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sabato 26 marzo 2016

Grandi figure di Comandanti di Marina

APPROFONDIMENTI
Ferdinando Sanfelice di Monteforte 

Chi sono i grandi Comandanti di Marina, come indica il titolo? Si possono seguire due interpretazioni: la prima, più classica, è quella di scegliere dei personaggi che siano un esempio di vita, nella buona come nella cattiva sorte, per Voi giovani.
Come esempio di questo primo approccio, vorrei citarVi un comandante della II Guerra Mondiale che, quando la sua nave, colpita, stava affondando, riunì l’equipaggio, lo fece calare in acqua e poi rimase a bordo, per affondare con la sua nave. Sentiamo come lo descrisse il grande Buzzati:
“La sua figura nelle tenebre tra l’eco degli ultimi schianti pareva ancora più alta del solito; essa aveva ancora la sua eleganza severa e nessuno, tranne l’ufficiale di rotta, aveva notato il segno vermiglio sulla guancia. Un ufficiale, voltandosi indietro mentre si allontanava a nuoto lo vide ancora fermo in coperta. Poco prima aveva tratto di tasca l’astuccio delle sigarette, ne aveva infilata una con cura nel lungo bocchino, aveva acceso, come fosse una sigaretta qualsiasi (e non l’ultima della sua vita). Si narra pure da alcuno che, in tal modo fumando, si sia allontanato verso prora, sulle lamiere già oblique, in silenzio, scomparendo tra nembi di fumo. Forse desiderava restare qualche istante ancora da solo, a pensare, per dire addio alla nave morente”[1].
La seconda strada, che seguirò oggi, è invece quella di parlarVi di alcuni comandanti che sono divenuti grandi, per effetto delle vittorie che essi hanno conseguito. Questa scelta riflette una distinzione che, fin dall’epoca dell’Unità, è stata fatta nell’assegnare le decorazioni, rispettivamente ai valorosi ed ai vittoriosi: infatti, oltre alle medaglie al valore, che premiano il coraggio, anche se sfortunato, vi sono sempre state le decorazioni dell’Ordine Militare d’Italia che, prima della Repubblica, si chiamava Ordine Militare di Savoia.
Queste ultime, in particolare, sono sempre state concesse a chi avesse riportato una vittoria, evento che, come diceva Napoleone, è “il grande fattore morale, che raddoppia le energie, che domina la guerra e che diffonde l’ebbrezza della fiducia, rafforzata dal successo ottenuto”[2].
Intendiamoci bene! Non sempre chi vince è un personaggio che meriti di essere riprodotto, con tanto di aureola, nelle immaginette dei santi, da tenere dentro il Messale Romano, e guardare la domenica alla Santa Messa. Talvolta i vittoriosi – e lo stesso Nelson non sfugge a questa regola - sono dei tipacci, che uniscono all’enorme genialità dei terribili difetti di carattere, e ne vedremo, alla fine, un esempio. Questo spiega perché, in Marina, si preferisca esaltare l’ardimento, il valore, il sacrificio dei singoli, piuttosto che questo tipo di personaggio, decisamente scomodo e controverso.
Peraltro, dovendo arrivare gradualmente a questo tipo di persona, partiremo da un “vincitore tranquillo”, senza gravi difetti di carattere.
Il primo personaggio di cui vi parlerò è infatti il Comandante Giovanni Cerrina Feroni, poi divenuto Ammiraglio di Squadra della Riserva Navale (scopriremo il perché fra poco). Nato a Firenze il 18 luglio 1866, Cerrina Feroni frequentò l’Accademia con risultati di rilievo, tanto che, sulla sua prima nota caratteristica, l’Ammiraglio Comandante scrisse, il 30 settembre 1886, “è il primo del suo corso. Promette di farsi un buon ufficiale”. A dire il vero, il Comandante alla classe, pur riempiendolo di lodi, visto che, durante la campagna navale estiva, Cerrina aveva svolto da Allievo le funzioni di un Guardiamarina, annotava alla fine: “se seguita ad occuparsi e diventa più attivo, sarà un buon ufficiale”, segno che, come tutti i giovani, anche lui aveva i suoi momenti di pigrizia.
