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sabato 9 febbraio 2019

L'impero italiano in epoca fascista


APPROFONDIMENTI
Il rapporto tra l'Italia e l'Africa nella 
prima metà del novecento. La conclusione della vicenda
coloniale italiana.








di Alessia Biasiolo*

Nelle vicende italiane durante la seconda guerra mondiale, non si deve tralasciare la considerazione dell’impero che l’Italia costituiva in quel momento. Le nostre colonie erano l’Eritrea, la Somalia, la Libia e l’Etiopia, che veniva comunemente chiamata Abissinia e che colpiva più di tutte le altre l’immaginario collettivo. Aiutati da coloro che avevano condotto la campagna d’Africa, o da chi comunque dimostrava di saperne un po’, gli italiani erano affascinati da nomi come Massaua, Asmara, Macallè, quest’ultima città utilizzata anche per creare degli scioglilingua. Alcuni di questi nomi erano diventati nomi di battesimo dei figli o dei nipoti, erano insegnati a scuola con rigore dai maestri e tutti, quindi, venivano ad imparare l’Africa, mito di conquista, di bellezza e sogno di ricchezza di molti italiani tra i primi del Novecento e la seconda guerra mondiale.
L’approdo africano era arrivato per l’Italia all’indomani dell’unità nazionale, incompleta, ma comunque tale da aver fatto nascere il Regno. E non fu una decisione governativa: la società privata Rubattino di Genova, diede l’incarico a Giuseppe Sapeto, nel 1870, di supervisionare la situazione d’Africa all’indomani dell’apertura del Canale di Suez (avvenuta in effetti l’anno prima) per cercare basi commerciali e appoggi per i traffici marittimi idonei. Già era in atto la corsa a quale esploratore commerciale arrivava prima, e francesi e inglesi, più che mai agguerriti, si erano già accaparrati le coste arabiche. Giuseppe Sapeto puntò allora sulla Baia di Assab, in Eritrea, non dopo aver trascorso tempo per villaggi sperduti e deserto. La Baia, poco abitata da poveri pescatori, venne acquistata da Sapeto a nome della Rubattino per ottomila talleri d’argento austriaci, moneta di assoluto pregio per le coste africane. Nel frattempo, il governo italiano diresse le proprie attenzioni alla costa tunisina, già meta di lavoratori italiani, ritenendola più adeguata all’espansione, pertanto politicamente degli affari di una compagnia privata non se ne faceva molto. Nel 1881, tuttavia, la Tunisia venne acquistata dalla Francia, che non voleva essere meno della rivale commerciale già proprietaria dell’Egitto, protettorato britannico in quel momento. Quindi, il governo italiano rivolse le attenzioni alla Baia di Assab che venne acquistata per 416mila lire dalla compagnia Rubattino, che manteneva però il diritto di utilizzo gratuito. Nell’acquisto ebbe un peso importante l’ambizione reale di avere un vero impero, mentre il governo italiano cercava di dimostrare che la giovane Italia, appena nata come Regno davvero unitario, era degna di stare al passo e accanto alle potenze imperialiste europee. In realtà, anche la politica inglese ebbe il suo peso, perché con l’Italia che comperava terre africane, la corona inglese si sarebbe garantita la limitazione dell’espansionismo francese, il riequilibrio fra le potenze e, pertanto, una considerata corretta politica coloniale.
Mazzini sosteneva l’azione civilizzatrice che sarebbe stata messa in atto nei Paesi africani, bisognosi, secondo i benpensanti dell’epoca, di conoscere la civiltà europea, di conoscere l’evangelizzazione, di poter assurgere a nazioni nel vero senso della parola, considerate barbare molte zone del continente africano. E Mazzini non era l’unico a pensarla così, prevalendo in Italia l’opinione di un’azione sana e giusta nei confronti degli africani, soprattutto dell’Africa Nera. Dichiarata colonia italiana nel 1890, non senza scontri sul territorio come la battaglia di Dogali, con capitale prima provvisoria e poi ufficiale a Massaua, l’Eritrea divenne la prima colonia italiana. Tuttavia, la questione cominciò a mostrare problemi già con la firma del trattato economico ricordato come Trattato di Uccialli, che prevedeva il riconoscimento dell’impero italiano in Eritrea da parte etiope, contestato dal Negus abissino Menelik per via di forme di traduzione che, nella versione aramaica e italiana, non corrispondevano. Ciò fece sì che alcune clausole ritenute facoltative, soprattutto per i commerci e le attività di ambasceria diplomatica, diventassero invece ufficiali per il governo italiano, e questo, con la continua espansione italiana verso l’interno dell’Eritrea, portò al conflitto con l’Etiopia.
