APPROFONDIMENTI
Il rapporto tra l'Italia e l'Africa nella
prima metà del novecento. La conclusione della vicenda
coloniale italiana.
di Alessia Biasiolo*
Nelle
vicende italiane durante la seconda guerra mondiale, non si deve tralasciare la
considerazione dell’impero che l’Italia costituiva in quel momento. Le nostre
colonie erano l’Eritrea, la Somalia, la Libia e l’Etiopia, che veniva
comunemente chiamata Abissinia e che colpiva più di tutte le altre l’immaginario
collettivo. Aiutati da coloro che avevano condotto la campagna d’Africa, o da
chi comunque dimostrava di saperne un po’, gli italiani erano affascinati da
nomi come Massaua, Asmara, Macallè, quest’ultima città utilizzata anche per creare
degli scioglilingua. Alcuni di questi nomi erano diventati nomi di battesimo
dei figli o dei nipoti, erano insegnati a scuola con rigore dai maestri e
tutti, quindi, venivano ad imparare l’Africa, mito di conquista, di bellezza e
sogno di ricchezza di molti italiani tra i primi del Novecento e la seconda guerra
mondiale.
L’approdo
africano era arrivato per l’Italia all’indomani dell’unità nazionale,
incompleta, ma comunque tale da aver fatto nascere il Regno. E non fu una
decisione governativa: la società privata Rubattino di Genova, diede l’incarico
a Giuseppe Sapeto, nel 1870, di supervisionare la situazione d’Africa
all’indomani dell’apertura del Canale di Suez (avvenuta in effetti l’anno prima)
per cercare basi commerciali e appoggi per i traffici marittimi idonei. Già era
in atto la corsa a quale esploratore commerciale arrivava prima, e francesi e
inglesi, più che mai agguerriti, si erano già accaparrati le coste arabiche.
Giuseppe Sapeto puntò allora sulla Baia di Assab, in Eritrea, non dopo aver
trascorso tempo per villaggi sperduti e deserto. La Baia, poco abitata da
poveri pescatori, venne acquistata da Sapeto a nome della Rubattino per
ottomila talleri d’argento austriaci, moneta di assoluto pregio per le coste
africane. Nel frattempo, il governo italiano diresse le proprie attenzioni alla
costa tunisina, già meta di lavoratori italiani, ritenendola più adeguata
all’espansione, pertanto politicamente degli affari di una compagnia privata
non se ne faceva molto. Nel 1881, tuttavia, la Tunisia venne acquistata dalla
Francia, che non voleva essere meno della rivale commerciale già proprietaria
dell’Egitto, protettorato britannico in quel momento. Quindi, il governo italiano
rivolse le attenzioni alla Baia di Assab che venne acquistata per 416mila lire dalla
compagnia Rubattino, che manteneva però il diritto di utilizzo gratuito.
Nell’acquisto ebbe un peso importante l’ambizione reale di avere un vero impero,
mentre il governo italiano cercava di dimostrare che la giovane Italia, appena
nata come Regno davvero unitario, era degna di stare al passo e accanto alle
potenze imperialiste europee. In realtà, anche la politica inglese ebbe il suo
peso, perché con l’Italia che comperava terre africane, la corona inglese si
sarebbe garantita la limitazione dell’espansionismo francese, il riequilibrio
fra le potenze e, pertanto, una considerata corretta politica coloniale.
Mazzini
sosteneva l’azione civilizzatrice che sarebbe stata messa in atto nei Paesi
africani, bisognosi, secondo i benpensanti dell’epoca, di conoscere la civiltà
europea, di conoscere l’evangelizzazione, di poter assurgere a nazioni nel vero
senso della parola, considerate barbare molte zone del continente africano. E
Mazzini non era l’unico a pensarla così, prevalendo in Italia l’opinione di
un’azione sana e giusta nei confronti degli africani, soprattutto dell’Africa Nera.
Dichiarata colonia italiana nel 1890, non senza scontri sul territorio come la
battaglia di Dogali, con capitale prima provvisoria e poi ufficiale a Massaua,
l’Eritrea divenne la prima colonia italiana. Tuttavia, la questione cominciò a
mostrare problemi già con la firma del trattato economico ricordato come Trattato
di Uccialli, che prevedeva il riconoscimento dell’impero italiano in Eritrea da
parte etiope, contestato dal Negus abissino Menelik per via di forme di
traduzione che, nella versione aramaica e italiana, non corrispondevano. Ciò
fece sì che alcune clausole ritenute facoltative, soprattutto per i commerci e
le attività di ambasceria diplomatica, diventassero invece ufficiali per il
governo italiano, e questo, con la continua espansione italiana verso l’interno
dell’Eritrea, portò al conflitto con l’Etiopia.
