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giovedì 25 luglio 2019

I maltagliati, pasta in casa pesarese.


 DIBATTITI
II Fronte della Guerra di Liberazione
 la guerra partigiana nel pesarese



I MALTAGLIATI: 
TESTIMONIANZA DELLA RESISTENZA NEL PESARESE TRA CRONACA ED ETHOS POPOLARE

Federico Levy

"Queste pagine sono fatte in casa, così alla meglio come i maltagliati". A scriverle è Ferriero Corbucci, partigiano nato a Schieti di Urbino nel 1922, morto nel 2008. Parole con le quali dà inizio ad un romanzo che racconta e segna un pezzo di storia, la Resistenza, in un pezzo di mondo, la vallata del Foglia. L'autenticità e la preziosità di questa testimonianza impressa in un libro credo stia proprio in questa doppia matrice. "I Maltagliati" non è solamente un romanzo sulla Resistenza, è un romanzo autenticamente della Resistenza, non parla dell'ethos popolare degli umili e coraggiosi abitanti di una vallata, è un romanzo che è parte integrante di quell'ethos, ne rappresenta lo specchio e il "figliolo".
I maltagliati, tipico e umile pasto della gente della vallata, risultano così essere il simbolo dello spirito col quale l'assessore comunale, maestro, scrittore, partigiano Corbucci ci ha tramandato i suoi ricordi. Ma non solo. Maltajeti è anche il modo con cui i vecchi saggi chiamavano gli abitanti della vallata, nati e svezzati dall’aria “fina fina” che dal fiume Foglia attraversa la flora e la fauna della vallata e l’anima della gente che vi abita. Corbucci sottolinea chiaramente come la presenza del fiume abbia segnato questa gente, abituata a vivere in una terra di confine, come tempo addietro fece il Foglia delimitando il territorio dei Malatesta di Rimini dal Montefeltro. E come ogni terra di confine, essa è abitata da gente abituata a cavarsela con le proprie forze, umile e orgogliosa, legata alla terra e alla tradizione, di stampo essenzialmente e autenticamente popolare, temprata dal lavoro nei campi e nelle miniere. Gente concreta, coraggiosa, anticonformista, fiera.  Non a caso durante il fascismo la Val del Foglia assumeva il nome, coniato dai fascisti, di “valle della delinquenza”. Questa valle durante la Resistenza esprimerà tanti partigiani validi e coraggiosi, di cui Corbucci è degno esponente nella sua vita e narratore in queste pagine. Tra digressioni sugli stili di vita di contadini, minatori, su usanze festose come il veglione e tradizioni come la veglia, il romanzo avanza e imposta un mirabile intreccio tra storia, guerra, cultura, territorio. La Resistenza viene così presentata in una prospettiva che, senza banalizzarne la complessità, ne arricchisce la letteratura inerente attraverso la sua immersione nella realtà di un territorio di stupefacente bellezza e interesse, purtroppo spesso ignorate.

