APPROFONDIMENTI
Ferdinando Sanfelice di Monteforte
Chi sono i grandi Comandanti di Marina, come
indica il titolo? Si possono seguire due interpretazioni: la prima, più
classica, è quella di scegliere dei personaggi che siano un esempio di vita,
nella buona come nella cattiva sorte, per Voi giovani.
Come esempio di questo
primo approccio, vorrei citarVi un comandante della II Guerra Mondiale che,
quando la sua nave, colpita, stava affondando, riunì l’equipaggio, lo fece
calare in acqua e poi rimase a bordo, per affondare con la sua nave. Sentiamo
come lo descrisse il grande Buzzati:
“La sua figura nelle tenebre tra l’eco degli ultimi
schianti pareva ancora più alta del solito; essa aveva ancora la sua eleganza
severa e nessuno, tranne l’ufficiale di rotta, aveva notato il segno vermiglio
sulla guancia. Un ufficiale, voltandosi indietro mentre si allontanava a nuoto
lo vide ancora fermo in coperta. Poco prima aveva tratto di tasca l’astuccio
delle sigarette, ne aveva infilata una con cura nel lungo bocchino, aveva
acceso, come fosse una sigaretta qualsiasi (e non l’ultima della sua vita). Si
narra pure da alcuno che, in tal modo fumando, si sia allontanato verso prora,
sulle lamiere già oblique, in silenzio, scomparendo tra nembi di fumo. Forse desiderava
restare qualche istante ancora da solo, a pensare, per dire addio alla nave
morente”[1].
La seconda strada, che
seguirò oggi, è invece quella di parlarVi di alcuni comandanti che sono
divenuti grandi, per effetto delle vittorie che essi hanno conseguito. Questa
scelta riflette una distinzione che, fin dall’epoca dell’Unità, è stata fatta
nell’assegnare le decorazioni, rispettivamente ai valorosi ed ai vittoriosi:
infatti, oltre alle medaglie al valore, che premiano il coraggio, anche se
sfortunato, vi sono sempre state le decorazioni dell’Ordine Militare d’Italia
che, prima della Repubblica, si chiamava Ordine Militare di Savoia.
Queste ultime, in
particolare, sono sempre state concesse a chi avesse riportato una vittoria,
evento che, come diceva Napoleone, è “il grande fattore morale, che raddoppia
le energie, che domina la guerra e che diffonde l’ebbrezza della fiducia,
rafforzata dal successo ottenuto”[2].
Intendiamoci bene! Non
sempre chi vince è un personaggio che meriti di essere riprodotto, con tanto di
aureola, nelle immaginette dei santi, da tenere dentro il Messale Romano, e
guardare la domenica alla Santa Messa. Talvolta i vittoriosi – e lo stesso
Nelson non sfugge a questa regola - sono dei tipacci, che uniscono all’enorme
genialità dei terribili difetti di carattere, e ne vedremo, alla fine, un
esempio. Questo spiega perché, in Marina, si preferisca esaltare l’ardimento,
il valore, il sacrificio dei singoli, piuttosto che questo tipo di personaggio,
decisamente scomodo e controverso.
Peraltro, dovendo
arrivare gradualmente a questo tipo di persona, partiremo da un “vincitore
tranquillo”, senza gravi difetti di carattere.
Il primo personaggio di
cui vi parlerò è infatti il Comandante Giovanni Cerrina Feroni, poi divenuto
Ammiraglio di Squadra della Riserva Navale (scopriremo il perché fra poco).
Nato a Firenze il 18 luglio 1866, Cerrina Feroni frequentò l’Accademia con
risultati di rilievo, tanto che, sulla sua prima nota caratteristica,
l’Ammiraglio Comandante scrisse, il 30 settembre 1886, “è il primo del suo
corso. Promette di farsi un buon ufficiale”. A dire il vero, il Comandante alla
classe, pur riempiendolo di lodi, visto che, durante la campagna navale estiva,
Cerrina aveva svolto da Allievo le funzioni di un Guardiamarina, annotava alla
fine: “se seguita ad occuparsi e diventa più attivo, sarà un buon ufficiale”,
segno che, come tutti i giovani, anche lui aveva i suoi momenti di pigrizia.