Quindi,
con il pretesto di proteggere le carovane italiane, una delle quali era stata
attaccata, si disse, da predoni, il governo italiano mandò nel febbraio del 1895
un contingente di bersaglieri a Massaua, al comando di Tancredi Saletta. In
aprile venne occupata la regione del Tigrè, lasciandovi presidi vari che
vennero attaccati a sorpresa nel dicembre dalle truppe etiopiche. I soldati
italiani subirono una pesante sconfitta nella battaglia dell’Amba Alagi, il 7
dicembre 1895; in gennaio si arrese il presidio di Macallè dopo un assedio di
un paio di mesi. L’esercito abissino comandato dal negus Menelik, aggirò quindi
gli stanziamenti italiani comandati dal generale Oreste Baratieri e con truppe
appena arrivate dall’Italia a dare manforte, per trovarsi in ottima posizione
per dirigersi ad Adua, dalla quale poteva tentare di invadere l’Eritrea
italiana. Menelik tentò la strada diplomatica, proponendo di annullare il Trattato
di Uccialli e di cessare così le ostilità, ma il governo italiano non aveva
intenzione di cedere di fronte a un popolo “selvaggio”. Baratieri confidava che
l’esercito nemico fosse composto da 30-40mila soldati, armati soprattutto con
armi bianche, al quale avrebbe contrapposto poco più di 10mila uomini, armati
di fucili e appoggiati da ufficiali, cannoni, reparti di indigeni che, per
quanto fossero poco affidabili per la maggior parte, erano comunque effettivi.
Il primo marzo 1896 si combatté la celeberrima battaglia di Adua che si concluse
con una clamorosa sconfitta per l’Italia, il primo caso di un esercito europeo
battuto in terra d’Africa da soldati locali. Sarà la vergogna di Adua a dare
fiato alla riconquista coloniale fascista, al riscatto voluto da Mussolini
durante il suo governo.
A
seguito del disastroso risultato militare, Francesco Crispi lasciò il governo e
Baratieri venne sottoposto a corte marziale per l’inadatto piano strategico
messo in atto; tuttavia, la guerra si trascinò fino in ottobre, quando l’Italia
stralciò il Trattato di Uccialli riconoscendo l’indipendenza e la sovranità
dell’Etiopia con il Trattato di Addis Abeba, oltre alla definizione dei confini
eritrei.
L'impero visto dagli africani
All’Italia
rimaneva comunque l’Eritrea, colonizzata soprattutto da piemontesi, e portata a
diventare un Paese più ospitale attorno ad Asmara, la capitale; e la Somalia,
Paese poverissimo comperato in talleri anch’esso dai ras locali.
Il
governo italiano, con la cocente sconfitta di Adua ancora bruciante, rivolse le
sue attenzioni alla Libia quando il governo dell’impero ottomano si rivelò
quanto mai impossibilitato a difendere la sua provincia. Da tempo
scricchiolante, l’impero turco, attaccato da più fronti proprio per la sua
debolezza e minato da ventate di nazionalismi interni che premevano per
l’indipendenza di altre regioni ad esso sottoposte, non era più in grado di
difendere la Libia dagli attacchi esterni.
La
dichiarazione di guerra arrivò nell’ottobre 1911 e oltre un migliaio di marinai
italiani, al comando del capitano di vascello Umberto Cagni, sbarcò sulle coste
libiche. Rapidamente si arrivò ad un trattato di pace, siglato nel 1912, che
portò all’Italia la Libia e le isole greche con capitale Rodi dette Dodecaneso
perché erano “dodici”. La conquista della Libia, apparentemente semplice sul
piano diplomatico, non lo fu sul piano pratico: i libici opposero una strenua
resistenza alla penetrazione di quella che ben presto venne denominata una
“scatola di sabbia”, comandati da Omar
al Mukhtar. Sarà solo Rodolfo Graziani a risolvere il problema per piegare
definitivamente le popolazioni locali, ricorrendo anche a mezzi drastici come
rappresaglie, deportazioni e centinaia di impiccagioni. Il governatore Italo
Balbo riuscirà poi a rendere la Libia una colonia moderna e vivibile, favorendo
l’emigrazione dall’Italia verso la colonia di numerose famiglie italiane che
avrebbero tramutato la sabbia in poderi coltivabili. Si ignorava la presenza
nel sottosuolo del petrolio.