Pur mantenendo un’impronta di stampo spiccatamente romanzesco, non per questo Corbucci si esime dal trascrivere interessanti cronache di guerra tra partigiani e repubblichini che fanno parte del bagaglio della sua propria esperienza. Poco più che ventenne costretto ad arruolarsi contro la sua volontà nell’esercito italiano, comincerà la sua esperienza in montagna a inizio ’44 dopo aver disertato da un esercito spaesato e disorganizzato dai i fatti dell’8 settembre. Presterà servizio presso il distaccamento Gasperini, del quale sarà presto comandante, facente parte del terzo battaglione (capitanato da Cristoforo Moscioni, in tempi di guerra Vittorio) della V Brigata Garibaldi di Pesaro.
Un esempio di come Corbucci nel suo libro riesca a coniugare il piacere della narrazione con informazioni dettagliate lo abbiamo dallo spazio che dedica alla relazione del comandante della V Brigata Garibaldi Pesaro, Ottavio Ricci (Nicola) e che qui riportiamo in parte: “la V Brigata Garibaldi contava 750 effettivi divisi in 5 battaglioni con tre distaccamenti ciascuno. Il distaccamento Gasperini faceva parte del III battaglione insieme ai distaccamenti Matteotti e Guadalajara. La brigata si avvaleva anche di un reparto di polizia e di due reparti del genio comandati dal sottotenente Vianello Claudio. Per i collegamenti con gli eserciti alleati […] era incaricato il generale Mann”. Bagliori di cronaca storica immersi con destrezza in un'atmosfera sfumata tra il fosco del dramma e vivace avventura. Il giusto equilibrio tra periodare poetico e concretezza dell'azione, che caratterizza un romanzo dal ritmo sinceramente naturale tipico della vita dei contadini, lo troviamo anche nella cronaca dello scontro a Ca'Mazzasette, un paesino vicino Urbino, che designa il 1 novembre 1943 l'alba della Resistenza nella provincia pesarese. Ciò che avvenne nel paesino il giorno della commemorazione dei Santi rientra nel novero degli efferati atti di violenza e morte perpetrati dalle squadracce fasciste e i soldati tedeschi. Si trattò di una rappresaglia, eseguita per lanciare un monito inquietante agli abitanti del paesino che ospitava nel silenzio Erivo Ferri, famoso partigiano della vallata. Bernardi Pierino, Adele Cecchini, Assunta Grandicelli (rispettivamente di 19, 61 e 29 anni) persero la vita barbaramente per mano delle mitragliatrici tedesche. Lo scontro divampò con l'intervento di Erivo Ferri, Mario Ferri e altri che costrinsero gli assassini a battere in ritirata, alla quale però nella notte seguirono i bombardamenti con i mortai nella città e la cattura di 29 persone prese ad ostaggio (alcune delle quali riusciranno a fuggire dal carcere di Rimini grazie al bombardamento alleato della città). Corbucci denuncia nel suo libro come varie autorità politiche e militari del luogo cercarono di coprire questi tristi fatti di sangue, nel velleitario tentativo di ostacolare l'emergere di un movimento di opposizione armato e organizzato contro i fascisti e i nazisti. Invece i fatti del 1 novembre contribuiranno allo sprigionamento dell'energia resistenziale nella provincia, che permetterà alla “valle della delinquenza” di entrare anch'essa nella storia di un Paese che dalla lotta per la libertà vedrà arricchire il proprio statuto di civiltà con una Costituzione democratica. Così la zona diventa “base principale di raccolta e trasferimento delle armi, diffusione della stampa clandestina, di accoglienza e assistenza ai soldati stranieri fuggiti dai campi di concentramento”. Il ruolo dei contadini, come fonte di informazioni e base di appoggio per i combattenti, si rilevò fondamentale e, come i fatti poi mostreranno, a nulla sarebbero serviti i tentativi dei fascisti di fare uso di spie, di pagare farabutti per perpetrare efferatezze nella popolazione riconducendone poi invano la responsabilità al movimento partigiano. La resistenza nel pesarese si caratterizzò particolarmente con una connotazione politica, e la prospettiva di libertà e uguaglianza contribuì a cementificare un'alleanza sociale impossibile da sfaldare. Ciò detto è possibile ritenere che la tripartizione di Claudio Pavone[1] in merito alla natura del fenomeno Resistenza, nella quale si sarebbero intrecciati tre tipi di guerra, patriottica, civile e di classe, per ciò che riguarda la provincia di Pesaro Urbino si orienti in direzione leggermente favorevole a quest'ultima. La guerra di Liberazione rappresentò così per il territorio l'atto fondativo di una comunità rinnovata dal e nel patto democratico, e che fin dalla nascita della Repubblica vide impressa nelle organizzazioni sociali e nei propri punti di riferimento amministrativi i tratti essenziali di quella alleanza. Non per questo venne meno l'aspetto unitario della Resistenza, ben sottolineato da Paolo Volponi in un suo articolo pubblicato nel periodico dell'Anpi di Pesaro Urbino “Memoria Viva”: “Nella resistenza furono unite tutte le forze politiche e sociali del paese, ciascuno portando libero e convinto le proprie idee e le proprie qualità  per una vittoria comune e superiore a qualsiasi interesse personale”.
Spesso rarefatti o stereotipati dal fumo della retorica questi scrigni preziosi di memoria sociale, testimonianze umane, libri, documenti, fotografie, a volte siedono in seconda fila nel carro pittoresco e trionfale che alla musica del 150esimo anniversario dell'unità d'Italia designa al ruolo di protagoniste principali unicamente le mirabili gesta degli eroi risorgimentali. L'effetto combinato di un anno dall'alto valore simbolico immerso in un cupo periodo quale è questo in cui stiamo vivendo, può comportare il rischio che la celebrazione scivoli così in un'atmosfera di barocche sembianze allontanandosi dal suo significato più genuino. Il 150esimo compleanno del nostro Paese è la festa di riflessione dell'Italia unita da Garibaldi, Cavour, Mazzini, Cattaneo, D'Azeglio,... i leader di quell'Italia finalmente unita nella sovranità e nel territorio; ma è anche la festa di quel secondo risorgimento che con dolore e coraggio le ha donato un popolo. È pur vero che Risorgimento e Resistenza assumono vitalità storica grazie all'azione di quella che è stata comunque una minoranza, una Parte sul Tutto e per il Tutto. Ma è altrettanto vero che questo vale molto di più per il primo che per il secondo e che quest'ultimo, quando non ha forgiato il popolo dalla lotta per la libertà, l'ha intravisto e impresso in diritti, articoli, leggi.

