I MALTAGLIATI:
TESTIMONIANZA
DELLA RESISTENZA NEL PESARESE TRA CRONACA ED ETHOS POPOLARE
Federico Levy
"Queste pagine sono fatte in
casa, così alla meglio come i maltagliati". A scriverle è Ferriero
Corbucci, partigiano nato a Schieti di Urbino nel 1922, morto nel 2008. Parole
con le quali dà inizio ad un romanzo che racconta e segna un pezzo di storia,
la Resistenza, in un pezzo di mondo, la vallata del Foglia. L'autenticità e la
preziosità di questa testimonianza impressa in un libro credo stia proprio in
questa doppia matrice. "I Maltagliati" non è solamente un romanzo
sulla Resistenza, è un romanzo autenticamente della Resistenza, non
parla dell'ethos popolare degli umili e coraggiosi abitanti di una vallata, è
un romanzo che è parte integrante di quell'ethos, ne rappresenta lo specchio e
il "figliolo".
I maltagliati, tipico e umile
pasto della gente della vallata, risultano così essere il simbolo dello spirito
col quale l'assessore comunale, maestro, scrittore, partigiano Corbucci ci ha
tramandato i suoi ricordi. Ma non solo. Maltajeti
è anche il modo con cui i vecchi saggi chiamavano gli abitanti della vallata,
nati e svezzati dall’aria “fina fina” che dal fiume Foglia attraversa la flora
e la fauna della vallata e l’anima della gente che vi abita. Corbucci
sottolinea chiaramente come la presenza del fiume abbia segnato questa gente,
abituata a vivere in una terra di confine, come tempo addietro fece il Foglia
delimitando il territorio dei Malatesta di Rimini dal Montefeltro. E come ogni
terra di confine, essa è abitata da gente abituata a cavarsela con le proprie
forze, umile e orgogliosa, legata alla terra e alla tradizione, di stampo essenzialmente e autenticamente
popolare, temprata dal lavoro nei campi e nelle miniere. Gente concreta,
coraggiosa, anticonformista, fiera. Non
a caso durante il fascismo la Val del Foglia assumeva il nome, coniato dai
fascisti, di “valle della delinquenza”. Questa valle durante la Resistenza
esprimerà tanti partigiani validi e coraggiosi, di cui Corbucci è degno
esponente nella sua vita e narratore in queste pagine. Tra digressioni sugli
stili di vita di contadini, minatori, su usanze festose come il veglione e
tradizioni come la veglia, il romanzo avanza e imposta un mirabile intreccio
tra storia, guerra, cultura, territorio. La Resistenza viene così presentata in
una prospettiva che, senza banalizzarne la complessità, ne arricchisce la
letteratura inerente attraverso la sua immersione nella realtà di un territorio
di stupefacente bellezza e interesse, purtroppo spesso ignorate.
Pur mantenendo un’impronta di
stampo spiccatamente romanzesco, non per questo Corbucci si esime dal
trascrivere interessanti cronache di guerra tra partigiani e repubblichini che
fanno parte del bagaglio della sua propria esperienza. Poco più che ventenne
costretto ad arruolarsi contro la sua volontà nell’esercito italiano, comincerà
la sua esperienza in montagna a inizio ’44 dopo aver disertato da un esercito
spaesato e disorganizzato dai i fatti dell’8 settembre. Presterà servizio
presso il distaccamento Gasperini, del quale sarà presto comandante, facente
parte del terzo battaglione (capitanato da Cristoforo Moscioni, in tempi di guerra
Vittorio) della V Brigata Garibaldi di Pesaro.
Un esempio di come Corbucci nel
suo libro riesca a coniugare il piacere della narrazione con informazioni
dettagliate lo abbiamo dallo spazio che dedica alla relazione del comandante
della V Brigata Garibaldi Pesaro, Ottavio Ricci (Nicola) e che qui riportiamo
in parte: “la V
Brigata Garibaldi contava 750 effettivi divisi in 5
battaglioni con tre distaccamenti ciascuno. Il distaccamento Gasperini faceva
parte del III battaglione insieme ai distaccamenti Matteotti e Guadalajara. La
brigata si avvaleva anche di un reparto di polizia e di due reparti del genio
comandati dal sottotenente Vianello Claudio. Per i collegamenti con gli
eserciti alleati […] era incaricato il generale Mann”. Bagliori di cronaca storica
immersi con destrezza in un'atmosfera sfumata tra il fosco del dramma e vivace
avventura. Il giusto equilibrio tra periodare poetico e concretezza
dell'azione, che caratterizza un romanzo dal ritmo sinceramente naturale tipico
della vita dei contadini, lo troviamo anche nella cronaca dello scontro a
Ca'Mazzasette, un paesino vicino Urbino, che designa il 1 novembre 1943 l 'alba della Resistenza
nella provincia pesarese. Ciò che avvenne nel paesino il giorno della
commemorazione dei Santi rientra nel novero degli efferati atti di violenza e
morte perpetrati dalle squadracce fasciste e i soldati tedeschi. Si trattò di
una rappresaglia, eseguita per lanciare un monito inquietante agli abitanti del
paesino che ospitava nel silenzio Erivo Ferri, famoso partigiano della vallata.