Le
canzoni furono importanti per sottolineare le imprese coloniali. In un’epoca in
cui il consenso era ottenuto soprattutto con i nuovi media, la radio in
particolare, ma ben presto anche la televisione, con l’appoggio del cinema e
dei filmati sulle imprese italiane all’estero che venivano proiettati, anche la
canzone partecipava dell’attività di persuasione. Amata dagli italiani da
sempre, testimone delle imprese militari dei secoli, fino all’eroico
Risorgimento, la canzone imperialista doveva continuare la sua opera di
convincimento delle masse. Ecco allora il ritmo facile di “Faccetta nera” che
l’EIAR, antesignana della RAI, lanciò quando fu deciso di partire per
l’Abissinia, per la guerra che avrebbe riscattato le gesta italiche.
“Faccetta
nera” venne scritta nel 1935 da Renato Micheli e poi musicata da Mario
Ruccione. L’intento dei due era partecipare ad un concorso canoro indetto nel
quartiere romano di San Giovanni. La canzone era cantata in dialetto romanesco
e successivamente venne tradotta in italiano. Riscosse un indiscusso successo:
orecchiabile, simpatica, non aveva niente delle canzoni austere di regime,
militaresche e dagli intenti dominatori, che facevano dire ai legionari in
partenza per l’Africa che l’Africa bisognava pigliarla; questa si riprometteva
di rendere un sogno l’arrivo degli italiani per la bella moretta schiava fra
gli schiavi, mentre il tricolore italiano l’avrebbe riscattata, “Faccetta nera,
bella abissina”.
La
canzone rimase amata e nota anche quando, dopo la promulgazione delle leggi
razziali nel 1938, venne ritenuta poco consona alla nuova politica del regime:
troppo poco razzista e troppo buonista, venne bandita dalle canzoni cantabili
durante il regime fascista, ma la popolazione non se ne dimenticò lo stesso.
La
guerra contro l’Etiopia condusse a infauste mosse politiche per l’Italia. La
Società delle Nazioni (della quale faceva parte la stessa Etiopia dal 1923) si
scatenò contro il Paese per l’attacco e, soprattutto, per l’utilizzo di metodi
violenti e di gas per la guerra. Sarà proprio a seguito della guerra d’Etiopia
che l’Italia venne punita con l’embargo che la portò non solo ad avvicinarsi
all’unico Paese che sembrava adatto ad allearsi e che manteneva integre le
motivazioni di amicizia con l’Italia, ma ottenne il consenso popolare
entusiastico di molti italiani che prima restavano comunque tiepidi nei
confronti del regime. Le sanzioni economiche furono perlopiù simboliche, dato
che i rifornimenti pesanti arrivavano al Paese lo stesso, in modo particolare
il petrolio, ma anche rifornimenti industriali e derrate alimentari, pur se
mancavano generi coloniali o beni voluttuari come il pellame, le tinture e
simili. In ogni caso, il consenso al regime esplose, passando per la “Giornata
della fede” che vide milioni di persone donare allo Stato l’unico bene di
valore materiale che avevano, la fede nuziale, o altri oggetti d’oro se ne
avevano. Certo, non tutti erano d’accordo con il provvedimento, ma il consenso
fu altissimo, ad ascoltare il Duce per mantenere una Patria forte e autarchica
anche se le potenze straniere volevano calpestarla. Si raccoglieva ogni sorta
di metallo, si coltivava ovunque, si doveva avere una nazione forte ed
entusiasta di esserlo, forte di essere la madrepatria di un impero.
