III Parte
Le proposte avanzate dai governi di
Pristina e Belgrado
Pur davanti ad un quadro ancora segnato da sfiducia
reciproca, le delegazioni serbe e kosovare hanno comunque tenuto in questi anni
alcuni incontri a livello tecnico. Sollecitati dall’inviato speciale Ahtisaari
ed incentrati essenzialmente sulla ridefinizione dei confini municipali, la
protezione dei siti culturali e religiosi serbi e la quota del debito serbo da
attribuire al Kosovo i colloqui, che dovevano avviare la discussione sul futuro
status regionale, si sono conclusi però con un nulla di fatto restando le
posizioni delle parti assai distanti tra loro. Ma se le forze politiche
kosovare hanno sempre insistito per l’indipendenza, Belgrado invece ha
continuato a rivendicare l’appartenenza alla Serbia della regione, come
dimostrano anche i riferimenti al Kosovo inseriti nella nuova Costituzione
approvata da un referendum popolare nell’ottobre del 2006. I dirigenti serbi
sono stati comunque sempre consapevoli che non esisteva alcuna possibilità
concreta di far ritornare il Kosovo sotto il controllo di Belgrado ed il loro
massimo obiettivo politico è stato quello di cercare di far approvare dalle
Nazioni Unite una risoluzione in cui ogni riferimento all’indipendenza
comparisse in termini quantomeno sfumati ed ambigui. Il governo di Belgrado in
questi ultimi due anni ha tuttavia ribadito più volte di non poter abbandonare
gli oltre 100.000 suoi connazionali ancora residenti su un territorio
considerato la culla storica della nazione serba, insistendo inoltre sul fatto
che la comunità internazionale doveva garantire l’integrità territoriale della
Serbia.
Questi principi sono stati chiaramente espressi in
diversi piani presentati negli ultimi anni da esponenti politici serbi, quale
quello avanzato nel novembre 2005 dal coordinatore per la politica sul Kosovo della
presidenza Raskovic – Ivic dove si proponeva una soluzione in cui alla
Serbia sarebbero spettati il controllo delle frontiere, la supervisione delle
entrate fiscali e doganali nonché le competenze in materia di politica estera e
difesa mentre l’esecutivo kosovaro avrebbe potuto disporre di tutte le altre
prerogative compresa l’amministrazione del sistema giudiziario. Poco dopo,
alcuni esponenti del governo serbo prospettavano la possibilità che al Kosovo
venisse attribuita una larga autonomia interna supportata da garanzie
internazionali, di modo che se da un lato Belgrado non avrebbe potuto
sopprimere l’autogoverno regionale dall’altro alla maggioranza albanese sarebbe
stato impedito di proclamare la piena indipendenza.
Successivamente, altri due progetti sono stati
lanciati dall’allora Ministro degli Esteri Draskovic, nel
quale si affermava che il Kosovo avrebbe potuto disporre di proprie forze
armate e di una polizia autonoma e diventare membro delle organizzazioni
internazionali a condizione però di veder riconosciuta l’intangibilità delle
frontiere serbe, e congiuntamente dal Presidente Tadić e
dal vice – Primo Ministro Labus dove, riprendendo quanto esposto a suo tempo
dal Primo Ministro Djindjic, si sosteneva come la regione dovesse essere
divisa in modo da costituire un’entità serba ed un’altra albanese le quali,
dopo un periodo di cinque anni, sarebbero state rispettivamente incluse nella
Serbia e diventate indipendenti. Quest’ultima proposta ripropone quanto
avanzato da esponenti politici ed accademici serbi negli ultimi dieci anni. Pur
se di difficile realizzazione avendo essenzialmente un’importanza teorica,
alcuni di questi progetti meritano comunque di essere descritti in quanto
rappresentano, per le considerazione esposte, un interessante spunto di
discussione nel dibattito sullo status del Kosovo. La prima, avanzata
nell’estate del 1997 dal Presidente dell’Accademia Serba delle Scienze
Aleksander Despic,
proponeva un “divorzio consensuale”
da Belgrado partendo dalla considerazione che, avendo la popolazione albanese
percentuali di crescita decisamente maggiori di quella serba, entro venti o
trenta anni gli equilibri demografici del Paese sarebbero stati modificati
ponendo a rischio la sua identità culturale. Molto più rilevante dal punto di
vista politico si presentava quella dettata dal professore serbo – americano
Steven Majstorovic, il quale proponeva di dividere la regione attribuendo agli
albanesi il 75% del territorio ed il restante 25% ai serbi, che in questo modo
pur perdendo gran parte dei luoghi santi ortodossi avrebbero comunque
conservato i più importanti impianti industriali e minerari della regione.
Sul
piano istituzionale, mentre la parte albanese avrebbe goduto di una piena
indipendenza, nell’area rimasta sotto il controllo di Belgrado i diritti
individuali dei cittadini serbi ed albanesi sarebbero stati garantiti da un contingente
di osservatori internazionali. L’ultima proposta, lanciata poco prima del
conflitto dall’accademico Dusan Batakovic, intendeva dividere il Kosovo in una
serie di cantoni riflettendo il pensiero di diversi esponenti politici e
culturali serbi decisi ormai a trovare una soluzione al problema ma convinti
anche che la comunità internazionale non avrebbe mai accettato una divisione
del Kosovo ed una modifica delle sue frontiere.
Nei
colloqui svoltisi in questi mesi per la definizione dello status definitivo
della regione il governo serbo, pur continuando ad indirizzare le sue richieste
direttamente all’UNMIK proprio per non riconoscere l’esistenza dell’esecutivo
provvisorio kosovaro, ha puntato ad ottenere un’autonomia per i comuni a
maggioranza serba ed un regime di protezione internazionale per i luoghi sacri
ortodossi presenti in Kosovo. Nelle intenzioni di Belgrado si sarebbero dovute
formare almeno 15 municipalità serbe, istituite sulla base della distribuzione
della popolazione serba esistente prima del 1999, ognuna dotata di propri
funzionari, di autonomia in campo finanziario e della prerogativa di
amministrare i settori dell’istruzione, della sanità e dei servizi sociali ed
alle quali doveva inoltre essere consentito di avere dei legami diretti con la Serbia. Allo stesso
modo per tutelare i luoghi santi ortodossi questi sarebbero stati o inclusi
all’interno del territorio dei comuni serbi qualora fossero situati nelle loro
vicinanze oppure posti sotto un regime di protezione internazionale. Il governo
serbo inoltre ha più volte ribadito l’intenzione di chiedere un risarcimento
per i danni subiti dai suoi connazionali in occasione dei disordini interetnici
esplosi tre anni fa e per quelli che recentemente hanno perso il proprio lavoro
dopo la creazione della nuova società elettrica kosovara, proposte alle quali i
dirigenti politici di Pristina hanno risposto affermando come Belgrado non
abbia tuttora liquidato le migliaia di funzionari pubblici albanesi espulsi
durante gli anni Novanta nonché tutti quelli costretti ad abbandonare le
proprie abitazioni durante la repressione attuata dal regime di Milosevic tra
il 1998 ed il 1999. Davanti alle richieste serbe, l’UNMIK ha però fatto notare
che la costituzione di una serie di piccole municipalità sarebbe insostenibile
sul piano finanziario, mentre gli esponenti politici kosovari hanno
sottolineato come in questo modo il controllo sulla polizia ed il sistema
giudiziario di queste amministrazioni comunali verrebbe di fatto sganciato e
reso autonomo da quello centrale.