Dopo l’Accademia, nelle
successive destinazioni d’imbarco, prima nel Mar Rosso e poi nelle Americhe,
tutti i Comandanti che lo avevano avuto a bordo dichiararono di averlo
impiegato con funzioni del grado superiore, e lo proposero per promozioni
anticipate. Questa proposta, normalmente, suscitava le ire degli Ammiragli che
revisionavano le note caratteristiche, non tanto per scetticismo, ma per il
bisogno di evitare carriere molto più rapide della media del tempo, purtroppo
molto lenta.
Vediamo quindi il
Contrammiraglio Martinez che osserva: “buon ufficiale e basta!”, il Vice
Ammiraglio Lovera di Maria che dice “confermo, con riserva circa la promozione
a scelta”, e così via. Da notare che tutte queste note entusiastiche
riguardavano imbarchi su navi destinate all’estero, in Mar Rosso o nelle due
Americhe, in un’epoca in cui, da quella parte del mondo, si navigava senza una
cartografia attendibile, si facevano brutti incontri per mare e, quando si
scendeva a terra, armati fino ai denti, si rischiava la pelle ogni momento.
Le nostre navi, poi, non
erano le più adatte a navigare nei mari lontani, vuoi nel caldo asfissiante
delle zone equatoriali, vuoi con l’onda lunga dell’oceano. Sentite questo
rapporto di navigazione della Regia Nave Etna,
dove era imbarcato il T.V. Cerrina, quando passò un giorno alla cappa, non
potendo, per il cattivo tempo, entrare a Madera: la nave
“si
abbandonava a lente rollate di 35º in media, e nonostante che la velocità fosse
stata ridotta al minimo consentito per governare, il mare invadeva
violentemente la prua ed il palco di comando, minacciando avarie”[3].
All’epoca, invece delle belle plance che
vedete, quando andate a bordo, vi era una specie di palchetto, aperto a tutte
le intemperie, dove stavano il comandante e l’ufficiale di guardia. Vi ricordo
anche che la stessa parola “plancia” viene dal francese “planche”, che vuol dire
“tavola”, del tipo, per intenderci, di quelle usate nell’edilizia!
Il fatto è che,
comunque, in mezzo a tutte queste difficoltà, il giovane Tenente di Vascello
Cerrina Feroni, come scrisse un suo Comandante, dimostrava di possedere “in
alto grado le migliori doti che possano desiderarsi in un ufficiale”, oltre ad
essere poliglotta, e quindi particolarmente ricercato per destinazioni su unità
destinate in mari lontani.
Dopo tanti anni
d’imbarco, arrivò, come accade ad ogni buon Ufficiale alla Rotta ed ai Segnali,
il momento di fare l’Aiutante di Bandiera ad Ammiragli in Comando Navale. Era
il 1895, ed il TV Cerrina Feroni si rese talmente utile che i suoi Ammiragli
non lo mollarono, se non per farlo andare in Comando, ben quattro anni dopo.
Merita citare, a tal
proposito, la lettera che il suo Ammiraglio, nel lasciarlo andare, scrisse
nientemeno che al Ministro della Marina:
“sento il dovere, nel separarmi da lui, di
segnalare all’E.V. i meriti di quest’ufficiale, abilissimo in tutto quanto può
richiedersi da un militare del suo grado, molto zelante, intelligente, dotato
di ottimo carattere e di molta coltura (sic!)”.
Il comando si svolse
prima sulle Torpediniere e poi sul Rimorchiatore Ercole, basato a Napoli ed impegnato per mille servizi, fra cui il
rimorchio di bettoline a La Maddalena. Per inciso, questa base era stata ideata
in funzione anti-francese e, a quell’epoca, era ancora in costruzione, mentre,
nel frattempo, i rapporti con i nostri cugini d’oltralpe erano diventati di
nuovo amichevoli. Inutile dire che, anche durante quel periodo, piovvero ben
meritati elogi sul giovane comandante.
