ARCHIVIO
Ritornare all'età giovanile,
rileggere le versioni che si dovevano tradurre
dal greco,
questa qui presentata eè stata tradotta da Luigi Settembreini,
nell'ottocento,
serve a fa comprendere che spesso il nuovo, presentato come grande scoperta,
non è altro che il vecchio
di cui non si sapeva della precedente esistenza.
Luciano
di Samosata
XXV.
DEL MODO DI SCRIVERE LA STORIA.
Si conta, o mio Filone, che quei di Abdera, al
tempo del re Lisimaco, furon presi da una nuova malattia. A tutti veniva una
febbre gagliardissima fin dal cominciare e continua; poi verso il settimo
giorno, a chi scorreva molto sangue dal naso, a chi compariva largo sudore, e
la febbre scioglievasi. Ma il male travolgeva le loro menti in modo ridicolo,
tutti davan di volta per la tragedia, e recitavano versi giambi, e gridavano, e
specialmente declamavano ciascuno tra sè l’Andromeda di Euripide, e i versi del
soliloquio di Perseo: sicchè tutta la città era piena di gialli e magri
declamatori settimanali che a gran voci belavano: Tu, de’ Numi e degli uomini
tiranno, O Amore; e quel che segue. La cosa durò un pezzo: finchè venuto
l’inverno e un freddo grande li risanò di quella pazzia. Della quale, io credo
fu cagione Archelao, famoso tragedo di quel tempo, che in mezzo a’ grandi
bollori della state, rappresentò loro l’Andromeda in tal modo che molti nello
stesso teatro furono assaliti dalla febbre, e poi che si levarono, si diedero a
recitar tragedie, essendo rimasta fitta nella loro mente l’Andromeda, e
credendo ciascuno di vedersi ancora innanzi agli occhi Perseo e Medusa. Ora il
caso è lo stesso: la malattia degli Abderiti ora è venuta a molti letterati;
non di declamare tragedie (chè saria minor male farci udire bei versi altrui),
ma dacchè sono cominciati questi avvenimenti, la guerra contro i barbari, la
rotta in Armenia, e le continue vittorie,19 non ci è uno che non iscriva una
storia; anzi tutti son divenuti Tucididi, Erodoti, e Senofonti. Onde è proprio
vero che la guerra è madre di ogni cosa, se ci ha partorito a una volta questo
formicaio di storici. Ora io a vedere e udire costoro, o amico mio, mi sono
ricordato di un tratto di Diogene. Quando si sparse la voce che Filippo veniva
ad assalire Corinto, tutti i cittadini sbigottiti si diedero un gran fare, chi
preparava armi, chi portava pietre, chi rifaceva le mura, chi rafforzava i
bastioni, e chi faceva una cosa, chi un’altra. Diogene vedendo questo, e non
avendo niente da fare (perchè nessuno lo adoperava a niente), succintasi la
tunica, si messe con grande studio a rotolar su e giù pel Cranèo la botte nella
quale abitava. E dimandandogli un suo conoscente: Perchè fai questo, o Diogene?