Le
stesse autorità di Pristina hanno inoltre ritenuto troppo elevato il numero di
municipalità serbe da costituire essendo ormai profondamente cambiata dopo il
conflitto la mappa etnica della regione, dichiarando anche che non avrebbero
accettato l’ipotesi di dividere la parte settentrionale a maggioranza serba
della città di Mitrovica da quella meridionale abitata invece in prevalenza da
albanesi. Nonostante questo, Belgrado ha continuato a ripetere che l’unica
soluzione per ricreare un Kosovo multietnico sia l’istituzione di regioni
autonome per le diverse minoranze presenti nel territorio. Stando ad un piano
preparato dal governo serbo, la “Comunità
Autonoma Serba del Kosovo e della Metohija” avrebbe dovuto includere cinque
distretti comprendenti la dei luoghi sacri ortodossi, sarebbe stata dotata di
un proprio governo, di un’Assemblea legislativa e di un sistema giudiziario
autonomo, avrebbe avuto le competenze in materia di istruzione, cultura e
sanità disponendo anche del controllo della polizia. La futura regione avrebbe
incluso le aree rurali e le municipalità in cui i serbi fino al 1999
rappresentavano la maggioranza della popolazione ma, essendo ormai impossibile
per i profughi ritornare nelle città dove in precedenza risiedevano, a questi
come compensazione doveva essere consentito di stabilirsi non nelle zone
originarie ma nei territori limitrofi a quelli attualmente abitati dai serbi
proprio per creare un’area etnicamente omogenea dotata delle risorse naturali e
delle infrastrutture necessarie. Allo stesso modo, ai cittadini serbi residenti
al di fuori della regione dovevano essere garantiti tutti i diritti civili e
politici, il rispetto della propria identità religiosa e culturale nonché la
possibilità di costituire delle istituzioni governative autonome. Ma il motivo
sul quale Belgrado ha costantemente insistito nell’opporre il suo veto ad una
possibile indipendenza del Kosovo è che questa finirebbe per provocare un “effetto domino” capace di
destabilizzare l’intera regione. Non pochi leader politici serbi ritengono che
un eventuale Stato kosovaro autonomo non solo spingerebbe le minoranze albanesi
residenti in Montenegro, Grecia e Macedonia, unitamente agli albanofoni serbi
concentrati nella valle di Presevo, a seguire un’identica politica separatista,
ma finirebbe anche per rafforzare gli elementi più radicali riproponendo la
tesi secondo cui la Serbia
avrebbe dovuto riconoscere la “Republika
Srpska” nel caso in cui il Kosovo avesse proclamato la sua indipendenza.
Sul
piano politico, quasi tutti i partiti serbi hanno espresso la loro contrarietà
ad ogni ipotesi di indipendenza della regione. Se il leader del “Partito Radicale” ( SRS ) Tomislav
Nikolic, recentemente sconfitto alle presidenziali da Boris Tadic, era arrivato
a prospettare un’insurrezione popolare qualora le Nazioni Unite avessero
approvato il piano Ahtisaari, non meno ferme sono state le posizioni espresse
dai Socialisti e dal “Partito Democratico
Serbo” ( DSS ) del Premier Kostunica, mentre l’unica voce discordante è stata
quella del responsabile del “Partito
Liberaldemocratico” ( LDP ) Cedomir Jovanovic che si è sempre pubblicamente
espresso a favore dell’auto – determinazione del Kosovo. E lo stesso “Partito Democratico” ( DS ) del Presidente Tadic ed i liberali del
“G17”, che pure in passato erano sembrati possibilisti verso l’idea di un
Kosovo autonomo, appaiono ora fermamente contrari all’indipendenza della
regione. Ma se la linea del governo serbo ha avuto come obiettivo quello di
impedire, o quantomeno di rallentare, il cammino del Kosovo verso
l’indipendenza puntando ad ottenere una larga autonomia per i propri
connazionali rimasti, quella del governo e dei principali partiti kosovari – la“Lega Democratica del Kosovo” ( LDK ),
il “Partito Democratico del Kosovo” (
maggior parte PDK ) e l’“Alleanza per il
Futuro del Kosovo” ( AAK ) – è stata sempre univoca nel richiedere
l’autodeterminazione per la regione.
In
questi mesi però, pure se la posizione ufficiale di Pristina è che nessuna
rivendicazione territoriale oltre i confini regionali verrà avanzata da parte
del nuovo Stato, alcuni esponenti kosovari, perlopiù appartenenti a formazioni
ultranazionaliste, si sono spinti oltre sostenendo l’idea di una futura unione
con l’Albania, anche se il pan – albanismo non sembra comunque riscuotere
grandi consensi né a Pristina né a Tirana.