Dopo essersi distinto in
quel modo, dove poteva andare un giovane e brillante ufficiale, nella sua prima
destinazione a terra? Ovviamente a Roma, dove il Comandante Cerrina fu prima ai
movimenti ufficiali e, dopo il comando del Barbarigo,
ancora nel Mar Rosso, nell’ufficio del Capo di Stato Maggiore, o per meglio
dire, in quello che fu il nucleo iniziale di uno Stato Maggiore, inteso come
oggi, e quindi un organismo che guarda avanti, prepara piani e programmi, in
sintesi delinea la politica di Forza Armata.
Ma la penetrazione
italiana nel Corno d’Africa richiedeva personaggi di qualità, ed il Ministero
delle Colonie chiese il Comandante Cerrina per sostituire “temporaneamente” il
governatore del Benadir – per intenderci, la zona di Mogadiscio – che si era
ammalato.
Come spesso accade da
noi, questo incarico, che doveva durare pochi mesi, lo occupò invece per tre
anni, visto che i suoi sostituti si rendevano indisponibili l’uno dopo l’altro,
sempre all’ultimo momento. Certo, governare il Benadir non era una destinazione
di tutto riposo, ma sorge il sospetto che il Ministero delle Colonie fosse
giunto alla conclusione, come dice il proverbio, che “cavallo vincente non si
cambia” e fece di tutto per tenersi il Comandante Cerrina, promosso, nel
frattempo Capitano di Vascello.
Questo tira e molla,
peraltro, aveva sollevato qualche malumore, in Marina, tanto che, una volta
rientrato e destinato in comando del piccolo incrociatore Liguria, il suo Ammiraglio, Borea Ricci, osservò nelle note
caratteristiche, nel novembre 1911, che il comandante Cerrina “è uno di quegli
ufficiali che non vissero nel Corpo né sul mare a sufficienza. È un peccato che
quest’ufficiale resti sempre e troppo a terra, perché è molto intelligente e se
navigasse sul serio potrebbe giustamente aspirare ad alti comandi”.
Inutile dire che queste
valutazioni erano un tantinello ingiuste, e lo si vide pochi mesi dopo quando,
nell’imminenza della guerra con la Turchia, al Comandante Cerrina fu affidato
il Comando Superiore delle nostre forze navali in Mar Rosso, incarico
normalmente affidato ad un Contrammiraglio.
Non si poteva fare una
scelta migliore, ed i risultati si videro subito: le nostre navi erano
dovunque, lungo le coste nemiche dell’attuale Arabia Saudita e dello Yemen,
costringendo il nemico sulla difensiva. Inoltre, il Comandante Cerrina convinse
gli sceicchi dello Yemen a ribellarsi all’Impero Ottomano, moltiplicando quindi
le difficoltà per le truppe turche che presidiavano la penisola arabica,
finché, il 6 maggio 1912, le nostre navi sorpresero la flottiglia nemica nella
baia di Kunfida, oggi Al Qunfudhah, distruggendo l’intera flottiglia di 7
cannoniere e catturando lo yacht Fauvette,
nave di bandiera del commodoro turco, che fu portato a Massaua, come preda di
guerra.
Bisogna notare che, con
questa azione, la Marina Italiana aveva conquistato, nel Mar Rosso, il dominio
assoluto del mare, evento rarissimo nella storia e sempre considerato, dagli
studiosi di strategia, come il fine ultimo da perseguire, nella guerra navale.
Il Comandante Cerrina Feroni rimane, quindi, l’unico marinaio italiano a poter
vantare un tale risultato. La motivazione della commenda di Ufficiale
dell’Ordine Militare di Savoia è chiarissima: “egli ottenne l’annientamento di
tutte le unità nemiche stazionanti nel Mar Rosso”. Non vi sono motivazioni
simili in tutta la nostra storia, a parte questa!