Quindi, con il pretesto di proteggere le carovane italiane, una delle quali era stata attaccata, si disse, da predoni, il governo italiano mandò nel febbraio del 1895 un contingente di bersaglieri a Massaua, al comando di Tancredi Saletta. In aprile venne occupata la regione del Tigrè, lasciandovi presidi vari che vennero attaccati a sorpresa nel dicembre dalle truppe etiopiche. I soldati italiani subirono una pesante sconfitta nella battaglia dell’Amba Alagi, il 7 dicembre 1895; in gennaio si arrese il presidio di Macallè dopo un assedio di un paio di mesi. L’esercito abissino comandato dal negus Menelik, aggirò quindi gli stanziamenti italiani comandati dal generale Oreste Baratieri e con truppe appena arrivate dall’Italia a dare manforte, per trovarsi in ottima posizione per dirigersi ad Adua, dalla quale poteva tentare di invadere l’Eritrea italiana. Menelik tentò la strada diplomatica, proponendo di annullare il Trattato di Uccialli e di cessare così le ostilità, ma il governo italiano non aveva intenzione di cedere di fronte a un popolo “selvaggio”. Baratieri confidava che l’esercito nemico fosse composto da 30-40mila soldati, armati soprattutto con armi bianche, al quale avrebbe contrapposto poco più di 10mila uomini, armati di fucili e appoggiati da ufficiali, cannoni, reparti di indigeni che, per quanto fossero poco affidabili per la maggior parte, erano comunque effettivi. Il primo marzo 1896 si combatté la celeberrima battaglia di Adua che si concluse con una clamorosa sconfitta per l’Italia, il primo caso di un esercito europeo battuto in terra d’Africa da soldati locali. Sarà la vergogna di Adua a dare fiato alla riconquista coloniale fascista, al riscatto voluto da Mussolini durante il suo governo.
A seguito del disastroso risultato militare, Francesco Crispi lasciò il governo e Baratieri venne sottoposto a corte marziale per l’inadatto piano strategico messo in atto; tuttavia, la guerra si trascinò fino in ottobre, quando l’Italia stralciò il Trattato di Uccialli riconoscendo l’indipendenza e la sovranità dell’Etiopia con il Trattato di Addis Abeba, oltre alla definizione dei confini eritrei.



L'impero visto dagli africani

All’Italia rimaneva comunque l’Eritrea, colonizzata soprattutto da piemontesi, e portata a diventare un Paese più ospitale attorno ad Asmara, la capitale; e la Somalia, Paese poverissimo comperato in talleri anch’esso dai ras locali.
Il governo italiano, con la cocente sconfitta di Adua ancora bruciante, rivolse le sue attenzioni alla Libia quando il governo dell’impero ottomano si rivelò quanto mai impossibilitato a difendere la sua provincia. Da tempo scricchiolante, l’impero turco, attaccato da più fronti proprio per la sua debolezza e minato da ventate di nazionalismi interni che premevano per l’indipendenza di altre regioni ad esso sottoposte, non era più in grado di difendere la Libia dagli attacchi esterni.
La dichiarazione di guerra arrivò nell’ottobre 1911 e oltre un migliaio di marinai italiani, al comando del capitano di vascello Umberto Cagni, sbarcò sulle coste libiche. Rapidamente si arrivò ad un trattato di pace, siglato nel 1912, che portò all’Italia la Libia e le isole greche con capitale Rodi dette Dodecaneso perché erano “dodici”. La conquista della Libia, apparentemente semplice sul piano diplomatico, non lo fu sul piano pratico: i libici opposero una strenua resistenza alla penetrazione di quella che ben presto venne denominata una “scatola di sabbia”, comandati  da Omar al Mukhtar. Sarà solo Rodolfo Graziani a risolvere il problema per piegare definitivamente le popolazioni locali, ricorrendo anche a mezzi drastici come rappresaglie, deportazioni e centinaia di impiccagioni. Il governatore Italo Balbo riuscirà poi a rendere la Libia una colonia moderna e vivibile, favorendo l’emigrazione dall’Italia verso la colonia di numerose famiglie italiane che avrebbero tramutato la sabbia in poderi coltivabili. Si ignorava la presenza nel sottosuolo del petrolio.
