiomontaggio, lavorazione del ferro, etc. Così facendo I DPs avrebbero potuto
chiedere - e ottenere più facilmente - un permesso di emigrazione per motivi di
lavoro. La determinazione però con la quale gli ebrei rifugiati cercarono di
imporre il proprio diritto a tornare nelle proprie terre di origine e rifondare
una comunità, oppure a insediarsi in Palestina - permettendo così all’Agenzia
Ebraica di fare richieste sempre più pressanti a Gran Bretagna e Stati Uniti –
è testimoniata dall’educazione dei bambini.
La popolazione giovanile dei campi, seppur la più debole perché
soggetta a malattie, andava a “scuola”. Già minati nelle coscienze per via
della mancata percezione di differenza di trattamento tra carnefici e
salvatori, i bambini che erano riusciti a sopravvivere allo sterminio dovevano
obbligatoriamente – per quanto fosse poi possibile – recuperare il tempo di studio perso. Nella
sola Bergen-Belsen per esempio, già nel luglio del 1945 si era formata una
scuola elementare di 340 alunni che sarebbe stata affiancata a breve da una
scuola superiore professionale. Non mancava la biblioteca, ma scarseggiavano i
maestri. L’UNRRA organizzò così dei brevi seminari formativi di alcune
settimane per i futuri maestri. Le
materie sulle quali vennero formati gli insegnanti erano diverse ma sempre
riconducibili all’instaurazione nelle coscienze dei fanciulli dell’identità
ebraica. Tra il 1945 e il 1951 sarebbero state insegnate alle nuove generazioni
di ebrei, che avevano conosciuto la vita solo tra reticolati e alti muri:
l’ebraico, la letteratura ebraica, la storia ebraica, la storia del sionismo,
la Bibbia, la sociologia, la psicologia, la cooperazione, l’organizzazione dei
kibbutz, la geologia, la biologia, l’igiene, e – meta ultima, obbiettivo finale
dei DPs ebrei – la geografia della Palestina. I genitori dei bambini
desideravano che i figli ricevessero una rigida educazione da scuola rabbinica
e il programma educativo elencato era utile ai leader dei campi profughi per
impostare un’ ideologia sionista necessaria ai bambini nel futura prossima vita
in Israele.
contatti: centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org.
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