Dopo l’Accademia, nelle successive destinazioni d’imbarco, prima nel Mar Rosso e poi nelle Americhe, tutti i Comandanti che lo avevano avuto a bordo dichiararono di averlo impiegato con funzioni del grado superiore, e lo proposero per promozioni anticipate. Questa proposta, normalmente, suscitava le ire degli Ammiragli che revisionavano le note caratteristiche, non tanto per scetticismo, ma per il bisogno di evitare carriere molto più rapide della media del tempo, purtroppo molto lenta.
Vediamo quindi il Contrammiraglio Martinez che osserva: “buon ufficiale e basta!”, il Vice Ammiraglio Lovera di Maria che dice “confermo, con riserva circa la promozione a scelta”, e così via. Da notare che tutte queste note entusiastiche riguardavano imbarchi su navi destinate all’estero, in Mar Rosso o nelle due Americhe, in un’epoca in cui, da quella parte del mondo, si navigava senza una cartografia attendibile, si facevano brutti incontri per mare e, quando si scendeva a terra, armati fino ai denti, si rischiava la pelle ogni momento.
Le nostre navi, poi, non erano le più adatte a navigare nei mari lontani, vuoi nel caldo asfissiante delle zone equatoriali, vuoi con l’onda lunga dell’oceano. Sentite questo rapporto di navigazione della Regia Nave Etna, dove era imbarcato il T.V. Cerrina, quando passò un giorno alla cappa, non potendo, per il cattivo tempo, entrare a Madera: la nave
 “si abbandonava a lente rollate di 35º in media, e nonostante che la velocità fosse stata ridotta al minimo consentito per governare, il mare invadeva violentemente la prua ed il palco di comando, minacciando avarie”[3].
 All’epoca, invece delle belle plance che vedete, quando andate a bordo, vi era una specie di palchetto, aperto a tutte le intemperie, dove stavano il comandante e l’ufficiale di guardia. Vi ricordo anche che la stessa parola “plancia” viene dal francese “planche”, che vuol dire “tavola”, del tipo, per intenderci, di quelle usate nell’edilizia!
Il fatto è che, comunque, in mezzo a tutte queste difficoltà, il giovane Tenente di Vascello Cerrina Feroni, come scrisse un suo Comandante, dimostrava di possedere “in alto grado le migliori doti che possano desiderarsi in un ufficiale”, oltre ad essere poliglotta, e quindi particolarmente ricercato per destinazioni su unità destinate in mari lontani.
Dopo tanti anni d’imbarco, arrivò, come accade ad ogni buon Ufficiale alla Rotta ed ai Segnali, il momento di fare l’Aiutante di Bandiera ad Ammiragli in Comando Navale. Era il 1895, ed il TV Cerrina Feroni si rese talmente utile che i suoi Ammiragli non lo mollarono, se non per farlo andare in Comando, ben quattro anni dopo.
Merita citare, a tal proposito, la lettera che il suo Ammiraglio, nel lasciarlo andare, scrisse nientemeno che al Ministro della Marina:
“sento il dovere, nel separarmi da lui, di segnalare all’E.V. i meriti di quest’ufficiale, abilissimo in tutto quanto può richiedersi da un militare del suo grado, molto zelante, intelligente, dotato di ottimo carattere e di molta coltura (sic!)”.
Il comando si svolse prima sulle Torpediniere e poi sul Rimorchiatore Ercole, basato a Napoli ed impegnato per mille servizi, fra cui il rimorchio di bettoline a La Maddalena. Per inciso, questa base era stata ideata in funzione anti-francese e, a quell’epoca, era ancora in costruzione, mentre, nel frattempo, i rapporti con i nostri cugini d’oltralpe erano diventati di nuovo amichevoli. Inutile dire che, anche durante quel periodo, piovvero ben meritati elogi sul giovane comandante.
