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venerdì 23 novembre 2018

Le versioni dal greco: sempre attuali


ARCHIVIO
Ritornare all'età giovanile, 
 rileggere le versioni che si dovevano tradurre
 dal greco, 
 questa qui presentata eè stata tradotta da Luigi Settembreini, 
nell'ottocento, 
serve a fa comprendere che spesso il nuovo, presentato come grande scoperta,
 non è altro che il vecchio
di cui non si sapeva della precedente esistenza.

Luciano di Samosata
XXV. 
DEL MODO DI SCRIVERE LA STORIA.

 Si conta, o mio Filone, che quei di Abdera, al tempo del re Lisimaco, furon presi da una nuova malattia. A tutti veniva una febbre gagliardissima fin dal cominciare e continua; poi verso il settimo giorno, a chi scorreva molto sangue dal naso, a chi compariva largo sudore, e la febbre scioglievasi. Ma il male travolgeva le loro menti in modo ridicolo, tutti davan di volta per la tragedia, e recitavano versi giambi, e gridavano, e specialmente declamavano ciascuno tra sè l’Andromeda di Euripide, e i versi del soliloquio di Perseo: sicchè tutta la città era piena di gialli e magri declamatori settimanali che a gran voci belavano: Tu, de’ Numi e degli uomini tiranno, O Amore; e quel che segue. La cosa durò un pezzo: finchè venuto l’inverno e un freddo grande li risanò di quella pazzia. Della quale, io credo fu cagione Archelao, famoso tragedo di quel tempo, che in mezzo a’ grandi bollori della state, rappresentò loro l’Andromeda in tal modo che molti nello stesso teatro furono assaliti dalla febbre, e poi che si levarono, si diedero a recitar tragedie, essendo rimasta fitta nella loro mente l’Andromeda, e credendo ciascuno di vedersi ancora innanzi agli occhi Perseo e Medusa. Ora il caso è lo stesso: la malattia degli Abderiti ora è venuta a molti letterati; non di declamare tragedie (chè saria minor male farci udire bei versi altrui), ma dacchè sono cominciati questi avvenimenti, la guerra contro i barbari, la rotta in Armenia, e le continue vittorie,19 non ci è uno che non iscriva una storia; anzi tutti son divenuti Tucididi, Erodoti, e Senofonti. Onde è proprio vero che la guerra è madre di ogni cosa, se ci ha partorito a una volta questo formicaio di storici. Ora io a vedere e udire costoro, o amico mio, mi sono ricordato di un tratto di Diogene. Quando si sparse la voce che Filippo veniva ad assalire Corinto, tutti i cittadini sbigottiti si diedero un gran fare, chi preparava armi, chi portava pietre, chi rifaceva le mura, chi rafforzava i bastioni, e chi faceva una cosa, chi un’altra. Diogene vedendo questo, e non avendo niente da fare (perchè nessuno lo adoperava a niente), succintasi la tunica, si messe con grande studio a rotolar su e giù pel Cranèo la botte nella quale abitava. E dimandandogli un suo conoscente: Perchè fai questo, o Diogene? Rotolo anch’io la botte, rispose, per non sembrare io solo scioperato fra tanti affaccendati. Anch’io dunque, o mio Filone, per dir qualche parole in un tempo di tanti parolai, e non rimaner muto come le comparse nella commedia, ho creduto bene di fare il mio potere, di rotolare la botte mia; ma non di scrivere una storia, nè di raccontar fatti, chè non sono tanto ardito, non aver questa paura di me. Io so bene che pericolo è a rotolar su le pietre, specialmente questo mio botticello, che è di creta e non molto forte, e se intoppa in qualche ciottolo, ei si rompe, e ne dovrò raccogliere i cocci. Ciò che io mi son proposto, come pigliar parte nella guerra standomene al sicuro fuori la mischia, ora te lo dirò. Da questo fumo, da quest’onda, e da tutti i pensieri che vanno con lo scrivere, io mi terrò lontano prudentemente: io voglio dare qualche avvertimento e pochi precetti agli scrittori, per aiutarli nella fabbrica, e non pretendo che su l’edifizio si scriva il mio nome, perchè io appena con la punta delle dita tocco la creta. Benchè molti credano che non han bisogno di precetti per questo, come non han bisogno di arte per camminare