Alla fine della guerra,
lo stesso Presidente del Consiglio, Giolitti, lo impiegò per svolgere delle
missioni di diplomazia segreta nel 1913, e poi lo fece passare al Ministero
delle Colonie, alee cui dipendenze egli trascorse il resto della sua carriera,
divenendo prima governatore dell’Eritrea e quindi governatore della Somalia.
In fondo, seguendo la
sua passione per l’Africa, egli aveva trovato un modo elegante per uscire di
scena, sottraendosi quindi alle invidie dei colleghi e dei superiori. Vedremo
fra poco cosa accade, nel caso contrario.
Negli anni che
seguirono, la Marina, in segno di riconoscenza, gli conferì tutte le
promozioni, quale ufficiale della Riserva navale, fino al grado di Ammiraglio
di Squadra. Andato in pensione, Cerrina Feroni si stabilì a Roma, dove morì il
2 luglio 1952, a 86 anni.
Oggi, nel quartiere
romano delle Medaglie d’Oro, fra le traverse di via Trionfale,si può notare,
dopo via Premuda, una via Cunfida (sic), il ricordo più tangibile che ci
rimane, nella capitale, della più importante vittoria mai conseguita dalla
nostra Marina.
Agli atti dell’Ufficio
Storico, inoltre, c’è una lettera che dice molto sull’importanza dell’azione
svolta dal Comandante Cerrina in Mar Rosso, azione culminata con la vittoria di
Kunfida. L’allora Sottocapo di Stato Maggiore della Marina, alla fine della
guerra, scrisse infatti questa valutazione sul nostro personaggio,
controfirmata dal Capo di Stato Maggiore:
“L’azione svolta e diretta dal Comandante Cerrina
durante tutto il lungo periodo di guerra, in cui tenne il Comando Superiore
navale in Mar Rosso, fu sotto ogni riguardo oltremodo
commendevole, sia per gli alti concetti cui la ispirò, sia per i risultati
ottenuti, tanto nel campo guerresco che politico.
È con sicura coscienza che io sono in grado di
giudicarlo meritevole della qualifica di Ottimo, per brillanti qualità di
mente, vasta coltura professionale e generale, tatto diplomatico, squisita
educazione civile e militare ed alto sentimento del dovere”.
La firma, in fondo alla
lunga lettera, scritta di pugno, come si diceva un tempo, è quella del
Contrammiraglio Emanuele Cutinelli Rendina, che era stata la mente pensante
delle nostre azioni navali, durante quella guerra. È proprio di lui che
parleremo ora.
Emanuele Cutinelli
Rendina era nato a Napoli il 224 novembre 1860, ed entrò alla Scuola di Marina
il 1 novembre 1874, come si usava allora, uscendone fra i primi, nel 1879.
L’anno dopo, egli contrasse la sifilide, malattia che gli rese la salute
cagionevole, costringendolo a cure periodiche all’estero, ma che non ne piegò
il carattere né tantomeno la voglia di fare.
A bordo, il suo comportamento
disciplinare non fu certo dei migliori: nel 1883 prese 3 giorni di arresti di
rigore per non essersi recato al posto di manovra generale, poi nel 1886 egli
si batté in duello, alla sciabola, con un sottotenente dell’Esercito, per una
questione di donne, buscandosi un massimo di rigore. Ancora, nel 1888, gli
furono comminati altri arresti di rigore “per il modo sconveniente con cui fu
da lui redatto il Giornale di Chiesuola”. Infine, nel 1889, egli si fece tre
mesi di fortezza, a Forte Belvedere a Firenze, per essere andato a pernottare a
terra, essendo ufficiale d’ispezione sulla nave scuola canonieri Città di Napoli.