La
campagna internazionale contro l’Italia, comunque, continuava soprattutto
attraverso le pagine dei giornali, ad incolpare il Belpaese di crudeltà e
utilizzo dei gas vietati. Gli italiani si difesero sempre dalle accuse,
confermando che in dotazione ai soldati non vi erano assolutamente maschere
antigas, prova lampante che non si voleva usare il gas tossico e che non si
fosse usato, dal momento che senza protezioni il rischio di uccidere se stessi
sarebbe stato molto alto. La diatriba durò a lungo, alimentata da voci di varia
provenienza, soprattutto messe in giro dagli etiopi per impressionare
l’opinione pubblica mondiale a proprio favore, ma il comando italiano
continuava ad asserire che le immagini messe in circolazione fossero state
scattate nei lebbrosari e, pertanto, nessuna prova di ustioni causate da iprite
o altri gas comunque vietati. Infatti, sembra che il gas sia stato
effettivamente usato in piccole quantità e occasionalmente, in risposta all’uso
scorretto di armi vietate da parte del nemico, ma in ogni caso l’utilizzo non
era stato né sistematico né, probabilmente, fonte di danno grave alla popolazione,
tanto che nessun osservatore neanche straniero ne fece menzione se non nei
termini che ho scritto. Quindi anche le sanzioni contro l’Italia non avevano
ragione piena di esistere. Lo stesso Montanelli, ripetutamente intervistato in
merito come testimone diretto, ha sempre negato che si fossero utilizzati gas
tossici in Abissinia.
La
guerra d’Etiopia fu molto popolare, richiamando molti volontari
all’arruolamento e molti emigrati a tornare in Italia per poter partecipare
alla conquista nazionale per eccellenza: accanto a loro i veterani della prima
guerra mondiale, finalmente “di moda” dopo avere provato sulla propria pelle il
disprezzo al ritorno a casa finito il conflitto e consci di poter essere
d’esempio, così come di poter ancora contribuire a quella patria che tanto
amavano, orgogliosi di indossare ancora la divisa. Le pubblicità delle “belle
morette” abissine, dagli usi più disinvolti rispetto a quelli delle donne
italiane; il fascino dell’esotico; le pubblicità delle caramelle che
utilizzavano mori per incantare, tutto contribuì ad enfatizzare il momento,
anche se in fondo si sperava nelle terre assegnate, nei meriti che avrebbero
comportato un maggiore riconoscimento sociale, eccetera. Appunto anche il
giornalista Indro Montanelli partecipò alla campagna, da ventenne fascista al
comando di un manipolo di militari locali, affermando che si sentiva forte
dinanzi ai suoi uomini, lui unico bianco. Lui come moltissimi altri giovani cresciuti
nella gioventù fascista, avvezza a portare il moschetto (vero o di legno) da
quando era balilla, non poteva che vedere in tutto quello altro che l’orgoglio
della realizzazione personale, oltre che nazionale. Non ultima, la volontà di
libertà che andare in Abissinia voleva dire: uscire dall’Italia comunque
oscurata dal regime, dal continuo controllo di tutti su tutti, e trovare la
possibilità di respirare un’aria nuova, senza l’OVRA e le spie dappertutto,
dove sarebbe stato possibile costruire da nuovo magari anche l’ideale fascista.
Anche in questo caso le canzoni vengono in aiuto, dal momento che delle strofe
sottolineavano la smania per la partenza non solo degli italiani tutti, quanto
anche dei blasonati gerarchi fascisti che, se da un lato si tenevano lontani
dai rischi, dall’altro lato vedevano nella campagna abissina la possibilità di
ottenere onore facilmente e senza correre rischi inutili, tanto che per
l’Etiopia partirono praticamente tutti.
Mussolini
impiegò molti uomini e molti mezzi per riscattare l’onta di Adua e rinforzare,
ancora una volta, la visione di uno Stato forte, determinato e in cui la
politica fascista risolvesse ogni problema, presente e passato. Il pretesto
avvenne con lo scontro a fuoco per il controllo di una regione ricca di pozzi
d’acqua nel dicembre 1934, a seguito del quale l’Italia attaccò l’Etiopia senza
dichiarazione di guerra, anche questo un fatto che comportò la condanna della
Società delle Nazioni. L’incarico di piegare gli abissini lo ricevette Emilio
De Bono, camicia nera quadrumvira che, però, dimostrò di non essere adatto allo
scopo. Pertanto il Duce lo sostituì con Pietro Badoglio, più esperto e capace
di sconfiggere gli etiopi ancora una volta agguerriti e di certo non disposti a
cedere senza lotta alle mire espansionistiche italiane. Quindi, Badoglio entrò
vittorioso in Addis Abeba a bordo della sua Lancia Ardita il 5 maggio 1936,
sotto una pioggia scrosciante; dalla Somalia aveva attaccato l’Abissinia
Rodolfo Graziani. Vittoria e vendetta fatte, a beneficio di un regime che si
vedeva consolidato, Vittorio Emanuele III assumeva il titolo di imperatore
d’Etiopia e l’imperatore etiope Hailé Selassié, incoronato nel 1930, andava in
esilio.