“I Maltagliati” è pertanto un romanzo in grado di dare un utile contributo alla riflessione del nostro Paese su se stesso. Ricco di descrizioni e notizie su una fetta di territorio pesarese, nondimeno descrive numerose situazioni che al lettore attento e fantasioso facilmente possono suggerire ragionamenti di profonda attualità. Particolarmente toccante è la storia del partigiano Ioseph, in montagna semplicemente Peppe, uno croato fuggito dal campo di concentramento di Anghiari dove era stato riportato dalla Croazia in barcone dai tedeschi. La Croazia la lasciò con il ricordo della figlia e la moglie violentate e il padre ammazzato dai proiettili nazisti. Nella lotta di Resistenza dapprima vedrà l'occasione per un'agognata e parossistica vendetta di sangue, ossessione tale da renderlo valido esempio degli effetti di bestialità che la guerra induce nell'uomo; il contatto umano con i partigiani che sono con lui, in particolare Ferriero, lo aiuterà a superare il nichilismo di un odio senza scopo con la forza positiva dello sforzo verso l'obiettivo della democrazia. È lo stesso sforzo costituente che col treno del tempo viaggia di generazione in generazione, e lancia a ciascuna di esse la sfida di un rinnovato impeto di attualizzazione e rinvigorimento del suo messaggio e delle sue conquiste.
E questa non è né la prima né l'ultima delle precise digressioni che coinvolgono personaggi, situazioni, vite di uomini e donne che, da una prospettiva sempre diversa, intingono una tavolozza in multicolori cangianti: la semplicità, la contraddizione, i sentimenti, la quotidianità e la riflessione filosofica e politica, gli incontri, i fatti, le tradizioni. Non è il primo, non è l'ultimo, sicuramente neanche il migliore di tutti, ma questo romanzo attraverso una vicenda storica delimitata in uno spazio geografico circoscritto dice la sua riguardo all'inestimabile problema dell'uomo. Come poter interpretare altrimenti le poche pregnanti righe che descrivono il conflitto interiore di Corbucci, di fronte al dilemma se lasciar andare o meno due repubblichini scoperti in una casupola nei pressi di Sant'Angelo in Vado? Anche se non giustiziati sul posto, una volta portati al comando sarebbero stati interrogati, forse torturati, forse uccisi. I due ragazzi dissero di essere disertori, erano terrorizzati. Stavano tornando a casa. Non è forse in atto una tipica battaglia tra il proprio senso del dovere e il senso di moralità individuale? Non sono forse in gioco prassi di guerra, esempio di quel Super-Io sociale che talvolta opprime e  talvolta alleggerisce la responsabilità, e l'autocoscienza che percepisce il tempo, lo spazio, la propria esistenza attraverso il “qui ed ora” dell'azione e della scelta ed è capace di concepire un prima e un dopo? Non è forse un duello tra l'Io-guerra e l'Io-tuttoilresto? Tra bestia e ragione? O come non considerare il problematico rapporto tra uomo e verità, la sua ricerca, quando in mezzo ad un dialogo tra Corbucci e Don Italo Mancini dei primi anni novanta, vi leggo della “fecondità del dubbio”? Il XXI secolo prende in eredità dal passato la crisi di tante “Verità” del novecento, sociali politiche religiose, che formulavano una propria dottrina omnicomprensiva del mondo e della realtà lasciando ben poco spazio alla “fecondità del dubbio”. Ma cos'è il dubbio? Che ruolo ha avuto e avrà nella storia? Che ruolo ha nella nostra vita di tutti i giorni? Una società del dubbio è un passo avanti o un passo indietro?
Insomma, “I Maltagliati” è un bel romanzo che, un po' come la pasta umile di campagna che lo intitola, lascia più di quel che si potrebbe pensare. Una gradevole sintesi polivalente. Una bella testimonianza per non dimenticare la nostra storia.


[1]    C.Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, 1991

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