DIBATTITI
Dizionario minimo della Guerra di Liberazione
Compendio 1945.
Gli americani avevano interesse a
far rientrare i prigionieri italiani, proprio nel momento in cui i soldati
americani, smobilitati, ritornavano negli Stati Uniti. Se questo rimpatrio non
avvenne con la celerità necessaria, lo si deve ad altre ragioni, che investono
i rapporti all’interno della coalizione antihitleriana.
Sul trattamento dei prigionieri di
guerra si discusse a lungo anche all’interno dell’alleanza, ma senza
raggiungere un accordo comune. I sovietici si mostrarono disposti a concessioni
su molti punti, ma furono irremovibili sulla questione dei prigionieri. Quando
questa venne sollevata nelle discussioni della Commissione Consultiva Europea,
la delegazione sovietica sostenne che tutti i militari tedeschi sarebbero stati
considerati alla fine della guerra prigionieri di guerra per un tempo
indefinito perché potessero essere utilizzati per la ricostruzione dell’Unione
Sovietica. Allo stesso modo, nonostante la dichiarazione di Potsdam in cui si
asseriva che i prigionieri di guerra giapponesi sarebbero stati rimandati a
casa, il governo sovietico si rifiutò di rimpatriare i propri prigionieri, e li
uso come lavoro coatto in Siberia.
Il clima che si era instaurato
sulla questione dei prigionieri di guerra e la pressione dell’opinione pubblica
spinse i governi anglo-americani a cercare garanzie per i propri soldati
prigionieri non solo nei confronti delle forze dell’Asse, ma anche nei
confronti dell’URSS. A Yalta fu raggiunto un accordo militare con l’Unione Sovietica
secondo cui ogni governo poteva mandare una missione negli altri paesi perché
si occupasse dei propri soldati ex-prigionieri, ma l’Unione Sovietica non dette
poi l’autorizzazione all’ingresso di queste missioni sul proprio territorio.
L’atteggiamento spregiudicato dell’URSS
nei confronti della questione dei prigionieri di guerra fece temere agli
alleati occidentali per la sorte dei loro soldati, catturati dai tedeschi e che
sarebbero stati poi liberati dall’Armata Rossa. Non si può comprendere ad
esempio l’accordo fatto dagli anglo-americani a Yalta con l’Unione Sovietica
sul forzato rimpatrio dei soldati sovietici prigionieri venutisi a trovare
nelle zone occupate dagli alleati, che tante polemiche ha sollevato in questi
ultimi anni, se non si tiene presente che gli anglo-americani temevano
possibili ritorsioni sovietiche sui loro prigionieri in caso di un rifiuto. Pur
conoscendo la sorte che sarebbe toccata ai prigionieri sovietici al loro
ritorno in patria, i due governi decisero di rimandarli indietro perché: “se la
scelta è tra procurare difficoltà ai nostri uomini prigionieri o far morire dei
russi, la decisione è semplice”.
E proprio in questo senso è
significativa la testimonianza di Franco Saraceni.
“Gen.
1946. Nel porto militare di New York la Victory, ci porterà in Italia,
fiancheggia una nave militare russa. Dalla coperta possiamo vedere 30/40 uomini
che salgono incatenati a bordo di quella nave ed indossano le divise in uso ai
prigionieri di guerra, sono P.O.W.!
A
quella vista un cappellano americano che stava augurandoci un felice rientro in
famiglia si allontana defilandosi in luogo appartato; possiamo scorgerlo che
prega inginocchiato con i pugni contratti sotto il mento.
Quegli
uomini erano traditori o disertori russi passati nell’esercito tedesco e
catturati dagli americani con la resa della Germania. Erano i superstiti di
centinaia di loro; gli altri avevano scelto di suicidarsi o farsi uccidere per
pietà. L’uno aveva aiutato vicendevolmente l’altro”.
Un’altra tragedia a significare che
il rimpatrio non era desiderato da tutti.
Comunque
anche gli anglo-americani utilizzarono i prigionieri nelle loro mani, in aperta
violazione della convenzione di Ginevra, sia per l’industria di guerra, sia
come manodopera agricola anche dopo la fine del conflitto. E’ indicativo il
fatto che la Gran Bretagna utilizzo il più alto numero di prigionieri di guerra
nel settembre 1946, a più di un anno di distanza dalla fine del conflitto, con
301.000 uomini trasportati da varie parti del mondo, per sopperire alla
scarsità di manodopera nella ricostruzione industriale e nell’agricoltura. I
prigionieri tedeschi sostituirono gradualmente gli italiani, il cui rimpatrio
ebbe inizio nel dicembre 1945, mentre per i tedeschi il rimpatrio ebbe inizio
soltanto nell’ottobre del 1946 e si concluse solo nel 1948”.
Nell’Italia del 1946 il rimpatrio
non significò, spesso, la gioia del rientro in famiglia. Molti problemi cronici
della società italiana con la guerra non solo non si erano risolti, ma molto
aggravati. Ciò significò per molti prigionieri essere di nuovo alle prese con
la sopravvivenza.
Franco Saraceni così sostenne
questo aspetto del ritorno:” Il saggio
parla. Al campo di Raritan godeva la stima di molti benché mostrasse di non
avere disposizione a legarsi di amicizia. Parlava poco di sé e della propria
famiglia. Sapeva bene ascoltare ed era pronto ad aiutare i compagni nel modo
migliore.
Al
rientro in Patria, dal ponte della Victory, ammutolì alla vista di Napoli
colpita e dilaniata. Questa è la volta che il saggio mi rivolge la parola per
primo”.
“E’
la guerra che volge tutto in peggio, specialmente gli uomini. Tu non devi
rattristarti troppo perché forse il brutto te lo sei lasciato alle spalle.
Tornerai a Roma per ricominciare a vivere come saprai e meglio potrai. Io
invece vado in Abruzzo, la mia terra, che spesso sogno la notte, per riabbracciare
i miei e restare un po’ di tempo con loro. Per vivere, appena possibile, rifarò
il bagaglio e via verso una terra straniera. Mi attende una miniera e un’altra
baracca come quella che tu hai conosciuto da prigioniero ed io dalla prima
gioventù.
Quindi
non rattristarti, sei un privilegiato senza saperlo. A me invece augurami buona
fortuna perché ne ho veramente bisogno”.
Nessun commento:
Posta un commento