o guardare, o mangiare, e che scrivere una storia sia cosa a tutti facile ed agevole, purchè uno sappia esprimere ciò che gli viene in mente: pure tu sai, o amico mio, che questa non è di quelle imprese che si pigliano per niente e si conducono con agevolezza, ma più che gli altri componimenti vuole moltissima cura, se, come 19 Il solo Giulio Capitolino narrando i fatti di M. Aurelio e di L. Vero, parla brevemente di questa guerra contro Osroe re de’ Parti. Severiano generale romano, di nazione Celta, fu vinto, ucciso, e distruttogli l’esercito in Armenia da Otriade generale de’ Parti. Dipoi Stazio Prisco, Avidio Cassio, e Marcio Vero vinsero i Parti in una gran battaglia presso Europo, città della Media, vendicarono la sconfitta d’Armenia, presero Artassata, e pervennero sino a Babilonia. Vedi Capitolino. 38 dice Tucidide, si vuol fare un monumento per l’eternità. So bene che non persuaderò a molti, anzi parrò molesto ad alcuni, specialmente a quelli che hanno già compiuta e pubblicata la loro storia. Se essi furono lodati da chi li ascoltò, saria pazzia ora a sperare che mutassero e correggessero ciò che una volta fu approvato, e riposto come in aule reali. Pure anche ad essi potrò giovare: se mai avverrà qualche altra guerra, o dei Celti contro i Geti, o degl’Indi contro i Battri (contro noi nessuno leverebbe il capo, che tutti stanno cheti ed obbedienti), essi potranno meglio comporre una storia, applicandovi questa regola, se loro parrà che sia diritta: se no, seguiteran pure a misurare con la stessa misura, il medico non si curerà un fico che tutti gli Abderiti vorranno declamare l’Andromeda. Un consiglio deve avere due parti, deve insegnare ciò che è da seguire, e ciò che è da fuggire; diciamo primamente da quali cose deve fuggire chi scrive una storia, da quali specialmente tenersi puro e mondo; e dipoi che deve egli fare per non fallire la via diritta e più breve, come incominciare, come ordinare i fatti, che misura dare a ciascuno di essi, quali tacere, quali esporre lungamente, quali è meglio accennare, come narrarli ed unirli; ed altrettali cose che diremo dipoi. Per ora parliamo dei vizi che stanno coi cattivi scrittori. Degli errori che sono comuni ad ogni specie di scrittura, nella lingua, nell’armonia, nelle sentenze, ed ogni altra mancanza d’arte, saria lungo a discorrere, e non entrano nel mio argomento. Gli errori poi che si commettono nelle storie, li troverai facilmente, se avrai la pazienza che ho avuta io di prestar le orecchie ad ascoltarle tutte. Nondimeno non sarà fuor di proposito ricordarne alcuni, per dare un esempio di questa maniera di scritture. E primamente consideriamo che grande errore fanno molti di questi scrittori, i quali invece di narrare i fatti avvenuti, si spaziano a lodare principi e capitani, levando a cielo i nostri, gettando a terra sconvenevolmente i nemici: senza sapere che la storia è distinta e separata dall’encomio, vi sta un muro di mezzo, sono lontani, come dicono i musici, due ottave l’una dall’altro. Chi scrive un encomio ha il solo scopo di lodare e compiacere per qualunque modo il lodato; e se anche con la bugia vi riesce, non se ne cura: ma se una bugia anche piccola cade nella storia, ella non la sopporta, come quella che i medici chiamano l’asperarteria, non sopporta qualunque bricioletta vada giù per essa. E pare ancora che costoro non sappiano come altri propositi e regole ha la poesia, ed altri la storia. Lì è piena libertà, ed una sola legge, ciò che piace al poeta: il quale invasato ed inspirato dalle Muse, ancorchè voglia aggiogare cavalli alati ad un cocchio, e faccia correre alcuni su le acque o sulle punte delle spighe, non gli si può dir nulla: e quando il loro Giove con una catena solleva e tiene sospesa la terra ed il mare, essi non temono che la si rompa, e l’universo vada giù in conquasso. Anzi se vogliono lodare Agamennone non puoi impedirli che lo facciano simigliante pel capo e per gli occhi a Giove, pel