Dopo essersi distinto in quel modo, dove poteva andare un giovane e brillante ufficiale, nella sua prima destinazione a terra? Ovviamente a Roma, dove il Comandante Cerrina fu prima ai movimenti ufficiali e, dopo il comando del Barbarigo, ancora nel Mar Rosso, nell’ufficio del Capo di Stato Maggiore, o per meglio dire, in quello che fu il nucleo iniziale di uno Stato Maggiore, inteso come oggi, e quindi un organismo che guarda avanti, prepara piani e programmi, in sintesi delinea la politica di Forza Armata.
Ma la penetrazione italiana nel Corno d’Africa richiedeva personaggi di qualità, ed il Ministero delle Colonie chiese il Comandante Cerrina per sostituire “temporaneamente” il governatore del Benadir – per intenderci, la zona di Mogadiscio – che si era ammalato.
Come spesso accade da noi, questo incarico, che doveva durare pochi mesi, lo occupò invece per tre anni, visto che i suoi sostituti si rendevano indisponibili l’uno dopo l’altro, sempre all’ultimo momento. Certo, governare il Benadir non era una destinazione di tutto riposo, ma sorge il sospetto che il Ministero delle Colonie fosse giunto alla conclusione, come dice il proverbio, che “cavallo vincente non si cambia” e fece di tutto per tenersi il Comandante Cerrina, promosso, nel frattempo Capitano di Vascello.
Questo tira e molla, peraltro, aveva sollevato qualche malumore, in Marina, tanto che, una volta rientrato e destinato in comando del piccolo incrociatore Liguria, il suo Ammiraglio, Borea Ricci, osservò nelle note caratteristiche, nel novembre 1911, che il comandante Cerrina “è uno di quegli ufficiali che non vissero nel Corpo né sul mare a sufficienza. È un peccato che quest’ufficiale resti sempre e troppo a terra, perché è molto intelligente e se navigasse sul serio potrebbe giustamente aspirare ad alti comandi”.
Inutile dire che queste valutazioni erano un tantinello ingiuste, e lo si vide pochi mesi dopo quando, nell’imminenza della guerra con la Turchia, al Comandante Cerrina fu affidato il Comando Superiore delle nostre forze navali in Mar Rosso, incarico normalmente affidato ad un Contrammiraglio.
Non si poteva fare una scelta migliore, ed i risultati si videro subito: le nostre navi erano dovunque, lungo le coste nemiche dell’attuale Arabia Saudita e dello Yemen, costringendo il nemico sulla difensiva. Inoltre, il Comandante Cerrina convinse gli sceicchi dello Yemen a ribellarsi all’Impero Ottomano, moltiplicando quindi le difficoltà per le truppe turche che presidiavano la penisola arabica, finché, il 6 maggio 1912, le nostre navi sorpresero la flottiglia nemica nella baia di Kunfida, oggi Al Qunfudhah, distruggendo l’intera flottiglia di 7 cannoniere e catturando lo yacht Fauvette, nave di bandiera del commodoro turco, che fu portato a Massaua, come preda di guerra.
Bisogna notare che, con questa azione, la Marina Italiana aveva conquistato, nel Mar Rosso, il dominio assoluto del mare, evento rarissimo nella storia e sempre considerato, dagli studiosi di strategia, come il fine ultimo da perseguire, nella guerra navale. Il Comandante Cerrina Feroni rimane, quindi, l’unico marinaio italiano a poter vantare un tale risultato. La motivazione della commenda di Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia è chiarissima: “egli ottenne l’annientamento di tutte le unità nemiche stazionanti nel Mar Rosso”. Non vi sono motivazioni simili in tutta la nostra storia, a parte questa!