Rotolo anch’io la botte, rispose, per non sembrare io solo scioperato fra tanti
affaccendati. Anch’io dunque, o mio Filone, per dir qualche parole in un tempo
di tanti parolai, e non rimaner muto come le comparse nella commedia, ho
creduto bene di fare il mio potere, di rotolare la botte mia; ma non di
scrivere una storia, nè di raccontar fatti, chè non sono tanto ardito, non aver
questa paura di me. Io so bene che pericolo è a rotolar su le pietre,
specialmente questo mio botticello, che è di creta e non molto forte, e se
intoppa in qualche ciottolo, ei si rompe, e ne dovrò raccogliere i cocci. Ciò
che io mi son proposto, come pigliar parte nella guerra standomene al sicuro
fuori la mischia, ora te lo dirò. Da questo fumo, da quest’onda, e da tutti i
pensieri che vanno con lo scrivere, io mi terrò lontano prudentemente: io
voglio dare qualche avvertimento e pochi precetti agli scrittori, per aiutarli
nella fabbrica, e non pretendo che su l’edifizio si scriva il mio nome, perchè
io appena con la punta delle dita tocco la creta. Benchè molti credano che non
han bisogno di precetti per questo, come non han bisogno di arte per camminare
o guardare, o mangiare, e che scrivere una storia sia cosa a tutti facile ed
agevole, purchè uno sappia esprimere ciò che gli viene in mente: pure tu sai, o
amico mio, che questa non è di quelle imprese che si pigliano per niente e si
conducono con agevolezza, ma più che gli altri componimenti vuole moltissima
cura, se, come 19 Il solo Giulio Capitolino narrando i fatti di M. Aurelio e di
L. Vero, parla brevemente di questa guerra contro Osroe re de’ Parti. Severiano
generale romano, di nazione Celta, fu vinto, ucciso, e distruttogli l’esercito
in Armenia da Otriade generale de’ Parti. Dipoi Stazio Prisco, Avidio Cassio, e
Marcio Vero vinsero i Parti in una gran battaglia presso Europo, città della
Media, vendicarono la sconfitta d’Armenia, presero Artassata, e pervennero sino
a Babilonia. Vedi Capitolino. 38 dice Tucidide, si vuol fare un monumento per
l’eternità. So bene che non persuaderò a molti, anzi parrò molesto ad alcuni,
specialmente a quelli che hanno già compiuta e pubblicata la loro storia. Se
essi furono lodati da chi li ascoltò, saria pazzia ora a sperare che mutassero
e correggessero ciò che una volta fu approvato, e riposto come in aule reali.
Pure anche ad essi potrò giovare: se mai avverrà qualche altra guerra, o dei
Celti contro i Geti, o degl’Indi contro i Battri (contro noi nessuno leverebbe
il capo, che tutti stanno cheti ed obbedienti), essi potranno meglio comporre
una storia, applicandovi questa regola, se loro parrà che sia diritta: se no,
seguiteran pure a misurare con la stessa misura, il medico non si curerà un
fico che tutti gli Abderiti vorranno declamare l’Andromeda. Un consiglio deve
avere due parti, deve insegnare ciò che è da seguire, e ciò che è da fuggire;
diciamo primamente da quali cose deve fuggire chi scrive una storia, da quali
specialmente tenersi puro e mondo; e dipoi che deve egli fare per non fallire
la via diritta e più breve, come incominciare, come ordinare i fatti, che misura
dare a ciascuno di essi, quali tacere, quali esporre lungamente, quali è meglio
accennare, come narrarli ed unirli; ed altrettali cose che diremo dipoi. Per
ora parliamo dei vizi che stanno coi cattivi scrittori. Degli errori che sono
comuni ad ogni specie di scrittura, nella lingua, nell’armonia, nelle sentenze,
ed ogni altra mancanza d’arte, saria lungo a discorrere, e non entrano nel mio
argomento. Gli errori poi che si commettono nelle storie, li troverai
facilmente, se avrai la pazienza che ho avuta io di prestar le orecchie ad
ascoltarle tutte. Nondimeno non sarà fuor di proposito ricordarne alcuni, per
dare un esempio di questa maniera di scritture. E primamente consideriamo che
grande errore fanno molti di questi scrittori, i quali invece di narrare i
fatti avvenuti, si spaziano a lodare principi e capitani, levando a cielo i
nostri, gettando a terra sconvenevolmente i nemici: senza sapere che la storia
è distinta e separata dall’encomio, vi sta un muro di mezzo, sono lontani, come
dicono i musici, due ottave l’una dall’altro. Chi scrive un encomio ha il solo
scopo di lodare e compiacere per qualunque modo il lodato; e se anche con la
bugia vi riesce, non se ne cura: ma se una bugia anche piccola cade nella
storia, ella non la sopporta, come quella che i medici chiamano l’asperarteria,
non sopporta qualunque bricioletta vada giù per essa. E pare ancora che costoro