Dal rapporto Ahtisaari
all’indipendenza
Preoccupata dei possibili rischi che avrebbe
comportato per la sicurezza del Kosovo un ritardo nell’avvio dei negoziati, la
comunità internazionale nella scorsa primavera ha deciso di presentare un piano
dettagliato per definire lo status della regione. Nel rapporto preparato
dall’inviato speciale Marti Ahtisaari e trasmesso ai membri del Consiglio di
Sicurezza dal Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki - moon, si
affermava come l’unica soluzione praticabile per la regione era quella di
un’indipendenza sotto la supervisione internazionale, non essendo possibile
prospettare né il ritorno sotto la sovranità di Belgrado né tantomeno il
prolungamento dell’attuale missione UNMIK. Nel primo caso, la relazione
sottolineava come la stragrande maggioranza della popolazione albanese,
ricordando quanto accaduto sotto il regime di Milosevic,
non accettava di vedere la regione rientrare a far parte della Serbia, mentre
l’attuale amministrazione internazionale non poteva più essere mantenuta in
funzione in quanto, pur avendo questa favorito la creazione delle autonomie
locali, non aveva consentito lo sviluppo di un’economia stabile. Proprio la
debolezza economica è stata causa di
tensioni politiche e sociali, senza contare che per il suo status indefinito il
Kosovo non ha potuto accedere alle istituzioni finanziarie internazionali,
integrarsi con gli altri Paesi della regione e partecipare al processo di adesione
all’Unione Europea. Nel rapporto si ricordava comunque come la piena
indipendenza non poteva essere al momento considerata realizzabile data la
debolezza delle istituzioni locali, disponendo queste di pochi strumenti
efficienti per assicurare la gestione dell’economia, consolidare il processo di
democratizzazione e tutelare la minoranza serba le cui condizioni di vita
continuavano a rimanere difficili. L’opzione di un’ “indipendenza monitorata” sotto la supervisione di una presenza
civile e militare internazionale, incaricata di valutare ed eventualmente
modificare le disposizioni in materia di decentralizzazione, diritti delle
minoranze,
protezione della Chiesa Ortodossa e tutela dello stato di diritto, appariva
quindi la sola prospettiva credibile. Sul piano istituzionale, secondo quanto
era previsto nel piano, il Kosovo avrebbe avuto un Presidente ed un Governo,
del quale dovevano far parte almeno un ministro serbo ed un altro in
rappresentanza delle diverse minoranze etniche, di un’Assemblea legislativa
composta di 120 membri eletti con il sistema proporzionale e di un sistema
giudiziario indipendente e capace di riflettere il carattere multietnico della
regione.
Riguardo
alla decentralizzazione, il piano prevedeva che ai comuni sarebbe spettato l’insegnamento
primario e secondario, le prestazioni sanitarie di primo livello, l’assistenza
sociale, la tutela dell’ambiente e la protezione civile, mentre le municipalità
a maggioranza serba avrebbero goduto di un’autonomia in campo culturale per
permettergli di tutelare i siti religiosi presenti all’interno del loro
territorio insieme al diritto di poter adottare i testi scolastici in uso in
Serbia e di avviare programmi di cooperazione ed assistenza tecnica e
finanziaria con Belgrado nei settori di loro competenza[i]. A tutela dei luoghi sacri
ortodossi, il progetto Ahtisaari stabiliva poi che il governo di Pristina
avrebbe dovuto rispettare l’autonomia interna della Chiesa ortodossa in Kosovo
riconoscendola parte integrante di quella di Belgrado impegnandosi inoltre a
garantire l’inviolabilità delle sue proprietà immobiliari, mentre come
ulteriore garanzia il piano, a protezione del Patriarcato di Pec e degli altri
monasteri più importanti, assicurava la presenza di un contingente
internazionale che sarebbe stato dispiegato nella zona fino a quando il
Rappresentante civile internazionale non avrebbe accertato l’esistenza delle
condizioni per un trasferimento delle funzioni alla polizia locale.
Ed
una delle questioni più importanti che l’amministrazione internazionale si è
trovata ad affrontare è stata proprio
quella relativa all’organizzazione delle forze di polizia kosovare. Poco dopo
la conclusione del conflitto, venne istituito il “Kosovo Police Service”, un corpo di sicurezza ritenuto però da
alcuni osservatori non sufficientemente preparato visti i presunti legami con
la criminalità organizzati avuti da diversi suoi componenti[ii]. Negli ultimi anni però a
detta degli esperti il quadro sarebbe andato progressivamente migliorando e,
pur restando la fiducia della popolazione serba estremamente bassa, dopo
l’istituzione del Ministero degli Interni kosovaro un sempre maggiore numero di
funzioni è stato trasferito alla polizia locale. In proposito, nel piano
avanzato da Ahtisaari era previsto che la polizia del Kosovo avrebbe avuto un
comando unificato e la sua composizione etnica all’interno delle municipalità
riflesso quella esistente sul territorio comunale, mentre ai comuni serbi
veniva concesso il diritto di redigere una lista di nominativi dalla quale le autorità
di Pristina avrebbero successivamente designato il comandante locale. Le unità
di polizia sarebbero state poi
affiancate da un servizio d’intelligence
interno e da una “Forza di Sicurezza”
equipaggiata con armamento leggero e composta da 2.500 effettivi ed 800
riservisti, mentre una presenza militare internazionale avrebbe continuato a
rimanere dispiegata nella regione con l’incarico di proteggere il Kosovo da
eventuali minacce esterne e di supervisionare ed assistere le locali forze
dell’ordine.
La
proposta Ahtisaari veniva però respinta nel febbraio dello scorso anno dal
Parlamento serbo con un voto pressoché unanime dal quale si dissociavano solo i
liberaldemocratici di Jovanovic. Ed in un memorandum
presentato subito dopo, il governo di Belgrado ricordava che dal 1999 oltre
200.000 serbi ed appartenenti ad altre minoranze erano stati costretti ad
abbandonare il Kosovo e come solo una parte trascurabile di essi era rientrata
nelle zone di residenza, affermando inoltre come almeno il 70% dei centri
abitati serbi era stato oggetto di “pulizia
etnica” dopo il conflitto. Il piano presentato dall’inviato delle Nazioni
Unite è stato poi criticato dalla Serbia non solo perché la sua applicazione
avrebbe portato alla perdita del 15% del territorio nazionale, ma soprattutto
per il fatto che questo indebolirebbe le istituzioni democratiche del Paese
avendo effetti imprevedibili sulla stabilità e la sicurezza dei Balcani. Per
questo, Belgrado ha sempre affermato come l’unica soluzione praticabile era
quella di una “autonomia monitorata”
sotto la supervisione della comunità internazionale. Secondo questo piano,
illustrato dalla delegazione serba al Consiglio di Sicurezza nella primavera
scorsa, al Kosovo venivano attribuiti un governo, un potere legislativo ed un
sistema giudiziario autonomi lasciando a Belgrado solo le competenze in materia
di politica estera, difesa, controllo delle frontiere, emissione della moneta e
protezione dei luoghi sacri e culturali serbi. Ai kosovari era inoltre
assicurata una rappresentanza all’interno della Banca Nazionale e del Ministero
degli Esteri, non avendo avuto il Kosovo la facoltà di concludere trattati
internazionali ed aprire uffici diplomatici all’estero.