Alla fine della guerra, lo stesso Presidente del Consiglio, Giolitti, lo impiegò per svolgere delle missioni di diplomazia segreta nel 1913, e poi lo fece passare al Ministero delle Colonie, alee cui dipendenze egli trascorse il resto della sua carriera, divenendo prima governatore dell’Eritrea e quindi governatore della Somalia.
In fondo, seguendo la sua passione per l’Africa, egli aveva trovato un modo elegante per uscire di scena, sottraendosi quindi alle invidie dei colleghi e dei superiori. Vedremo fra poco cosa accade, nel caso contrario.
Negli anni che seguirono, la Marina, in segno di riconoscenza, gli conferì tutte le promozioni, quale ufficiale della Riserva navale, fino al grado di Ammiraglio di Squadra. Andato in pensione, Cerrina Feroni si stabilì a Roma, dove morì il 2 luglio 1952, a 86 anni.
Oggi, nel quartiere romano delle Medaglie d’Oro, fra le traverse di via Trionfale,si può notare, dopo via Premuda, una via Cunfida (sic), il ricordo più tangibile che ci rimane, nella capitale, della più importante vittoria mai conseguita dalla nostra Marina.
Agli atti dell’Ufficio Storico, inoltre, c’è una lettera che dice molto sull’importanza dell’azione svolta dal Comandante Cerrina in Mar Rosso, azione culminata con la vittoria di Kunfida. L’allora Sottocapo di Stato Maggiore della Marina, alla fine della guerra, scrisse infatti questa valutazione sul nostro personaggio, controfirmata dal Capo di Stato Maggiore:
“L’azione svolta e diretta dal Comandante Cerrina durante tutto il lungo periodo di guerra, in cui tenne il Comando Superiore navale in Mar Rosso, fu sotto ogni riguardo oltremodo commendevole, sia per gli alti concetti cui la ispirò, sia per i risultati ottenuti, tanto nel campo guerresco che politico.
È con sicura coscienza che io sono in grado di giudicarlo meritevole della qualifica di Ottimo, per brillanti qualità di mente, vasta coltura professionale e generale, tatto diplomatico, squisita educazione civile e militare ed alto sentimento del dovere”.
La firma, in fondo alla lunga lettera, scritta di pugno, come si diceva un tempo, è quella del Contrammiraglio Emanuele Cutinelli Rendina, che era stata la mente pensante delle nostre azioni navali, durante quella guerra. È proprio di lui che parleremo ora.
Emanuele Cutinelli Rendina era nato a Napoli il 224 novembre 1860, ed entrò alla Scuola di Marina il 1 novembre 1874, come si usava allora, uscendone fra i primi, nel 1879. L’anno dopo, egli contrasse la sifilide, malattia che gli rese la salute cagionevole, costringendolo a cure periodiche all’estero, ma che non ne piegò il carattere né tantomeno la voglia di fare.
A bordo, il suo comportamento disciplinare non fu certo dei migliori: nel 1883 prese 3 giorni di arresti di rigore per non essersi recato al posto di manovra generale, poi nel 1886 egli si batté in duello, alla sciabola, con un sottotenente dell’Esercito, per una questione di donne, buscandosi un massimo di rigore. Ancora, nel 1888, gli furono comminati altri arresti di rigore “per il modo sconveniente con cui fu da lui redatto il Giornale di Chiesuola”. Infine, nel 1889, egli si fece tre mesi di fortezza, a Forte Belvedere a Firenze, per essere andato a pernottare a terra, essendo ufficiale d’ispezione sulla nave scuola canonieri Città di Napoli.
