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sabato 23 gennaio 2016

La battaglia di Iwo Jima. 1944

APPROFONDIMENTI

Le battaglie della Seconda Guerra Mondiale. Sintesi

Anastasia Latini

Mentre in Europa l’inizio del 1945 segnava il tramonto del Terzo Reich, la battaglia ancora infuriava nell’Oceano Pacifico e gli Stati Uniti stentavano a piegare la resistenza giapponese.
Una battaglia che per molti aspetti segnò il passo fu quella combattuta sull’isola di Iwo Jima, il cui esito fu immortalato dalla celebre foto Raising the Flag on Iwo Jima scattata da Joe Rosenthal che gli valse il Premio Pulitzer e che divenne una delle immagini più rappresentative della seconda guerra mondiale.
Iwo Jima è un’isola appartenente all’arcipelago Volcano, all’epoca abitata da circa 1.200 persone, tutte evacuate per renderla una roccaforte della difesa giapponese dopo l’arretramento del fronte, dovuto alla pressione degli americani sugli arcipelaghi occupati. 
Iwo Jima era un obiettivo strategico fondamentale per gli Stati Uniti che si preparavano ad un’invasione del territorio nazionale giapponese: l’isola faceva parte della sottoprefettura di Ogasawara che a sua volta era parte dell’amministrazione metropolitana di Tokyo, e la sua occupazione avrebbe procurato uno shock psicologico notevole ai giapponesi.
Altre motivazioni risiedevano nella sua posizione: era ad una distanza dalla capitale che permetteva di inviarvi gli aerei bombardieri B-29 con la scorta dei caccia North American P-51 Mustang, una scelta necessaria visto che questi ultimi avevano bisogno di una base di rifornimento   in prossimità dell’obiettivo da raggiungere, e facendone a meno i caccia giapponesi a difesa del territorio nipponico avrebbero costretto i Superfortess a volare a quote molto elevate, rendendo impreciso il bombardamento.
Il problema del rifornimento è stato centrale nella scelta di occupare Iwo Jima, che poteva diventare una base intermedia perfetta per il rifornimento dei B-59 di stanza nelle isole Marianne, così che fossero in grado di caricare più del doppio delle bombe, alleggeriti da meno carburante e che in caso fossero stati colpiti potevano atterrarvi senza dover attraversare un tratto consistente di oceano.
I giapponesi avevano dotato infine l’isola di due aeroporti, Motoyama 1 e 2, mentre un terzo era in costruzione e venne in seguito completato proprio dalle forze statunitensi che così potevano contare di un’isola fortificata e dotata di uno snodo aereo in pieno territorio nemico.
Nel giugno del 1944 la difesa di Iwo Jima veniva affidata al generale Tadamichi Kuribayashi che doveva prepararsi a difenderla senza la possibilità di ricevere rinforzi in caso di attacco.
Da circa 5.000 uomini si arrivò ad una guarnigione di 22.000 soldati, supportati da un consistente numero di cannoni antiaerei e anticarro, carri armati 97/Chi Ha e 95/Ha Go e mortai di ogni tipo.
Il vero capolavoro della difesa dell’isola tuttavia era la rete di tunnel e postazioni sotterranee che il generale Kuribayashi fece costruire: 18 km di gallerie rese possibili dalla conformazione vulcanica del terreno, che ne rese d’altro canto difficoltosa la costruzione a causa dei vapori sulfurei che si sprigionavano durante gli scavi.
La struttura sotterranea collegava bunker, casematte, trincee coperte e artiglierie, il tutto protetto da cemento armato e porte blindate e reso pressoché invisibile alle forze di invasione.
Questo fu il motivo che spinse i giapponesi a difesa dell’isola a non contrattaccare al consueto bombardamento che precedeva lo sbarco, cosicché le postazioni degli artiglieri rimanessero celate fino all’inizio della battaglia.
L’esercito nipponico poteva contare sulla preparazione e la superiorità strategica contro un nemico che aveva dalla sua possibilità di rifornimento quasi infinite e un maggior numero di uomini e mezzi da usare per la conquista dell’avamposto.