E’
in questo quadro d’incertezza che si è arrivati alla scadenza del 10 dicembre,
quando all’interno del Consiglio di Sicurezza è sembrato ormai evidente come
non ci fossero più spazi di manovra per raggiungere un’intesa. Già nelle
settimane precedenti comunque appariva chiaro quanto le parti fossero distanti
tra loro, tanto che mentre il “Gruppo di
Contatto” nel suo documento in 14 punti presentato sul Kosovo in autunno
escludeva esplicitamente l’eventualità che la regione potesse tornare sotto
sovranità serba, il governo di Belgrado al contrario nelle sue controproposte
sottolineava la validità della “Risoluzione
1244”
delle Nazioni Unite in cui si affermava l’appartenenza del Kosovo alla
Jugoslavia ( ora Serbia ) ed il rispetto da parte di tutti gli Stati membri
dell’Organizzazione dell’integrità territoriale del Paese. L’ultimo progetto
avanzato dai dirigenti politici serbi è stato presentato lo scorso novembre e
proponeva per la regione
un
statuto di autonomia modellato su quello garantito ad Hong Kong. Respinto dai
negoziatori kosovari vista la diversità tra le due situazioni, il piano
prevedeva che le frontiere internazionali non sarebbero state modificate e
nessuna delle due parti avrebbe potuto procedere unilateralmente a modifiche
della Costituzione o dello status regionale.
Dopo
la proclamazione dell’indipendenza da parte del Parlamento kosovaro lo scorso
17 febbraio, lo scenario però è radicalmente cambiato e gran parte delle
soluzioni precedentemente avanzate appaiono difficilmente proponibili[iii]. Anche se il governo e la Corte Suprema di
Belgrado hanno dichiarato nulla ed illegale l’indipendenza kosovara, sostenuti
in questo da Mosca per la quale la secessione rappresenta una violazione del
diritto internazionale, Pristina ha comunque già ottenuto il riconoscimento
della maggioranza dei Paesi europei e degli Stati Uniti. Tuttavia, appare
difficile che il nuovo Stato possa essere ammesso alle Nazioni Unite viste le
reazioni negative da parte di Russia e Cina Popolare. Se infatti fin
dall’inizio Washington ha appoggiato il governo kosovaro, una posizione questa
dettata anche dall’intenzione da parte dell’Amministrazione Bush di ringraziare
l’Albania per il sostegno offerto all’intervento in Iraq e di avvicinarsi ad
una popolazione musulmana dopo le tensioni avute con il mondo islamico in
questi ultimi, Mosca e Pechino al
contrario hanno accolto negativamente l’indipendenza del Kosovo. Storica
alleata di Belgrado, la Russia
ha sempre affermato che qualsiasi soluzione doveva ricevere l’approvazione di
entrambe le parti ricordando come il Kosovo potrebbe servire da precedente per
altri movimenti separatisti attivi in Europa o per le rivendicazioni
indipendentiste dell’Abkhasia e dell’Ossezia meridionale, un concetto questo
ribadito anche dalla Cina Popolare, la quale auspica il raggiungimento di un
accordo sulla base di quanto contenuto nella “Risoluzione 1244”
ritenendo che la secessione di Pristina introduca un elemento d’instabilità
nella regione balcanica[iv]. Non va poi dimenticato poi
come Pechino pensa che l’indipendenza kosovara possa rappresentare un punto di
riferimento qualora analoghe aspirazioni autonomiste emergessero nel Tibet, nel
Sinkiang e soprattutto a Taiwan. L’Unione Europea invece, alla luce delle
divisioni emerse al suo interno, non ha espresso una posizione comune lasciando
ai singoli membri la decisione se procedere o meno al riconoscimento. Così se
da un lato Italia, Regno Unito, Francia e Germania hanno riconosciuto il nuovo
Stato, dall’altro Spagna, Slovacchia, Romania e Cipro si sono detti contrari
all’indipendenza di Pristina, mentre la Grecia auspica invece una soluzione condivisa e la Bulgaria si attende dal
nuovo governo kosovaro l’applicazione di quanto contenuto nel piano Ahtisaari e
delle garanzie per la propria minoranza presente nella regione.
Ma
il timore della comunità internazionale è che davanti ad un Kosovo indipendente
i quattro comuni a maggioranza serba a nord dell’Ibar – Mitrovica Nord, Zvecan,
Zubin Potok e Leposavica – potrebbero distaccarsi per ricongiungersi con
Belgrado finendo così per riaprire anche le richieste di procedere a modifiche
territoriali e confinarie nei Paesi vicini, mentre altri non escludono poi che
Belgrado possa rimettere in discussione anche l’assetto politico ed
istituzionale della Bosnia – Erzegovina. Alcuni mesi fa, la proposta del
Rappresentante Internazionale Miroslav Lajcak di abbassare il quorum che consente ai diversi gruppi
nazionali di esercitare il diritto di veto, avanzata nell’intenzione di
rafforzare il governo ed il Parlamento bosniaco, aveva sollevato in Serbia la
dura protesta non solo degli esponenti radicali e socialisti ma anche dello
stesso Kostunica, che si era spinto ad affermare come l’attività della
diplomazia internazionale stesse mettendo in pericolo gli interessi essenziali
del popolo serbo[v]. E poco dopo l’indipendenza
del Kosovo, il Parlamento della “Republika
Srpska” ha dichiarato come sia
possibile la convocazione di un referendum per la secessione dell’entità serbo
– bosniaca, una consultazione che lo stesso Lajcak ha già dichiarato illegale
ma che, nel caso venisse indetta ed approvata, porterebbe di fatto alla
dissoluzione della Bosnia – Erzegovina.
La
secessione del Kosovo dalla Serbia, proclamata solennemente dall’assemblea
parlamentare di Pristina il 17 febbraio 2008, pone all’osservatore di politica
internazionale tre ordini di problemi. Il primo dilemma è giuridico, il secondo
è storico e la terza questione è politico-strategica. Considerata la complessa
partita diplomatica giocata tra il Palazzo di Vetro e le vallate dei Balcani
meridionali in questi nove anni, conviene precisare da principio i termini del
confronto legale in
atto in queste ore, riservandoci di approfondire in un secondo tempo l’analisi
sul piano storico e politico della querelle.