A questo punto, Voi
direste che l’ufficiale era un fallito, e che sarebbe stato messo in un angolo,
a condurre una carriera di scarso rilievo, senza soddisfazioni. Invece, si
verificò, ogni volta, uno strano fenomeno: lo stesso comandante che, per
beccarlo in flagrante e mandarlo in fortezza, si era alzato prestissimo per
andare a bordo alle 5 di mattina, scrisse infatti di lui, sulle note
caratteristiche: “buon ufficiale, che promette ottima riuscita. Sveglio,
attivo, rispettoso”. Anche in tutte le altre valutazioni, a parte un ricorrente
“non ancora ben piegato alla disciplina” i giudizi elogiativi si sprecavano, in
quanto Cutinelli, come riconosciuto da tutti i suoi superiori, “sa farsi molto
benvolere dai suoi inferiori mantenendo bene la disciplina ed ottenendo che
lavorino di buon animo”. Anche per lui, abbondarono le proposte di avanzamento
a scelta, malgrado la nota riluttanza degli Ammiragli verso un tal tipo di
provvedimento.
Quando Cutinelli andò in
comando, prima sull’Avviso Torpediniere Aquila,
e poi sul Rimorchiatore Atlante, i
Comandanti in Capo scrissero: “ottimo ufficiale, manovra la sua nave molto
bene; non manca di notevole ardimento. È dotato di molto sangue freddo”. Si era
nel 1896, l’anno della sconfitta di Adua, ed in questo periodo il T.V.
Cutinelli ebbe pure una decorazione prussiana, per un evento che non è rimasto
agli atti, ma che ha sicuramente una relazione con quei giudizi tanto
elogiativi sul suo sangue freddo.
Dopo questi eventi, gli
anni successivi furono, per Cutinelli, influenzati da una serie di difficoltà
personali, dalla salute della moglie, che per avere dei figli si sottopose a
tante operazioni, fino a morirne nel 1899, dalle cure per la sua malattia, che
lo costrinse per alcuni anni a rinunciare a destinazioni d’imbarco prestigiose.
Qualche anno dopo, nel
1903, il Comandante incorse in un altro incidente, avendo preso a schiaffi il
Direttore del giornale “La Palestra” di Taranto, che aveva lanciato accuse, poi
risultate non veritiere, contro di lui ed un altro ufficiale, come poi venne
fuori in sede di giudizio.
Qual’era la causa?
L’anno prima, durante dei disordini provocati dagli operai dell’Arsenale, il
comandante Cutinelli era andato a calmare gli animi, evitando l’intervento
delle forze dell’ordine, all’epoca decisamente violento, anche a costo di
buscare “colpi dei corpi contundenti” come disse il rapporto sui fatti. Il
resoconto fatto dal “La Palestra” presentava però i fatti sotto tutt’altra
luce, da cui la vendetta del comandante.
Di conseguenza,
Cutinelli ebbe il comando del vecchio Duilio,
in attesa di demolizione, e fu quindi inviato a comandare l’Urania, in Mar Rosso, in modo che restasse
lontano per un bel po’. Sul campo d’azione, di nuovo vennero fuori le qualità
dell’uomo, che resse anche, per qualche tempo, il comando della Stazione
Navale, vale a dire quello di tutte le navi dislocate nell’area.
Ritornato in Patria,
Cutinelli ebbe il comando della corazzata Emanuele
Filiberto, e quindi della Regina Margherita, dove si distinse
nell’organizzare i soccorsi durante il terremoto di Messina, meritando un
ennesimo encomio, oltre al giudizio “possiede qualità che lo fano emergere”.
Di questo periodo rimane
anche la testimonianza di un giovane ufficiale, Vittorio Tur, che scrisse,
nelle sue memorie, a proposito di Cutinelli: “sapeva portare con abilità la
nave, farsi benvolere dai suoi inferiori. Grande giocatore, intelligente,
simpatico con coloro che gli andavano a genio, marinaio, fece ottima figura”[4].
Pochi mesi dopo, però,
Cutinelli ne combinò un’altra delle sue, andando a Venezia, in incognito, dopo
aver dichiarato di fare le cure a Salsomaggiore, e autorizzando addirittura il
suo comandante in seconda a partire con la nave per le manovre estive,
raggiungendola qualche giorno dopo, a Torre Gaveta, a nord di Napoli, con una
motobarca. Giustamente, gli fu comminato un “severo rimprovero” insieme alla
valutazione che “i suoi atti, nei rapporti disciplinari, non furono sempre
informati alla dovuta ponderatezza”.