Le canzoni furono importanti per sottolineare le imprese coloniali. In un’epoca in cui il consenso era ottenuto soprattutto con i nuovi media, la radio in particolare, ma ben presto anche la televisione, con l’appoggio del cinema e dei filmati sulle imprese italiane all’estero che venivano proiettati, anche la canzone partecipava dell’attività di persuasione. Amata dagli italiani da sempre, testimone delle imprese militari dei secoli, fino all’eroico Risorgimento, la canzone imperialista doveva continuare la sua opera di convincimento delle masse. Ecco allora il ritmo facile di “Faccetta nera” che l’EIAR, antesignana della RAI, lanciò quando fu deciso di partire per l’Abissinia, per la guerra che avrebbe riscattato le gesta italiche.
“Faccetta nera” venne scritta nel 1935 da Renato Micheli e poi musicata da Mario Ruccione. L’intento dei due era partecipare ad un concorso canoro indetto nel quartiere romano di San Giovanni. La canzone era cantata in dialetto romanesco e successivamente venne tradotta in italiano. Riscosse un indiscusso successo: orecchiabile, simpatica, non aveva niente delle canzoni austere di regime, militaresche e dagli intenti dominatori, che facevano dire ai legionari in partenza per l’Africa che l’Africa bisognava pigliarla; questa si riprometteva di rendere un sogno l’arrivo degli italiani per la bella moretta schiava fra gli schiavi, mentre il tricolore italiano l’avrebbe riscattata, “Faccetta nera, bella abissina”.
La canzone rimase amata e nota anche quando, dopo la promulgazione delle leggi razziali nel 1938, venne ritenuta poco consona alla nuova politica del regime: troppo poco razzista e troppo buonista, venne bandita dalle canzoni cantabili durante il regime fascista, ma la popolazione non se ne dimenticò lo stesso.
La guerra contro l’Etiopia condusse a infauste mosse politiche per l’Italia. La Società delle Nazioni (della quale faceva parte la stessa Etiopia dal 1923) si scatenò contro il Paese per l’attacco e, soprattutto, per l’utilizzo di metodi violenti e di gas per la guerra. Sarà proprio a seguito della guerra d’Etiopia che l’Italia venne punita con l’embargo che la portò non solo ad avvicinarsi all’unico Paese che sembrava adatto ad allearsi e che manteneva integre le motivazioni di amicizia con l’Italia, ma ottenne il consenso popolare entusiastico di molti italiani che prima restavano comunque tiepidi nei confronti del regime. Le sanzioni economiche furono perlopiù simboliche, dato che i rifornimenti pesanti arrivavano al Paese lo stesso, in modo particolare il petrolio, ma anche rifornimenti industriali e derrate alimentari, pur se mancavano generi coloniali o beni voluttuari come il pellame, le tinture e simili. In ogni caso, il consenso al regime esplose, passando per la “Giornata della fede” che vide milioni di persone donare allo Stato l’unico bene di valore materiale che avevano, la fede nuziale, o altri oggetti d’oro se ne avevano. Certo, non tutti erano d’accordo con il provvedimento, ma il consenso fu altissimo, ad ascoltare il Duce per mantenere una Patria forte e autarchica anche se le potenze straniere volevano calpestarla. Si raccoglieva ogni sorta di metallo, si coltivava ovunque, si doveva avere una nazione forte ed entusiasta di esserlo, forte di essere la madrepatria di un impero.