Al
contrario di quanti hanno superficialmente liquidato la decisione kosovara come
lecita perché appoggiata dalla maggioranza degli Stati occidentali, è opportuno
chiarire che, sul piano giuridico internazionale, la dichiarazione di indipendenza è considerata un atto
rilevante a livello meramente storico, una situazione di fatto che, di per sé,
non è contraria e non è conforme al diritto internazionale.
I
riferimenti all’autodeterminazione del popolo kosovaro, da più parti
impropriamente avanzati, non hanno alcun peso nella fattispecie. Infatti, il principio di
autodeterminazione dei popoli, come sancito dall’art. 1, par. 2, e dagli artt. 55 e 56 della Carta ONU, dai due Patti ONU del 1966,
dalla Dichiarazione dell’Assemblea Generale (AG) sull’indipendenza dei popoli
coloniali del 1960, da quella sulle relazioni amichevoli tra gli Stati del
1970, dai pareri resi dalla Corte Internazionale di Giustizia nel caso della
Namibia (1971) e del Sahara Occidentale (1975) e dalla sua sentenza nel caso di
Timor Orientale (1995), nonché infine dall’unanimità della dottrina, si
configura come autodeterminazione esterna, e non interna.
Ha
diritto a determinare liberamente il proprio status internazionale quel popolo
assoggettato a dominazione coloniale o razzista o il cui territorio è
conquistato e occupato con la forza; non già, quindi, quello che ambisce
all’instaurazione di un regime interno di tipo democratico. Va da sé che questo
tipo di pretesa, sebbene, come si è visto, non fondata in termini giuridici,
avrebbe trovato giustificazione quantomeno politica ai tempi del regime di
Slobodan Milosevic e della Repubblica Federale di Jugoslavia (RFJ).
Allo
stato attuale dell’assetto istituzionale interno alla Serbia e successivo al
distacco del Montenegro, della situazione politica interna ed internazionale ad
essa connessa in virtù degli sviluppi derivanti dall’intervento aereo della
NATO del 1999, della conseguente risoluzione 1244 (1999) del Consiglio di
Sicurezza (CdS), della concessione statutaria di una larga autonomia preservata
dalla presenza di una missione militare NATO (Kfor) e dell’amministrazione
provvisoria del territorio kosovaro da parte delle Nazioni Unite (Unmik), il
tema della democrazia come clausola argomentativa utile al perseguimento
dell’obiettivo della sovranità e dell’indipendenza non è sostenibile neanche
politicamente.
C’è
da aggiungere che il principio di autodeterminazione è irretroattivo, non operando così verso quelle
situazioni consolidatesi prima della sua formazione, quest’ultima relazionabile
al secondo dopoguerra. E’ evidente, perciò, come il Kosovo sotto sovranità
serba non rientri in alcuna modo nel’ambito di applicazione integrale di tale
regola. Tuttavia, l’autodeterminazione trova nel principio di integrità
territoriale degli Stati
un’importante eccezione, sancita al par. 7 della citata Dichiarazione
dell’Assemblea Generale del 1960.
In virtù di tale norma, l’autodeterminazione va
coordinata con i legami storico-geografici del territorio rispetto a quelli
dello Stato dominante. Interpretato in tal modo, il principio di integrità
territoriale costituisce un potente freno giuridico alle pretese secessionistiche
di un popolo. La Carta
di Parigi del 1990, elaborata in ambito OSCE e significativa di una certa
tendenza del diritto internazionale odierno a considerare con crescente
sensibilità la tematica dell’autodeterminazione interna, si pronuncia anch’essa
in tal modo. Anche sul piano della giurisprudenza interna le cose non cambiano.
La Corte Suprema
russa, nei casi del Tatarstan e della Cecenia, ha interpretato i due principi
come appena esposto per negare la possibilità di una secessione unilaterale
dalla Federazione. Anche la
Corte Suprema canadese, nel caso del Québec, ha negato che
una provincia o una regione, anche quando etnicamente differenziata dal resto
dello Stato, abbia il diritto a secedere al di fuori delle tre ipotesi tipiche
del principio di autodeterminazione dei popoli.
Pur
in assenza di un diritto a secedere, però, un popolo, se ne ha la forza
politica o militare, può di fatto staccarsi da uno Stato. In altre parole, il
diritto internazionale non prevede il diritto a secedere, ma non per questo non
riconosce, sulla base del principio di effettività, il distacco e la conseguente
nascita di un nuovo Stato, purché sovrano ed indipendente. Ai fini della soggettività di diritto
internazionale, pertanto, risulterà sufficiente che un governo risulti capace
in fatto di esercitare in via esclusiva il potere di imperio sulla comunità
territoriale distaccatasi, nell’ambito di un ordinamento giuridico non
derivato, cioè non dipendente da altri Stati (in tal senso è inteso il
requisito dell’indipendenza).
Quanto
fin qui chiarito vale purché non vi sia aiuto da parte di Stati terzi, i quali
hanno l’obbligo di rispettare l’integrità territoriale dello Stato che subisce
la secessione. Come ha rilevato il professor
Antonio Cassese, «se si dimostra che questo è il risultato di un’azione
autonoma dei kosovari, allora non vi è nessuna violazione del diritto internazionale».
Ovviamente, la dimostrazione del carattere autonomo dell’azione
kosovara è largamente opinabile in ambo i sensi e, essenzialmente, oggetto
dell’attuale stallo diplomatico in seno al Consiglio di Sicurezza.
Sulla
base di tali elementi possono quindi respingersi i timori di taluni sulla
portata della statualità del Kosovo proclamatosi indipendente. In tal senso la
pratica del riconoscimento
del nascente Stato da parte degli Stati preesistenti a cui si assiste in questi
giorni non
ha valenza costitutiva della personalità internazionale dello
Stato da riconoscersi. In dottrina si afferma che il riconoscimento di Stati è
un atto
politico, pertanto
discrezionale, e non giuridico. Gli Stati preesistenti sono liberi di
riconoscere uno Stato sovrano ed indipendente, così come di non riconoscerlo,
essendo la decisione legata a considerazioni di carattere diplomatico. Il
riconoscimento, quindi, non ha altro significato che una presa d’atto, sul
piano storico, dell’esistenza di uno Stato che sia tale giuridicamente – cioè:
sovrano ed indipendente – secondo la valutazione posta in essere dallo Stato
riconoscente. E la sua utilità è circoscritta all’instaurazione di normali
relazioni diplomatiche tra i due Stati e, più in generale, delle varie forme di
cui si sostanzia la vita di relazione internazionale. Non è un caso che le
conclusioni del documento comune approvato dal Consiglio dei ministri degli Esteri dell’UE
del 18 febbraio 2008 lascino facoltà ai singoli Stati membri di decidere
liberamente in merito al riconoscimento dello Stato kosovaro «in linea con le
pratiche nazionali e le norme giuridiche». Assunto quindi che la secessione kosovara,
considerata di per sé, assume una valenza giuridica a livello internazionale al
di fuori e a prescindere dall’ambito di applicazione del principio di
autodeterminazione dei popoli, bensì in virtù della mera situazione di fatto
venutasi a creare, è utile infine approfondire le diverse interpretazioni
giuridiche fornite dalle parti coinvolte nella crisi al testo-chiave per una
valutazione di legittimità della secessione di Pristina dalla Serbia, cioè la risoluzione 1244 (1999)
del CdS.