non sappiano come altri propositi e regole ha la poesia, ed altri la storia. Lì
è piena libertà, ed una sola legge, ciò che piace al poeta: il quale invasato
ed inspirato dalle Muse, ancorchè voglia aggiogare cavalli alati ad un cocchio,
e faccia correre alcuni su le acque o sulle punte delle spighe, non gli si può
dir nulla: e quando il loro Giove con una catena solleva e tiene sospesa la terra
ed il mare, essi non temono che la si rompa, e l’universo vada giù in
conquasso. Anzi se vogliono lodare Agamennone non puoi impedirli che lo
facciano simigliante pel capo e per gli occhi a Giove, pel petto a Nettuno, pel
cinto a Marte; chè dev’essere un composto di tutti gli Dei il figliuolo d’Atreo
e d’Aeropa, e non basta il solo Giove, o Nettuno, o Marte a dargli compiuta
bellezza. Se la storia accoglie siffatte adulazioni, che altro ella diventa se
non una poesia pedestre, priva di poetica magniloquenza, e che senza versi,
però senza bellezza, racconta tante bugie? Grande, anzi stragrande è questo
errore di non distinguere ciò che conviene alla storia, e ciò che alla poesia,
ed introdurre nella storia i vezzi e gli ornamenti poetici, la favola, l’encomio,
e le altre pompose esagerazioni: come se ad un atleta robusto, e di quelli che
paion proprio querce, uno mettesse indosso una gonnella di porpora ed altri
ornamenti di cortigiana, e gli dipingesse ed imbellettasse la faccia. Per
Ercole! come lo renderebbe ridicolo, come lo brutterebbe con quello
adornamento! Non dico io già che non si debba lodare nella storia talvolta, ma
si deve lodare a tempo opportuno, e con certa misura, e da non dispiacere agli
avvenire che leggeranno, perocchè in questo bisogna aver molto riguardo alla
posterità, come dirò fra poco. Coloro poi i quali credono che la storia
contenga due parti, il dilettevole e l’utile, e però v’introducono l’encomio,
come quello che diletta e rallegra i leggitori, vanno assai lungi dal vero.
Questa distinzione è falsa perchè uno è il fine della storia, l’utile, che si
ottiene dal solo vero. Se vi si aggiunge il dilettevole, è meglio, come la
bellezza all’atleta: se no, Nicostrato d’Isidoto sarà sempre tenuto un altro
Ercole, perchè prode e più forte di due lottatori, benchè sia bruttissimo
d’aspetto: e il
bello
Alceo di Mileto lotterà con lui, e diverrà, come dicono, innamorato di
Nicostrato.20 Così la storia se avrà per giunta un po’ di dilettevole attirerà
più innamorati; ma finchè ella avrà la propria perfezione, cioè la esposizione
del vero, si curerà poco della bellezza. Ed ancora è da notare un’altra cosa,
che nella storia non è dilettevole ciò che è interamente favoloso, e le lodi
sperticate sono per ogni verso pericolose, se pensi che non ti ascolta il volgo
e la gente minuta, ma uomini che stanno lì per giudicarti, per appuntarti di
tutto, che non si lascerebbono sfuggire un ette, che hanno occhi più acuti di
quelli di Argo e in tutto il corpo, che osservano ad una ad una le cose che
dici, come i cambiatori le monete, che rigettano subito le false, e ricevono le
correnti e di buon conio. A questi si deve avere riguardo quando si scrive, e
non darsi pensiero degli altri, ancorchè scoppino in applausi. Se non avrai
riguardo a questi, se condirai la storia con favole, con lodi, e con altre
blandizie, tu la renderai simile ad Ercole in Lidia. Certo hai veduto in
qualche parte dipinto Ercole divenuto servo di Onfale, vestito
stranissimamente: lei con la pelle del lione indosso e con la clava in mano,
come una vera Ercolessa; lui in gonnella di croco e di porpora, in atto di
scardassar lana, ed avere da Onfale la sculacciata col sandalo. Sozzo
spettacolo vedere il corpo mezzo scoverto della veste, ed un dio sì virile
divenuto una femminetta. Il volgo forse ti loderà; ma i pochi savi, ai quali tu
non pensi, assai piacevolmente ne rideranno, vedendo la stranezza, la
sconvenienza, la ripugnanza della cosa: perchè il proprio di ciascuna cosa è
bello; ma se poi togli il proprio al brutto, lo fai bruttissimo. Lascio di dire
che le lodi, forse piacevoli al lodato, sono spiacevoli agli altri,
specialmente se troppo esagerate: come le fanno molti, che per cattivarsi la
benevolenza dei lodati, riescono nella più spiattellata adulazione: chè non
sanno farlo con arte, non velano le carezze, ma si gettano a sparpagliare un
mondo di menzogne incredibili e sbardellate. Onde neppure conseguono il fine
che essi desiderano: perchè i lodati, massime se sono uomini di senno, se ne
stomacano, e li sfatano come adulatori.
(continua)
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