Kuribayashi sfruttò le ridotte dimensioni dell’isola, che ha un’area di 20 km², una lunghezza di 8 km e una larghezza di soli 730 m, predisponendo la divisione in tre settori di difesa: l’estremità meridionale in cui si trova il monte Suribachi, dotato di postazioni fortificate, collegato alla parte settentrionale da uno stretto istmo affidato alla fanteria, e infine le colline al centro e al nord dove si concentrava il maggior numero di soldati, chiamato Meat Grinder (tritacarne).
La battaglia come previsto venne anticipata da un violento bombardamento americano iniziato l’8 dicembre 1944 che proseguì in crescendo fino al giorno dello sbarco, procurando comunque pochi danni all’organizzata rete di protezione giapponese benché sia stato il più intenso e lungo operato dalla U.S. Navy in tutta la guerra.
Il piano difensivo di Kuribayashi prevedeva di iniziare l’azione contro gli invasori non sulla spiaggia, ma lungo l’area dove si trovavano le principali opere di difesa, carri armati, casematte e postazioni di artiglieria.
Il 19 febbraio i marines della IV e V Divisione (con la III nelle retrovie) sbarcarono sull’isola, preceduti da intensi bombardamenti di sei corazzate e cinque incrociatori della Marina e 120 aerei Vought e Curtiss, che disseminarono l’isola di bombe per ore prima che venisse dato il via libera alle truppe di terra.
Un errore dei giapponesi fu nella tempistica, infatti si diede il tempo ai marines di portare sull’isola tutto il necessario per costruire una testa di ponte in grado di assicurare il rifornimento di uomini e mezzi; nonostante la perfetta coordinazione del fuoco incrociato giapponese, sarebbe stato impossibile cacciare indietro gli americani.
Il 23 febbraio il monte Suribachi e l’aeroporto Motoyama 1 erano caduti, grazie all’uso dei lanciafiamme e dei carri armati Sherman dotati di questa arma che neutralizzò gli attacchi delle artiglierie sotterranee dei giapponesi, provati già da pesanti perdite dei primi giorni della battaglia.
Dal quinto giorno l’offensiva statunitense si concentrò nella zona centrale, la cosiddetta Meat Grinder, una delle maggiormente difese e che non si prestavano ad un uso efficiente dei carri dato il terreno roccioso.
Dopo un avanzamento a colpi di bombe a mano e lanciafiamme per contrastare gli attacchi dalla rete sotterranea giapponese, i difensori uscirono allo scoperto lanciandosi in un corpo a corpo tra i più sanguinosi del conflitto che si prolungò fino al 10 marzo.
Costretti a ripiegare lungo la costa nord-orientale, i giapponesi sferrarono un attacco kamikaze a discapito del parere contrario del generale Kuribayashi, che causò ulteriori perdite alle poche forze nipponiche rimaste, le quali si disgregarono definitivamente nell’ultima fase della battaglia.
Il 26 marzo le truppe giapponesi avevano capitolato e Kuribayashi era morto insieme alla maggior parte dei suoi soldati, su circa 22.000 uomini posti a difesa di Iwo Jima i morti erano superiori ai 18.000, mentre dalla parte statunitense si attestavano intorno ai 6.000, più l’affondamento della portaerei Bismarck Sea ad opera di un attacco kamikaze.
L’Operation Detachment (Operazione Distacco) era durata 35 giorni, impegnando 70.000 soldati americani di cui 30.000 sul campo di battaglia, in uno scontro frontale senza tregua tipico più del primo conflitto mondiale che del secondo.

Alla fine non bastò l’arte bellica e la volontà ferrea di morire per la difesa della propria patria ai giapponesi per battere un nemico in grado di schierare risorse materiali e supporto di navi e aerei enormemente maggiori in quella che è stata una delle battaglie decisive della guerra nel Pacifico.

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