La
risoluzione 1244 ordinava al governo della
RFJ, al termine dell’intervento aereo della NATO di quell’anno, di ritirare
tutte le forze armate federali dal territorio del Kosovo e di permettervi
l’avvio di un’amministrazione provvisoria da parte dell’ONU. La risoluzione rinviava indefinitamente
la soluzione politica della crisi in tal maniera.
L’argomentazione fornita dalla maggior parte degli Stati membri dell’Unione Europea
e dagli Stati
Uniti al riguardo è che, poiché la risoluzione disponeva
l’invio di una missione «civile e militare internazionale che facilitasse un
processo politico volto a determinare il futuro status internazionale del
Kosovo» e poiché tali principi furono concordati, prima dell’adozione della
risoluzione in esame, da una riunione dei ministri degli Esteri degli Stati membri del G8,
implicitamente questa clausola giustificherebbe giuridicamente l’esito finale –
l’indipendenza di Pristina – di tale processo politico. In pratica, gli Stati
occidentali asseriscono che l’indipendenza è il risultato di un percorso politico
caratterizzante lo spirito della risoluzione 1244. Nello stesso
senso si pronuncia il documento adottato dall’UE per legittimare la missione Eulex,
approntata in ambito PESD. La posizione della Serbia, della Federazione Russa, della Cina e di una minoranza degli Stati membri dell’UE (Grecia, Spagna, Cipro, Slovacchia
e Romania) che tuttavia, astenendosi in sede di votazione, non
si sono opposti all’approntamento della missione Eulex da parte dell’UE,
consiste in un rifiuto categorico
di una siffatta impostazione. Questi Stati affermano che non esiste alcuna
risoluzione del CdS che autorizzi la secessione del Kosovo. Il riferimento
argomentativo è dato dal paragrafo 10 della risoluzione 1244 che prevede
espressamente, e con efficacia indiscutibilmente vincolante per le parti
coinvolte, la concessione al Kosovo di «una sostanziale autonomia»
all’interno dell’allora RFJ. Poiché tale disposizione è l’unica tra quelle
della risoluzione 1244 a
statuire in merito allo status della regione kosovara, ne discende che
l’ipotesi dell’indipendenza è apertamente esclusa dal testo. Inoltre, con
riferimento alla missione Eulex, i governi di Belgrado e Mosca rilevano come la
risoluzione 1244 autorizzi missioni di organizzazioni internazionali nel
territorio del Kosovo purché «sotto gli auspici dell’ONU», elemento di cui
sarebbe quindi sprovvista la missione UE.
La
posizione avanzata dagli Stati occidentali appare molto debole.
La prova è data dal fatto che il documento comune dell’UE adottato in
ambito PESD e relativo alla missione Eulex, dopo aver giustificato l’esito
finale del processo politico richiamato nella risoluzione 1244, tuttavia si
affretta a riconoscere che i riferimenti del Preambolo al Kosovo come parte
integrante del territorio della RFJ e al rispetto del principio di
integrità
territoriale della RFJ non siano vincolanti. Notoriamente, le
clausole preambolari delle risoluzioni del CdS non sono infatti vincolanti, al
contrario del testo dispositivo, anche nei casi in cui queste siano adottate ex
Capitolo VII della Carta Onu. Ma risulta quantomeno paradossale e in ultima istanza da respingere
nella posizione degli Stati occidentali l’argomentazione secondo la quale ciò
che è espressamente affermato nella parte dispositiva della risoluzione –
l’integrità territoriale della RFJ e lo status di mera autonomia del Kosovo –
non debba considerarsi vincolante, mentre ciò che fu concordato in un foro
politico multilaterale privo di poteri vincolanti ed estraneo al CdS, quale è
il G8, e che non risulta inequivocabilmente sancito nella risoluzione –
ovverosia che l’esito finale del processo politico potesse prevedere
l’indipendenza del Kosovo – risulti invece vincolante, seppur implicitamente.
Alla
luce di questa analisi non può ammettersi la legittimità giuridica del processo di secessione del Kosovo,
ferma restando, in virtù del principio di effettività sul piano
meramente storico e di un progressivo e connesso consolidamento delle
istituzioni del nascente Stato da ipotizzarsi nel tempo, la piena configurabilità
quale soggetto di diritto internazionale dello Stato kosovaro,
in quanto sovrano ed indipendente.
La regione dei Balcani è stata più volte, nel corso della storia,
teatro di violenti e sanguinosi scontri etnici. Essendo una regione particolare, in essa si scontrano
storicità, identità etnica, identità religiosa, geopolitica, nazionalismo,
interesse economico ed interesse politico. Inizialmente
si cadde in un dilemma di carattere cronologico, in quanto è difficile
scegliere il tempo dal quale iniziare ad analizzare i fatti che portarono
all’interessamento internazionale verso il Kosovo. Essendo una regione (in una
più ampia visione i Balcani) che separa l’ est dall’ ovest, (l’Impero Ottomano
dall’ Impero Asburgico) è stata la carta in mano per soddisfare interessi
geopolitici delle grandi potenze. Avanzando nel tempo la regione si trovò fra i
due campi opposti della Guerra Fredda con lo status di non-allineata
(Jugoslavia) e la fine di essa portò ad una corsa delle nuove potenze per farla
entrare nella propria sfera d’influenza. La situazione si complica anche a
causa della diversità etnica[1]
all’interno della regione, la quale è difficilmente determinata poiché le
continue assimilazioni nella regione hanno garantito volontariamente o
involontariamente una differenziazione rispetto alle culture originarie ossia
quelle albanesi, serbe, rom e altre minoranze. Le aspirazioni territoriali
di diversi paesi sulla regione hanno continuamente nutrito il ben noto “scontro
delle civiltà” descritto da Huntington.