Anche qui, penserete, la
sua carriera sarebbe finita. Venne invece l’incaglio del nuovissimo
incrociatore San Giorgio, sulla Secca
della Cavallara, davanti al villaggio di Marechiaro, ben noto per le canzoni
napoletane. La nave stava conducendo le prove di macchina, e volle passare
troppo rasente alla boa, che poi risultò fuori posizione, finendo di
conseguenza sugli scogli.
Al Comandante Cutinelli
venne affidato il comando dell’unità, che fu salvata grazie alla collaborazione
fra lui ed il Comandante Cagni, malgrado i due si detestassero e si facessero
dispetti terribili. In premio, gli fu conferita dal Re, motu proprio, la Commenda dell’Ordine dei S.S. Maurizio e Lazzaro,
“per aver assunto il comando della Regia Nave San Giorgio, in un momento
difficile e pericoloso ed averlo conservato in maniera superiore ad ogni elogio
durante il non breve periodo delle operazioni di salvataggio e per aver
contribuito efficacemente al salvataggio medesimo dal punto di vista
marinaresco”.
Venne quindi la guerra
con la Turchia, e Cutinelli, da poco promosso Contrammiraglio, fu tolto dalla
Direzione dell’Arsenale di Venezia e destinato a Roma, nell’incarico di
Sottocapo di Stato Maggiore della Marina, come abbiamo visto.
In effetti, i piani per
la dimostrazione davanti a Beirut della Squadra navale, che affondò le navi
turche nel porto, quelli dell’incursione nei Dardanelli e dell’occupazione di
Rodi e del Dodecanneso uscirono tutte dalla sua mente vulcanica. La sua opera
fu giustamente premiata dal Sovrano, che gli conferì il titolo di Grande
Ufficiale, sempre dell’Ordine dei S.S. Maurizio e Lazzaro.
Finita la guerra,
l’Ammiraglio Cutinelli ebbe il comando della Divisione Navale più importante,
quella delle nuove corazzate veloci della classe Vittorio Emanuele. Un suo ufficiale lo descrisse così: “Cutinelli
era un uomo che senza dubbio possedeva le qualità per emergere ed essere un
capo brillante, energico e trascinatore di uomini. Alto, forte e asciutto,
bruno, caratteristico nel suo modo di fare e di trattare, ebbe momenti felici
nella sua carriera”[5].
A proposito dei suoi
modi di fare, si racconta un aneddoto, che risale a questo periodo. Cutinelli
era solito finire il pranzo, con gli ufficiali del suo Stato Maggiore, levando
i calici e pronunciando il caratteristico augurio tipicamente napoletano,
ironico ed allusivo, anche se un tantinello scostumato, “a’soreta”. Durante una
campagna in Nord Europa, egli diede un pranzo in onore di un Ammiraglio olandese
e, per la forza dell’abitudine, al momento dei brindisi, dopo il discorsetto di
prammatica, pronunciò il solito augurio, senza pensarci troppo.
L’Ammiraglio olandese
rispose con un altro discorsetto altrettanto gentile, finendo però con quella
frase, ugualmente partenopea, che si usa per rispondere alla prima allusione,
“a’mammeta”. Consapevole di aver sorpreso tutti, questi rivelò quindi di aver
trascorso gli anni della giovinezza a Napoli, dove il padre era Console, ed
aver imparato lì tutte le frasi proibite di quella lingua. Inutile dire
l’amicizia che si instaurò fra i due, grazie a questo episodio!
[1] D. BUZZATI. Il Buttafuoco. A. Mondadori, 1992.
pgg.16-17.
[2] A.T.MAHAN. Strategia Navale. Ed. Forum Relazioni
Internazionali, 1997. Vol I, pg. 111.
[3] U.S.M.M. Storia delle Campagne Oceaniche della R.
Marina. 1992. Vol II pg. 254.
[4] V. TUR. Plancia Ammiraglio. Ed. Moderne
Canesi,1960. Vol II, pg. 119.
[5] Ibid. pg.240.
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