Bernardi Pierino, Adele Cecchini, Assunta Grandicelli (rispettivamente di 19,
61 e 29 anni) persero la vita barbaramente per mano delle mitragliatrici
tedesche. Lo scontro divampò con l'intervento di Erivo Ferri, Mario Ferri e
altri che costrinsero gli assassini a battere in ritirata, alla quale però
nella notte seguirono i bombardamenti con i mortai nella città e la cattura di
29 persone prese ad ostaggio (alcune delle quali riusciranno a fuggire dal
carcere di Rimini grazie al bombardamento alleato della città). Corbucci
denuncia nel suo libro come varie autorità politiche e militari del luogo
cercarono di coprire questi tristi fatti di sangue, nel velleitario tentativo
di ostacolare l'emergere di un movimento di opposizione armato e organizzato
contro i fascisti e i nazisti. Invece i fatti del 1 novembre contribuiranno
allo sprigionamento dell'energia resistenziale nella provincia, che permetterà
alla “valle della delinquenza” di entrare anch'essa nella storia di un Paese
che dalla lotta per la libertà vedrà arricchire il proprio statuto di civiltà
con una Costituzione democratica. Così la zona diventa “base principale di
raccolta e trasferimento delle armi, diffusione della stampa clandestina, di
accoglienza e assistenza ai soldati stranieri fuggiti dai campi di
concentramento”. Il ruolo dei contadini, come fonte di informazioni e base di
appoggio per i combattenti, si rilevò fondamentale e, come i fatti poi
mostreranno, a nulla sarebbero serviti i tentativi dei fascisti di fare uso di
spie, di pagare farabutti per perpetrare efferatezze nella popolazione
riconducendone poi invano la responsabilità al movimento partigiano. La
resistenza nel pesarese si caratterizzò particolarmente con una connotazione
politica, e la prospettiva di libertà e uguaglianza contribuì a cementificare
un'alleanza sociale impossibile da sfaldare. Ciò detto è possibile ritenere che
la tripartizione di Claudio Pavone[1] in
merito alla natura del fenomeno Resistenza, nella quale si sarebbero
intrecciati tre tipi di guerra, patriottica, civile e di classe, per ciò che
riguarda la provincia di Pesaro Urbino si orienti in direzione leggermente
favorevole a quest'ultima. La guerra di Liberazione rappresentò così per il
territorio l'atto fondativo di una comunità rinnovata dal e nel patto
democratico, e che fin dalla nascita della Repubblica vide impressa nelle
organizzazioni sociali e nei propri punti di riferimento amministrativi i
tratti essenziali di quella alleanza. Non per questo venne meno l'aspetto
unitario della Resistenza, ben sottolineato da Paolo Volponi in un suo articolo
pubblicato nel periodico dell'Anpi di Pesaro Urbino “Memoria Viva”: “Nella
resistenza furono unite tutte le forze politiche e sociali del paese, ciascuno
portando libero e convinto le proprie idee e le proprie qualità per una vittoria comune e superiore a
qualsiasi interesse personale”.
Spesso rarefatti o stereotipati
dal fumo della retorica questi scrigni preziosi di memoria sociale,
testimonianze umane, libri, documenti, fotografie, a volte siedono in seconda
fila nel carro pittoresco e trionfale che alla musica del 150esimo anniversario
dell'unità d'Italia designa al ruolo di protagoniste principali unicamente le
mirabili gesta degli eroi risorgimentali. L'effetto combinato di un anno
dall'alto valore simbolico immerso in un cupo periodo quale è questo in cui
stiamo vivendo, può comportare il rischio che la celebrazione scivoli così in
un'atmosfera di barocche sembianze allontanandosi dal suo significato più
genuino. Il 150esimo compleanno del nostro Paese è la festa di riflessione
dell'Italia unita da Garibaldi, Cavour, Mazzini, Cattaneo, D'Azeglio,... i
leader di quell'Italia finalmente unita nella sovranità e nel territorio; ma è
anche la festa di quel secondo risorgimento che con dolore e coraggio le ha
donato un popolo. È pur vero che Risorgimento e Resistenza assumono vitalità
storica grazie all'azione di quella che è stata comunque una minoranza, una
Parte sul Tutto e per il Tutto. Ma è altrettanto vero che questo vale molto di
più per il primo che per il secondo e che quest'ultimo, quando non ha forgiato
il popolo dalla lotta per la libertà, l'ha intravisto e impresso in diritti,
articoli, leggi.