Nella
prospettiva economica la regione è stata una delle più povere nel corso della
storia (anche se ricchissima in risorse naturali). Il sottosviluppo e la
mancanza di iniziative economiche hanno dato alla regione uno status uguale a
quello di una colonia sfruttata dalle “Grandi Potenze” (prima l’Impero Bizantino,
poi l’Impero Ottomano e infine lo stato serbo) che nel corso della storia hanno
reperito materia prima e forza lavorativa a basso costo. Nel campo religioso la
regione del Kosovo è casa di musulmani, cattolici ortodossi, altre minoranze
religiose e atei. Alcune religioni sono state imposte, altre tramandate, ma
comunque usate ampiamente per dividere e inasprire le convergenze tra gli
abitanti della regione. Certo le popolazioni di essa non hanno ugualmente colpa
nei continui conflitti all’interno della regione. L’ origine storica[2],
le differenze culturali, la nascita del nazionalismo serbo prima della
formazione di uno stato albanese, il consenso degli albanesi nel vivere
all’interno dell’Impero Ottomano e l’organizzazione politica bilaterale sono
alla base delle acquisizioni territoriali senza un criterio etnico. Dall’ altra
parte anche le concessioni delle Grandi Potenze del XIX e del XX secolo hanno
consentito a portare alla situazione del 1999. Il Congresso di Vienna[3],
il Trattato di Santo Stefano[4],
il Congresso di Berlino[5] e la Conferenza di Londra[6]
hanno totalmente taciuto in merito al problema etnico. Ci volle l’interesse del
presidente Wilson e della Società delle Nazioni per far sentire la voce delle
minoranze etniche nei Balcani, ma i confini erano stati decisi da molto prima.
Questi sono fatti storici attraverso i quali si può spiegare la continuità
della questione albanese nei Balcani inglobando all’interno di essa la
questione del Kosovo. L’ importanza che riveste la conoscenza della reazione
internazionale in merito alle richieste delle nuove formazioni politiche nei
Balcani fa’ capire l’ingiustizia storica[7]
che ha accompagnato tale processo. Purtroppo la meglio la ha avuta lo stato
serbo che assurdamente si riferiva alla sua “nacertanije” ossia il progetto per il ritorno nei confini della
grande Serbia del 1331. La formazione degli stati nell’ 800 è un primo momento
con il quale si può iniziare a studiare l’interessamento della comunità
internazionale verso la regione del Kosovo, ma si può parlare di interessamento
verso la regione o di soddisfacimento di interessi? I confini internazionali
nella regione si sono definiti (o meglio riconosciuti universalmente) dopo la I Guerra Mondiale e sono
rimasti uguali fino alla fine della Guerra Fredda. Neanche la fine della II
Guerra Mondiale ha portato al cambiamento dei confini, in quanto non fu
riconosciuto nessun cambiamento avvenuto con la forza. In aggiunta al rifiuto
internazionale, la situazione politica interna ossia le relazioni fra l’Albania
comunista e la Jugoslavia
federalista erano “ottime” e il Kosovo non era un punto di corrosione delle
relazioni fra i due stati confinanti.
Solo
nell’ultimo decennio del XX secolo con i cambiamenti riportati nell’ intero
sistema internazionale il Kosovo spuntò di nuovo come un problema irrisolto.
Manifestazioni, proteste, scontri armati (isolati in un primo tempo), scioperi
da parte degli albanesi sono state soppresse attraverso l’uso della forza,
discriminazioni, licenziamenti dallo stato serbo. Il tutto oscurato quasi
totalmente agli occhi della comunità internazionale. Con la guerra in Bosnia –
Erzegovina il Kosovo sprofondò ancora di più nell΄oscurità e nel
disinteressamento internazionale. Durante quell
periodo del conflitto serbo-bosniaco, si svolse nel Kosovo, dal 26 al 30
settembre 1991, un referendum popolare clandestino per decidere del proprio
futuro: l’87.5 % della popolazione albanese espresse la volontà di costituire
uno Stato sovrano indipendente. Il 24 maggio 1992, utilizzando case private come
seggi elettorali, si svolsero anche le prime elezioni libere e pluripartitiche
parallele, non riconosciute dalle autorità serbe, per l’elezione della nuova
assemblea e del nuovo governo del Kosovo. La vittoria fu del LDK (Lega
democratica del Kosovo) ed il suo leader, Ibrahim Rugova, divenne il Presidente
della “Repubblica del Kosova” con il 99% dei voti. La politica di Rugova e del
LDK negli anni successivi si incentrò su tre linee direttrici principali: la
resistenza non violenta, l’internazionalizzazione del problema Kosovo e,
soprattutto, la creazione di un apparato statale parallelo della “Repubblica
del Kosova” in opposizione all’autorità serba. Si cercava, in altre parole, di
ricevere dalla comunità internazionale il riconoscimento dell’indipendenza
attraverso la finzione dell’esistenza di uno Stato del Kosovo. Il regime di
Belgrado reagì a questa provocazione militarizzando completamente la regione.
Le violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali, a cui la
popolazione albanese fu sottoposta in questo periodo, portarono alla messa in
discussione della linea politica non violenta di Rugova.
Intanto, il 19 maggio 1996 si segnalò la comparsa nelle principali
città dei primi manifesti dell’Uçk, l’Esercito di Liberazione del Kosovo. Nelle
elezioni clandestine, tenutesi il 22 marzo 1998, Rugova fu comunque rieletto
Presidente della “Repubblica del Kosova”, anche se la popolazione, non essendo
più convinta della sua linea politica, iniziò a sostenere sempre di più le
azioni terroristiche dell’Uçk volte a colpire le istituzioni serbe. Sono stati gli eventi del
1998 ad attirare l’attenzione della comunità internazionale. La crisi
umanitaria e la situazione “quasi” bellicosa nel Kosovo ha portato potenze,
organizzazioni e lobby ad un particolare interessamento verso la regione
considerata da tempo come “polveriera” d’Europa. Gli attori principali sono
stati i paesi del Gruppo del Contatto, particolarmente distinti gli USA e la Russia , l’ONU, l’UE, la NATO e ovviamente l’ Albania,
la Macedonia
e il Montenegro.