La campagna internazionale contro l’Italia, comunque, continuava soprattutto attraverso le pagine dei giornali, ad incolpare il Belpaese di crudeltà e utilizzo dei gas vietati. Gli italiani si difesero sempre dalle accuse, confermando che in dotazione ai soldati non vi erano assolutamente maschere antigas, prova lampante che non si voleva usare il gas tossico e che non si fosse usato, dal momento che senza protezioni il rischio di uccidere se stessi sarebbe stato molto alto. La diatriba durò a lungo, alimentata da voci di varia provenienza, soprattutto messe in giro dagli etiopi per impressionare l’opinione pubblica mondiale a proprio favore, ma il comando italiano continuava ad asserire che le immagini messe in circolazione fossero state scattate nei lebbrosari e, pertanto, nessuna prova di ustioni causate da iprite o altri gas comunque vietati. Infatti, sembra che il gas sia stato effettivamente usato in piccole quantità e occasionalmente, in risposta all’uso scorretto di armi vietate da parte del nemico, ma in ogni caso l’utilizzo non era stato né sistematico né, probabilmente, fonte di danno grave alla popolazione, tanto che nessun osservatore neanche straniero ne fece menzione se non nei termini che ho scritto. Quindi anche le sanzioni contro l’Italia non avevano ragione piena di esistere. Lo stesso Montanelli, ripetutamente intervistato in merito come testimone diretto, ha sempre negato che si fossero utilizzati gas tossici in Abissinia.
La guerra d’Etiopia fu molto popolare, richiamando molti volontari all’arruolamento e molti emigrati a tornare in Italia per poter partecipare alla conquista nazionale per eccellenza: accanto a loro i veterani della prima guerra mondiale, finalmente “di moda” dopo avere provato sulla propria pelle il disprezzo al ritorno a casa finito il conflitto e consci di poter essere d’esempio, così come di poter ancora contribuire a quella patria che tanto amavano, orgogliosi di indossare ancora la divisa. Le pubblicità delle “belle morette” abissine, dagli usi più disinvolti rispetto a quelli delle donne italiane; il fascino dell’esotico; le pubblicità delle caramelle che utilizzavano mori per incantare, tutto contribuì ad enfatizzare il momento, anche se in fondo si sperava nelle terre assegnate, nei meriti che avrebbero comportato un maggiore riconoscimento sociale, eccetera. Appunto anche il giornalista Indro Montanelli partecipò alla campagna, da ventenne fascista al comando di un manipolo di militari locali, affermando che si sentiva forte dinanzi ai suoi uomini, lui unico bianco. Lui come moltissimi altri giovani cresciuti nella gioventù fascista, avvezza a portare il moschetto (vero o di legno) da quando era balilla, non poteva che vedere in tutto quello altro che l’orgoglio della realizzazione personale, oltre che nazionale. Non ultima, la volontà di libertà che andare in Abissinia voleva dire: uscire dall’Italia comunque oscurata dal regime, dal continuo controllo di tutti su tutti, e trovare la possibilità di respirare un’aria nuova, senza l’OVRA e le spie dappertutto, dove sarebbe stato possibile costruire da nuovo magari anche l’ideale fascista. Anche in questo caso le canzoni vengono in aiuto, dal momento che delle strofe sottolineavano la smania per la partenza non solo degli italiani tutti, quanto anche dei blasonati gerarchi fascisti che, se da un lato si tenevano lontani dai rischi, dall’altro lato vedevano nella campagna abissina la possibilità di ottenere onore facilmente e senza correre rischi inutili, tanto che per l’Etiopia partirono praticamente tutti.
Mussolini impiegò molti uomini e molti mezzi per riscattare l’onta di Adua e rinforzare, ancora una volta, la visione di uno Stato forte, determinato e in cui la politica fascista risolvesse ogni problema, presente e passato. Il pretesto avvenne con lo scontro a fuoco per il controllo di una regione ricca di pozzi d’acqua nel dicembre 1934, a seguito del quale l’Italia attaccò l’Etiopia senza dichiarazione di guerra, anche questo un fatto che comportò la condanna della Società delle Nazioni. L’incarico di piegare gli abissini lo ricevette Emilio De Bono, camicia nera quadrumvira che, però, dimostrò di non essere adatto allo scopo. Pertanto il Duce lo sostituì con Pietro Badoglio, più esperto e capace di sconfiggere gli etiopi ancora una volta agguerriti e di certo non disposti a cedere senza lotta alle mire espansionistiche italiane. Quindi, Badoglio entrò vittorioso in Addis Abeba a bordo della sua Lancia Ardita il 5 maggio 1936, sotto una pioggia scrosciante; dalla Somalia aveva attaccato l’Abissinia Rodolfo Graziani. Vittoria e vendetta fatte, a beneficio di un regime che si vedeva consolidato, Vittorio Emanuele III assumeva il titolo di imperatore d’Etiopia e l’imperatore etiope Hailé Selassié, incoronato nel 1930, andava in esilio.