A questo punto, Voi direste che l’ufficiale era un fallito, e che sarebbe stato messo in un angolo, a condurre una carriera di scarso rilievo, senza soddisfazioni. Invece, si verificò, ogni volta, uno strano fenomeno: lo stesso comandante che, per beccarlo in flagrante e mandarlo in fortezza, si era alzato prestissimo per andare a bordo alle 5 di mattina, scrisse infatti di lui, sulle note caratteristiche: “buon ufficiale, che promette ottima riuscita. Sveglio, attivo, rispettoso”. Anche in tutte le altre valutazioni, a parte un ricorrente “non ancora ben piegato alla disciplina” i giudizi elogiativi si sprecavano, in quanto Cutinelli, come riconosciuto da tutti i suoi superiori, “sa farsi molto benvolere dai suoi inferiori mantenendo bene la disciplina ed ottenendo che lavorino di buon animo”. Anche per lui, abbondarono le proposte di avanzamento a scelta, malgrado la nota riluttanza degli Ammiragli verso un tal tipo di provvedimento.
Quando Cutinelli andò in comando, prima sull’Avviso Torpediniere Aquila, e poi sul Rimorchiatore Atlante, i Comandanti in Capo scrissero: “ottimo ufficiale, manovra la sua nave molto bene; non manca di notevole ardimento. È dotato di molto sangue freddo”. Si era nel 1896, l’anno della sconfitta di Adua, ed in questo periodo il T.V. Cutinelli ebbe pure una decorazione prussiana, per un evento che non è rimasto agli atti, ma che ha sicuramente una relazione con quei giudizi tanto elogiativi sul suo sangue freddo.
Dopo questi eventi, gli anni successivi furono, per Cutinelli, influenzati da una serie di difficoltà personali, dalla salute della moglie, che per avere dei figli si sottopose a tante operazioni, fino a morirne nel 1899, dalle cure per la sua malattia, che lo costrinse per alcuni anni a rinunciare a destinazioni d’imbarco prestigiose.
Qualche anno dopo, nel 1903, il Comandante incorse in un altro incidente, avendo preso a schiaffi il Direttore del giornale “La Palestra” di Taranto, che aveva lanciato accuse, poi risultate non veritiere, contro di lui ed un altro ufficiale, come poi venne fuori in sede di giudizio.
Qual’era la causa? L’anno prima, durante dei disordini provocati dagli operai dell’Arsenale, il comandante Cutinelli era andato a calmare gli animi, evitando l’intervento delle forze dell’ordine, all’epoca decisamente violento, anche a costo di buscare “colpi dei corpi contundenti” come disse il rapporto sui fatti. Il resoconto fatto dal “La Palestra” presentava però i fatti sotto tutt’altra luce, da cui la vendetta del comandante.
Di conseguenza, Cutinelli ebbe il comando del vecchio Duilio, in attesa di demolizione, e fu quindi inviato a comandare l’Urania, in Mar Rosso, in modo che restasse lontano per un bel po’. Sul campo d’azione, di nuovo vennero fuori le qualità dell’uomo, che resse anche, per qualche tempo, il comando della Stazione Navale, vale a dire quello di tutte le navi dislocate nell’area.
Ritornato in Patria, Cutinelli ebbe il comando della corazzata Emanuele Filiberto, e quindi della Regina Margherita, dove si distinse nell’organizzare i soccorsi durante il terremoto di Messina, meritando un ennesimo encomio, oltre al giudizio “possiede qualità che lo fano emergere”.
Di questo periodo rimane anche la testimonianza di un giovane ufficiale, Vittorio Tur, che scrisse, nelle sue memorie, a proposito di Cutinelli: “sapeva portare con abilità la nave, farsi benvolere dai suoi inferiori. Grande giocatore, intelligente, simpatico con coloro che gli andavano a genio, marinaio, fece ottima figura”[4].
Pochi mesi dopo, però, Cutinelli ne combinò un’altra delle sue, andando a Venezia, in incognito, dopo aver dichiarato di fare le cure a Salsomaggiore, e autorizzando addirittura il suo comandante in seconda a partire con la nave per le manovre estive, raggiungendola qualche giorno dopo, a Torre Gaveta, a nord di Napoli, con una motobarca. Giustamente, gli fu comminato un “severo rimprovero” insieme alla valutazione che “i suoi atti, nei rapporti disciplinari, non furono sempre informati alla dovuta ponderatezza”.