petto a Nettuno, pel cinto a Marte; chè dev’essere un composto di tutti gli Dei il figliuolo d’Atreo e d’Aeropa, e non basta il solo Giove, o Nettuno, o Marte a dargli compiuta bellezza. Se la storia accoglie siffatte adulazioni, che altro ella diventa se non una poesia pedestre, priva di poetica magniloquenza, e che senza versi, però senza bellezza, racconta tante bugie? Grande, anzi stragrande è questo errore di non distinguere ciò che conviene alla storia, e ciò che alla poesia, ed introdurre nella storia i vezzi e gli ornamenti poetici, la favola, l’encomio, e le altre pompose esagerazioni: come se ad un atleta robusto, e di quelli che paion proprio querce, uno mettesse indosso una gonnella di porpora ed altri ornamenti di cortigiana, e gli dipingesse ed imbellettasse la faccia. Per Ercole! come lo renderebbe ridicolo, come lo brutterebbe con quello adornamento! Non dico io già che non si debba lodare nella storia talvolta, ma si deve lodare a tempo opportuno, e con certa misura, e da non dispiacere agli avvenire che leggeranno, perocchè in questo bisogna aver molto riguardo alla posterità, come dirò fra poco. Coloro poi i quali credono che la storia contenga due parti, il dilettevole e l’utile, e però v’introducono l’encomio, come quello che diletta e rallegra i leggitori, vanno assai lungi dal vero. Questa distinzione è falsa perchè uno è il fine della storia, l’utile, che si ottiene dal solo vero. Se vi si aggiunge il dilettevole, è meglio, come la bellezza all’atleta: se no, Nicostrato d’Isidoto sarà sempre tenuto un altro Ercole, perchè prode e più forte di due lottatori, benchè sia bruttissimo d’aspetto: e il
bello Alceo di Mileto lotterà con lui, e diverrà, come dicono, innamorato di Nicostrato.20 Così la storia se avrà per giunta un po’ di dilettevole attirerà più innamorati; ma finchè ella avrà la propria perfezione, cioè la esposizione del vero, si curerà poco della bellezza. Ed ancora è da notare un’altra cosa, che nella storia non è dilettevole ciò che è interamente favoloso, e le lodi sperticate sono per ogni verso pericolose, se pensi che non ti ascolta il volgo e la gente minuta, ma uomini che stanno lì per giudicarti, per appuntarti di tutto, che non si lascerebbono sfuggire un ette, che hanno occhi più acuti di quelli di Argo e in tutto il corpo, che osservano ad una ad una le cose che dici, come i cambiatori le monete, che rigettano subito le false, e ricevono le correnti e di buon conio. A questi si deve avere riguardo quando si scrive, e non darsi pensiero degli altri, ancorchè scoppino in applausi. Se non avrai riguardo a questi, se condirai la storia con favole, con lodi, e con altre blandizie, tu la renderai simile ad Ercole in Lidia. Certo hai veduto in qualche parte dipinto Ercole divenuto servo di Onfale, vestito stranissimamente: lei con la pelle del lione indosso e con la clava in mano, come una vera Ercolessa; lui in gonnella di croco e di porpora, in atto di scardassar lana, ed avere da Onfale la sculacciata col sandalo. Sozzo spettacolo vedere il corpo mezzo scoverto della veste, ed un dio sì virile divenuto una femminetta. Il volgo forse ti loderà; ma i pochi savi, ai quali tu non pensi, assai piacevolmente ne rideranno, vedendo la stranezza, la sconvenienza, la ripugnanza della cosa: perchè il proprio di ciascuna cosa è bello; ma se poi togli il proprio al brutto, lo fai bruttissimo. Lascio di dire che le lodi, forse piacevoli al lodato, sono spiacevoli agli altri, specialmente se troppo esagerate: come le fanno molti, che per cattivarsi la benevolenza dei lodati, riescono nella più spiattellata adulazione: chè non sanno farlo con arte, non velano le carezze, ma si gettano a sparpagliare un mondo di menzogne incredibili e sbardellate. Onde neppure conseguono il fine che essi desiderano: perchè i lodati, massime se sono uomini di senno, se ne stomacano, e li sfatano come adulatori.
(continua)

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