L’Etiopia venne annessa all’Africa Orientale Italiana e Rodolfo Graziani, dopo la rinuncia di Badoglio, assunse il titolo di viceré d’Etiopia. Non mancarono le carcerazioni e le uccisioni dei locali rivoltosi, ma nemmeno la costruzione di edifici e strade utilizzando la manodopera locale. Nel febbraio 1937, un attentato a Graziani comportò ancora violenze: perpetrato con bombe durante il ricevimento in onore della nascita di Umberto di Savoia, primogenito del Re, causò a Graziani molte ferite. Quindi iniziò il rastrellamento e l’uccisione di molte persone, secondo alcune stime nell’ordine di migliaia. In novembre, l’incarico di viceré venne assunto da Amedeo di Savoia, sotto il cui governo le cose andarono decisamente meglio. Nato nel Palazzo della Cisterna di Torino nel 1898 da Emanuele Filiberto, secondo Duca d’Aosta, e da Elena di Borbone Orléans, arruolatosi volontario nella prima guerra mondiale, Amedeo seguì lo zio Duca degli Abruzzi in Somalia, dove si occupò di fare costruire la ferrovia per Mogadiscio e della costruzione del villaggio intitolato allo zio. Amedeo credeva fermamente che l’imperialismo dovesse portare la civiltà e così operò durante la permanenza in Africa. Assolutamente contrario ad un’alleanza con la Germania nazista, fu comunque in grado di organizzare la strenua difesa dell’Africa Orientale Italiana sulle montagne etiopi, di fronte all’avanzata inglese. Dal 17 aprile al 17 maggio 1941, asserragliato sull’Amba Alagi con circa settemila uomini tra cui carabinieri, avieri, marinai, soldati della sanità e indigeni, fronteggiò l’assedio del generale Cunningham forte di 39mila uomini. La resa fu inevitabile, ma Vittorio Emanuele III concesse ad Amedeo di Savoia la Medaglia d’oro al Valor militare. Preso prigioniero dagli inglesi, Amedeo venne trasferito in Kenya, a Dònyo Sàbouk, presso Nairobi, infestato dalla malaria. Morì a Nairobi, dov’era stato trasferito per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, il 3 marzo 1942; volle essere sepolto a Nyeri, in Kenya, vicino ai suoi 676 soldati e anche i soldati inglesi presenti al suo funerale portarono il lutto al braccio.
La vicenda abissina era durata soltanto una manciata d’anni, durante i quali vennero costruiti 1.450 edifici pubblici, soprattutto da maestranze italiane; in solo un anno e mezzo venne portata a termine la strada che da Massaua raggiungeva Addis Abeba, 1600 chilometri. In sei mesi venne realizzata la rotabile Komolcia-Assab, di 480 chilometri. Anche il sistema amministrativo venne creato e organizzato in poco tempo, non facendo mancare scuole (anche separate per cristiani e musulmani) elementari, tecniche, agrarie; così come venne organizzato un valido sistema sanitario, una rete di pozzi, mulini, fabbriche, centrali di produzione elettrica.
Nessuna potenza coloniale spese più soldi, mezzi  e uomini quanto l’Italia fece in Etiopia. Anche l’Eritrea venne occupata dagli inglesi nel 1941. Per l’Eritrea il governo italiano aveva pensato al ripopolamento con italiani coloni, ma le inadeguate condizioni climatiche ed ambientali fecero naufragare il progetto, anche se non mancarono costruzioni di palazzi, dighe, strade, molti dei quali intitolati ai Savoia.