L’Etiopia
venne annessa all’Africa Orientale Italiana e Rodolfo Graziani, dopo la
rinuncia di Badoglio, assunse il titolo di viceré d’Etiopia. Non mancarono le
carcerazioni e le uccisioni dei locali rivoltosi, ma nemmeno la costruzione di
edifici e strade utilizzando la manodopera locale. Nel febbraio 1937, un
attentato a Graziani comportò ancora violenze: perpetrato con bombe durante il
ricevimento in onore della nascita di Umberto di Savoia, primogenito del Re,
causò a Graziani molte ferite. Quindi iniziò il rastrellamento e l’uccisione di
molte persone, secondo alcune stime nell’ordine di migliaia. In novembre,
l’incarico di viceré venne assunto da Amedeo di Savoia, sotto il cui governo le
cose andarono decisamente meglio. Nato nel Palazzo della Cisterna di Torino nel
1898 da Emanuele Filiberto, secondo Duca d’Aosta, e da Elena di Borbone
Orléans, arruolatosi volontario nella prima guerra mondiale, Amedeo seguì lo
zio Duca degli Abruzzi in Somalia, dove si occupò di fare costruire la ferrovia
per Mogadiscio e della costruzione del villaggio intitolato allo zio. Amedeo
credeva fermamente che l’imperialismo dovesse portare la civiltà e così operò
durante la permanenza in Africa. Assolutamente contrario ad un’alleanza con la
Germania nazista, fu comunque in grado di organizzare la strenua difesa
dell’Africa Orientale Italiana sulle montagne etiopi, di fronte all’avanzata
inglese. Dal 17 aprile al 17 maggio 1941, asserragliato sull’Amba Alagi con
circa settemila uomini tra cui carabinieri, avieri, marinai, soldati della
sanità e indigeni, fronteggiò l’assedio del generale Cunningham forte di 39mila
uomini. La resa fu inevitabile, ma Vittorio Emanuele III concesse ad Amedeo di
Savoia la Medaglia d’oro al Valor militare. Preso prigioniero dagli inglesi,
Amedeo venne trasferito in Kenya, a Dònyo Sàbouk, presso Nairobi, infestato
dalla malaria. Morì a Nairobi, dov’era stato trasferito per l’aggravarsi delle
sue condizioni di salute, il 3 marzo 1942; volle essere sepolto a Nyeri, in
Kenya, vicino ai suoi 676 soldati e anche i soldati inglesi presenti al suo funerale
portarono il lutto al braccio.
La
vicenda abissina era durata soltanto una manciata d’anni, durante i quali
vennero costruiti 1.450 edifici pubblici, soprattutto da maestranze italiane;
in solo un anno e mezzo venne portata a termine la strada che da Massaua
raggiungeva Addis Abeba, 1600 chilometri. In sei mesi venne realizzata la
rotabile Komolcia-Assab, di 480 chilometri. Anche il sistema amministrativo
venne creato e organizzato in poco tempo, non facendo mancare scuole (anche
separate per cristiani e musulmani) elementari, tecniche, agrarie; così come
venne organizzato un valido sistema sanitario, una rete di pozzi, mulini,
fabbriche, centrali di produzione elettrica.
Nessuna
potenza coloniale spese più soldi, mezzi e uomini quanto l’Italia fece in Etiopia.
Anche l’Eritrea venne occupata dagli inglesi nel 1941. Per l’Eritrea il governo
italiano aveva pensato al ripopolamento con italiani coloni, ma le inadeguate
condizioni climatiche ed ambientali fecero naufragare il progetto, anche se non
mancarono costruzioni di palazzi, dighe, strade, molti dei quali intitolati ai
Savoia.