“I Maltagliati” è pertanto un
romanzo in grado di dare un utile contributo alla riflessione del nostro Paese
su se stesso. Ricco di descrizioni e notizie su una fetta di territorio
pesarese, nondimeno descrive numerose situazioni che al lettore attento e
fantasioso facilmente possono suggerire ragionamenti di profonda attualità.
Particolarmente toccante è la storia del partigiano Ioseph, in montagna
semplicemente Peppe, uno croato fuggito dal campo di concentramento di Anghiari
dove era stato riportato dalla Croazia in barcone dai tedeschi. La Croazia la
lasciò con il ricordo della figlia e la moglie violentate e il padre ammazzato
dai proiettili nazisti. Nella lotta di Resistenza dapprima vedrà l'occasione
per un'agognata e parossistica vendetta di sangue, ossessione tale da renderlo
valido esempio degli effetti di bestialità che la guerra induce nell'uomo; il
contatto umano con i partigiani che sono con lui, in particolare Ferriero, lo
aiuterà a superare il nichilismo di un odio senza scopo con la forza positiva
dello sforzo verso l'obiettivo della democrazia. È lo stesso sforzo costituente
che col treno del tempo viaggia di generazione in generazione, e lancia a
ciascuna di esse la sfida di un rinnovato impeto di attualizzazione e
rinvigorimento del suo messaggio e delle sue conquiste.
E questa non è né la prima né
l'ultima delle precise digressioni che coinvolgono personaggi, situazioni, vite
di uomini e donne che, da una prospettiva sempre diversa, intingono una
tavolozza in multicolori cangianti: la semplicità, la contraddizione, i
sentimenti, la quotidianità e la riflessione filosofica e politica, gli
incontri, i fatti, le tradizioni. Non è il primo, non è l'ultimo, sicuramente
neanche il migliore di tutti, ma questo romanzo attraverso una vicenda storica
delimitata in uno spazio geografico circoscritto dice la sua riguardo
all'inestimabile problema dell'uomo. Come poter interpretare altrimenti le
poche pregnanti righe che descrivono il conflitto interiore di Corbucci, di
fronte al dilemma se lasciar andare o meno due repubblichini scoperti in una
casupola nei pressi di Sant'Angelo in Vado? Anche se non giustiziati sul posto,
una volta portati al comando sarebbero stati interrogati, forse torturati,
forse uccisi. I due ragazzi dissero di essere disertori, erano terrorizzati.
Stavano tornando a casa. Non è forse in atto una tipica battaglia tra il proprio
senso del dovere e il senso di moralità individuale? Non sono forse in gioco
prassi di guerra, esempio di quel Super-Io sociale che talvolta opprime e talvolta alleggerisce la responsabilità, e
l'autocoscienza che percepisce il tempo, lo spazio, la propria esistenza
attraverso il “qui ed ora” dell'azione e della scelta ed è capace di concepire
un prima e un dopo? Non è forse un duello tra l'Io-guerra e l'Io-tuttoilresto?
Tra bestia e ragione? O come non considerare il problematico rapporto tra uomo
e verità, la sua ricerca, quando in mezzo ad un dialogo tra Corbucci e Don
Italo Mancini dei primi anni novanta, vi leggo della “fecondità del dubbio”? Il
XXI secolo prende in eredità dal passato la crisi di tante “Verità” del
novecento, sociali politiche religiose, che formulavano una propria dottrina
omnicomprensiva del mondo e della realtà lasciando ben poco spazio alla
“fecondità del dubbio”. Ma cos'è il dubbio? Che ruolo ha avuto e avrà nella
storia? Che ruolo ha nella nostra vita di tutti i giorni? Una società del
dubbio è un passo avanti o un passo indietro?
Insomma, “I Maltagliati” è un bel
romanzo che, un po' come la pasta umile di campagna che lo intitola, lascia più
di quel che si potrebbe pensare. Una gradevole sintesi polivalente. Una bella
testimonianza per non dimenticare la nostra storia.
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