Anche qui, penserete, la sua carriera sarebbe finita. Venne invece l’incaglio del nuovissimo incrociatore San Giorgio, sulla Secca della Cavallara, davanti al villaggio di Marechiaro, ben noto per le canzoni napoletane. La nave stava conducendo le prove di macchina, e volle passare troppo rasente alla boa, che poi risultò fuori posizione, finendo di conseguenza sugli scogli.
Al Comandante Cutinelli venne affidato il comando dell’unità, che fu salvata grazie alla collaborazione fra lui ed il Comandante Cagni, malgrado i due si detestassero e si facessero dispetti terribili. In premio, gli fu conferita dal Re, motu proprio, la Commenda dell’Ordine dei S.S. Maurizio e Lazzaro, “per aver assunto il comando della Regia Nave San Giorgio, in un momento difficile e pericoloso ed averlo conservato in maniera superiore ad ogni elogio durante il non breve periodo delle operazioni di salvataggio e per aver contribuito efficacemente al salvataggio medesimo dal punto di vista marinaresco”.
Venne quindi la guerra con la Turchia, e Cutinelli, da poco promosso Contrammiraglio, fu tolto dalla Direzione dell’Arsenale di Venezia e destinato a Roma, nell’incarico di Sottocapo di Stato Maggiore della Marina, come abbiamo visto.
In effetti, i piani per la dimostrazione davanti a Beirut della Squadra navale, che affondò le navi turche nel porto, quelli dell’incursione nei Dardanelli e dell’occupazione di Rodi e del Dodecanneso uscirono tutte dalla sua mente vulcanica. La sua opera fu giustamente premiata dal Sovrano, che gli conferì il titolo di Grande Ufficiale, sempre dell’Ordine dei S.S. Maurizio e Lazzaro.
Finita la guerra, l’Ammiraglio Cutinelli ebbe il comando della Divisione Navale più importante, quella delle nuove corazzate veloci della classe Vittorio Emanuele. Un suo ufficiale lo descrisse così: “Cutinelli era un uomo che senza dubbio possedeva le qualità per emergere ed essere un capo brillante, energico e trascinatore di uomini. Alto, forte e asciutto, bruno, caratteristico nel suo modo di fare e di trattare, ebbe momenti felici nella sua carriera”[5].
A proposito dei suoi modi di fare, si racconta un aneddoto, che risale a questo periodo. Cutinelli era solito finire il pranzo, con gli ufficiali del suo Stato Maggiore, levando i calici e pronunciando il caratteristico augurio tipicamente napoletano, ironico ed allusivo, anche se un tantinello scostumato, “a’soreta”. Durante una campagna in Nord Europa, egli diede un pranzo in onore di un Ammiraglio olandese e, per la forza dell’abitudine, al momento dei brindisi, dopo il discorsetto di prammatica, pronunciò il solito augurio, senza pensarci troppo.
L’Ammiraglio olandese rispose con un altro discorsetto altrettanto gentile, finendo però con quella frase, ugualmente partenopea, che si usa per rispondere alla prima allusione, “a’mammeta”. Consapevole di aver sorpreso tutti, questi rivelò quindi di aver trascorso gli anni della giovinezza a Napoli, dove il padre era Console, ed aver imparato lì tutte le frasi proibite di quella lingua. Inutile dire l’amicizia che si instaurò fra i due, grazie a questo episodio!



[1] D. BUZZATI. Il Buttafuoco. A. Mondadori, 1992. pgg.16-17.
[2] A.T.MAHAN. Strategia Navale. Ed. Forum Relazioni Internazionali, 1997. Vol I, pg. 111.
[3] U.S.M.M. Storia delle Campagne Oceaniche della R. Marina. 1992. Vol II pg. 254.
[4] V. TUR. Plancia Ammiraglio. Ed. Moderne Canesi,1960. Vol II, pg. 119.
[5] Ibid. pg.240.

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