A
volte si dimentica, però, che l’Italia aveva anche un avamposto in Cina, dove
rimase per una quarantina d’anni. Era una concessione commerciale ad
amministrazione autonoma a Tientsin che ottenemmo con un accordo il 17 giugno
1902, pagando duemila lire oro all’anno e creando, così, un ottimo rapporto di
interscambio con i cinesi: si crearono, ad esempio, banche miste. In Manciuria
gli italiani costruirono anche alcune linee ferroviarie, sovrintesero alle
dogane, ebbero la direzione delle poste cinesi, affidata a Evaristo Caretti.
Attilio Lavagna contribuì alla riforma del codice penale, mentre piloti e
tecnici permettevano lo sviluppo dell’aeronautica cinese. In Cina esportavamo
automobili, macchine per l’industria, prodotti chimici.
La
sede della polizia italiana aveva scritte in italiano e in cinese e
campeggiavano sul cancello i fasci littori simbolo del regime, mentre il governo
italiano ottenne anche il permesso di risiedere nei quartieri di Shanghai e
Hanoy con un contingente di forze armate. La presenza delle case degli italiani
comportò anche la realizzazione delle rete elettrica, per cui le abitazioni
ebbero l’illuminazione prima che molte altre cinesi; la concessione aveva anche
compiti religiosi, pertanto una missione cattolica si occupava dell’assistenza
e dell’educazione dell’infanzia.
Con
lo scoppio della seconda guerra mondiale e l’invasione da parte del Giappone,
nostro alleato, della Cina, l’avamposto di Tientsin rimase isolato. Con
l’armistizio del settembre 1943, i giapponesi intimarono agli italiani rimasti
là di deporre le armi e di scegliere se rimanere fedeli a Badoglio o meno. Trentadue
italiani si dichiararono contrari al regime e vennero così internati in un
campo di concentramento. Le relazioni italo-cinesi ripresero alla fine del
conflitto per volere di Alcide de Gasperi.
Per
quanto riguarda il Dodecaneso, invece, occupato a partire dal 23 aprile 1912
dalle truppe italiane comandate da Giovanni Ameglio, comportò a 50mila italiani
di venire espulsi dal territorio turco, dovendo abbandonare tutti i loro averi
per imbarcarsi in un terribile viaggio di rientro in Italia che vide sofferenze
e fame. Firmato l’accordo con i turchi nel 1914 (primo Trattato di Losanna),
l’Italia dovette iniziare una controversia con la Grecia, che da sempre vantava
diritti sulle isole, e la Turchia stessa che concedette la piena sovranità
sulle dodici isole all’Italia nel 1923 con il secondo Trattato di Losanna.
In
realtà le isole erano quindici: Trageia, Patmos, Leipsoi, Leros, Lebita,
Kalymnos, Kos, Astympalaia, Nysiros, Syme, Syrna, Telos, Chalke, Karpathos,
Kasos, Kastellorizon, Rhodos. Si concluse di chiamarle Rodi, Castelrosso e
Dodecaneso che, nel 1930, diventerà colonia italiana con il nome di Isole
Italiane dell’Egeo. Fino a quella data erano un possedimento, non una colonia,
con un governatore che dipendeva dal Ministro delle Colonie. Siglato l’accordo,
le isole assunsero nome e lingua italiani, con privilegio della religione
cattolica rispetto all’ortodossa, turchi al margine della società e minoranza
ebraica spesso perseguitata. Nel 1925 tutti gli abitanti devono diventare
cittadini italiani e moltissimi preferiscono emigrare, soprattutto negli Stati
Uniti.
Le
isole sono povere; soltanto Rodi si trasforma con begli edifici, un nuovo
porto, molti alberghi, potenziando traffici e soprattutto il turismo. Il regime
fascista, però, governò prevalentemente con la forza e questo allontanò ancor
più le comunità greca e turca dalla comunità italiana.
Durante
la guerra, le isole divennero importantissime per la strategia bellica,
pertanto i presidi vennero rinforzati, con anche dispiegamento di navi da
guerra nei porti, e così divenne più semplice l’integrazione tra i popoli coinvolti.
Con il 1943, però, i militari tedeschi sopraffanno i presidi italiani e si
impadroniscono delle isole. Con la fine del conflitto, il Dodecaneso rimase
all’Italia fino al 1947, quando dovette essere ceduto alla Grecia.
*comm.
Alessia Biasiolo, membro associato del CESVAM
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