Questo
è il secondo momento nel quale la comunità internazionale ha iniziato ad
interessarsi (seriamente) della questione del Kosovo fino alla liberazione
dalla Serbia e sarà questo momento l’ oggetto di analisi di questa tesi.
Ovviamente sarà trattato anche il momento precedente in quanto garantisce la
continuità storica del problema. Saranno trattate sia le azioni politiche
intraprese nel campo internazionale sia l’influenza politica all’interno degli
stati e delle organizzazioni internazionali provocate dalla crisi del Kosovo.
Una particolare attenzione sarà rivolta all’intervento della NATO e alle novità
riportate da esso. Certamente sarà inclusa l’influenza del campo politico
interno, ossia l’influenza dell’Albania e della politica jugoslava, delle forze
politiche nel Kosovo e la loro collaborazione con il resto degli attori che
hanno portato alla soluzione dell’ultimo conflitto armato in Europa.
Nel 1998 un’escalation di violenza tra le milizie militari e
paramilitari serbe e i guerriglieri albanesi dell’Uçk segnò il quasi definitivo
precipitare della situazione in Kosovo. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni
Unite, nella Risoluzione n. 1160 del 1998, decise di decretare l’embargo sulla
fornitura di armi a tutta la regione.
Altre due risoluzioni, approvate dal Consiglio di Sicurezza, il 23
settembre e il 24 ottobre 1998, nonostante avessero qualificato la situazione
in Kosovo come una minaccia alla sicurezza e alla pace nella regione, non si
spinsero oltre alla formale condanna della violenza e all’invito al cessate il
fuoco in vista di un negoziato internazionale.
Le trattative di Rambouillet e di Parigi[8],
svoltesi dal 6 febbraio al 19 marzo del 1999, non portarono comunque a nessuna
soluzione pacifica del conflitto tra serbi ed albanesi. Così, la sera del 24
marzo 1999, la NATO decise unilateralmente di intraprendere, con una serie di
bombardamenti aerei contro obiettivi posti in tutto il territorio della
Repubblica Federativo di Jugoslavia, l’operazione “Determined Force ”, che
sarebbe durata 78 giorni. La risoluzione 1244[9],
adottata il 10 giugno 1999, dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite
avrebbe definito il piano di pace nonché decretato la missione di peace-keeping
dell’UNMIK in Kosovo.
Le motivazioni avanzate dall’Alleanza Nord-Atlantica per
giustificare l’intervento militare unilaterale del 1999 contro la Repubblica
Federativo di Jugoslavia, se da un lato contenevano un generico riferimento
agli obiettivi delle risoluzioni n. 1160, 1199, 1203 adottate nel corso del
1998 dal Consiglio di Sicurezza; dall’altro, invece, si rifacevano alla teoria
dell’intervento d’umanità “to prevent further humanitarian catastrophe”. Il
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, d’altronde, non era stato in grado
di autorizzare i raid aerei della NATO a causa della ferma opposizione della
Federazione Russa e della Cina.
La crisi del Kosovo ha quindi riaperto in dottrina il problema
relativo alla liceità dell’intervento unilaterale umanitario. Alcuni eminenti
studiosi di diritto internazionale hanno deciso, infatti, di affrontare il
problema relativo alla legittimità in base al diritto internazionale del
ricorso unilaterale all’uso della forza armata per porre rimedio a gravi
violazioni dei diritti umani. Non bisogna dimenticare, d’altronde, che il
divieto di ricorrere all’uso della forza armata da parte degli Stati, in
seguito all’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite, è divenuta una
norma di ius cogens[10].
Le uniche eccezioni a tale divieto sono costituite dalla legittima difesa nonché
dalle misure coercitive autorizzate dal Consiglio di Sicurezza in base al
sistema di sicurezza collettivo predisposto dal cap. VII della Carta delle
Nazioni Unite.
Tuttavia, l’adozione da parte dell’Alleanza Nord-Atlantica della
nuova dottrina strategica del 1999 sembra aver ampliato, in linea di principio,
le possibilità di ricorso legittimo all’uso della forza da parte degli Stati
membri della NATO in caso di inerzia del Consiglio di Sicurezza: in questa
prospettiva, quindi, le Nazioni Unite non costituirebbero più l’unica
organizzazione legittimata ad intervenire in caso di conflitti che mettano in
pericolo la sicurezza dell’area euro-atlantica.
L’intervento militare della NATO in Kosovo, anche se ha preceduto
l’adozione formale della nuova dottrina strategica, infatti, sembra essere
stato concepito, almeno da alcuni Stati membri dell’Alleanza, proprio come
un’attuazione anticipata di tale strumento.
Lo
sviluppo economico del Kosovo e la sua integrazione nell’economica globale,
sono fondamentali per garantire la stabilità. La sua situazione prima
dell’indipendenza è stato molto più problematico rispetto alla situazione
post-indipendenza, poiché pre-indipendenza del Kosovo è stato completamente
isolato, in gran parte in grado di richiedere l’assistenza da parte delle
istituzioni finanziarie internazionali, e ha offerto una clima veramente incerto investimento per
le imprese straniere. Subito dopo del proclamazione di indipendenza del Kosovo
tanti paesi hanno riconosciuto e stanno dando sostegno, in previsione della
necessità di assistere la transizione del Kosovo come stato indipendente. Il Kosovo è
diventato in poco tempo un importante fattore di pace, stabilità e cooperazione per la
regione, dove le tensioni interetniche sono ormai a livelli minimi. La repubblica del Kosovo è diventata membro a pieno
titolo di due importanti istituzioni economiche mondiali, la
Banca
Mondiale
e il Fondo Monetario Internazionale.
[1] Vedere fig.15, fig.16, fig.17
[2] Vedere fig.1
[3]http:/www.seerecon.org/Kosovo/KosovoInformation.htm
[4]Enrico
Bartok, Kosovo:Le ragioni di una tragedia, Milano, Nuove Edizioni Swan, 1999,
p. 19.
[5]Jože Pirjevec, Serbi, Croati, Sloveni. Storia di tre nazioni, Bologna,
Mulino, 2002, pp. 16 – 17.
[6] Malcolm Noel, Storia del Kosovo: dalle origini ai giorni nostri, Milano,
Paperback, 1999, p. 23.
[7] I confini degli stati balcanici sono stati determinati nel
corso del ‘800 alla influenza degli trattati segreti e dalle convenzioni fra le
grandi potenze del epoca.
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