A volte si dimentica, però, che l’Italia aveva anche un avamposto in Cina, dove rimase per una quarantina d’anni. Era una concessione commerciale ad amministrazione autonoma a Tientsin che ottenemmo con un accordo il 17 giugno 1902, pagando duemila lire oro all’anno e creando, così, un ottimo rapporto di interscambio con i cinesi: si crearono, ad esempio, banche miste. In Manciuria gli italiani costruirono anche alcune linee ferroviarie, sovrintesero alle dogane, ebbero la direzione delle poste cinesi, affidata a Evaristo Caretti. Attilio Lavagna contribuì alla riforma del codice penale, mentre piloti e tecnici permettevano lo sviluppo dell’aeronautica cinese. In Cina esportavamo automobili, macchine per l’industria, prodotti chimici.
La sede della polizia italiana aveva scritte in italiano e in cinese e campeggiavano sul cancello i fasci littori simbolo del regime, mentre il governo italiano ottenne anche il permesso di risiedere nei quartieri di Shanghai e Hanoy con un contingente di forze armate. La presenza delle case degli italiani comportò anche la realizzazione delle rete elettrica, per cui le abitazioni ebbero l’illuminazione prima che molte altre cinesi; la concessione aveva anche compiti religiosi, pertanto una missione cattolica si occupava dell’assistenza e dell’educazione dell’infanzia.
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale e l’invasione da parte del Giappone, nostro alleato, della Cina, l’avamposto di Tientsin rimase isolato. Con l’armistizio del settembre 1943, i giapponesi intimarono agli italiani rimasti là di deporre le armi e di scegliere se rimanere fedeli a Badoglio o meno. Trentadue italiani si dichiararono contrari al regime e vennero così internati in un campo di concentramento. Le relazioni italo-cinesi ripresero alla fine del conflitto per volere di Alcide de Gasperi.
Per quanto riguarda il Dodecaneso, invece, occupato a partire dal 23 aprile 1912 dalle truppe italiane comandate da Giovanni Ameglio, comportò a 50mila italiani di venire espulsi dal territorio turco, dovendo abbandonare tutti i loro averi per imbarcarsi in un terribile viaggio di rientro in Italia che vide sofferenze e fame. Firmato l’accordo con i turchi nel 1914 (primo Trattato di Losanna), l’Italia dovette iniziare una controversia con la Grecia, che da sempre vantava diritti sulle isole, e la Turchia stessa che concedette la piena sovranità sulle dodici isole all’Italia nel 1923 con il secondo Trattato di Losanna.
In realtà le isole erano quindici: Trageia, Patmos, Leipsoi, Leros, Lebita, Kalymnos, Kos, Astympalaia, Nysiros, Syme, Syrna, Telos, Chalke, Karpathos, Kasos, Kastellorizon, Rhodos. Si concluse di chiamarle Rodi, Castelrosso e Dodecaneso che, nel 1930, diventerà colonia italiana con il nome di Isole Italiane dell’Egeo. Fino a quella data erano un possedimento, non una colonia, con un governatore che dipendeva dal Ministro delle Colonie. Siglato l’accordo, le isole assunsero nome e lingua italiani, con privilegio della religione cattolica rispetto all’ortodossa, turchi al margine della società e minoranza ebraica spesso perseguitata. Nel 1925 tutti gli abitanti devono diventare cittadini italiani e moltissimi preferiscono emigrare, soprattutto negli Stati Uniti.
Le isole sono povere; soltanto Rodi si trasforma con begli edifici, un nuovo porto, molti alberghi, potenziando traffici e soprattutto il turismo. Il regime fascista, però, governò prevalentemente con la forza e questo allontanò ancor più le comunità greca e turca dalla comunità italiana.
Durante la guerra, le isole divennero importantissime per la strategia bellica, pertanto i presidi vennero rinforzati, con anche dispiegamento di navi da guerra nei porti, e così divenne più semplice l’integrazione tra i popoli coinvolti. Con il 1943, però, i militari tedeschi sopraffanno i presidi italiani e si impadroniscono delle isole. Con la fine del conflitto, il Dodecaneso rimase all’Italia fino al 1947, quando dovette essere ceduto alla Grecia.

*comm. Alessia Biasiolo, membro associato del CESVAM



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