Cerca nel blog

domenica 6 marzo 2016

Albania. Nota di Studio

 III Parte

di   Astrit ALIAJ

Le proposte avanzate dai governi di Pristina e Belgrado
Pur davanti ad un quadro ancora segnato da sfiducia reciproca, le delegazioni serbe e kosovare hanno comunque tenuto in questi anni alcuni incontri a livello tecnico. Sollecitati dall’inviato speciale Ahtisaari ed incentrati essenzialmente sulla ridefinizione dei confini municipali, la protezione dei siti culturali e religiosi serbi e la quota del debito serbo da attribuire al Kosovo i colloqui, che dovevano avviare la discussione sul futuro status regionale, si sono conclusi però con un nulla di fatto restando le posizioni delle parti assai distanti tra loro. Ma se le forze politiche kosovare hanno sempre insistito per l’indipendenza, Belgrado invece ha continuato a rivendicare l’appartenenza alla Serbia della regione, come dimostrano anche i riferimenti al Kosovo inseriti nella nuova Costituzione approvata da un referendum popolare nell’ottobre del 2006. I dirigenti serbi sono stati comunque sempre consapevoli che non esisteva alcuna possibilità concreta di far ritornare il Kosovo sotto il controllo di Belgrado ed il loro massimo obiettivo politico è stato quello di cercare di far approvare dalle Nazioni Unite una risoluzione in cui ogni riferimento all’indipendenza comparisse in termini quantomeno sfumati ed ambigui. Il governo di Belgrado in questi ultimi due anni ha tuttavia ribadito più volte di non poter abbandonare gli oltre 100.000 suoi connazionali ancora residenti su un territorio considerato la culla storica della nazione serba, insistendo inoltre sul fatto che la comunità internazionale doveva garantire l’integrità territoriale della Serbia.
Questi principi sono stati chiaramente espressi in diversi piani presentati negli ultimi anni da esponenti politici serbi, quale quello avanzato nel novembre 2005 dal coordinatore per la politica sul Kosovo della presidenza Raskovic – Ivic dove si proponeva una soluzione in cui alla Serbia sarebbero spettati il controllo delle frontiere, la supervisione delle entrate fiscali e doganali nonché le competenze in materia di politica estera e difesa mentre l’esecutivo kosovaro avrebbe potuto disporre di tutte le altre prerogative compresa l’amministrazione del sistema giudiziario. Poco dopo, alcuni esponenti del governo serbo prospettavano la possibilità che al Kosovo venisse attribuita una larga autonomia interna supportata da garanzie internazionali, di modo che se da un lato Belgrado non avrebbe potuto sopprimere l’autogoverno regionale dall’altro alla maggioranza albanese sarebbe stato impedito di proclamare la piena indipendenza.
Successivamente, altri due progetti sono stati lanciati dall’allora Ministro degli Esteri Draskovic, nel quale si affermava che il Kosovo avrebbe potuto disporre di proprie forze armate e di una polizia autonoma e diventare membro delle organizzazioni internazionali a condizione però di veder riconosciuta l’intangibilità delle frontiere serbe, e congiuntamente dal Presidente Tadić e dal vice – Primo Ministro Labus dove, riprendendo quanto esposto a suo tempo dal Primo Ministro Djindjic, si sosteneva come la regione dovesse essere divisa in modo da costituire un’entità serba ed un’altra albanese le quali, dopo un periodo di cinque anni, sarebbero state rispettivamente incluse nella Serbia e diventate indipendenti. Quest’ultima proposta ripropone quanto avanzato da esponenti politici ed accademici serbi negli ultimi dieci anni. Pur se di difficile realizzazione avendo essenzialmente un’importanza teorica, alcuni di questi progetti meritano comunque di essere descritti in quanto rappresentano, per le considerazione esposte, un interessante spunto di discussione nel dibattito sullo status del Kosovo. La prima, avanzata nell’estate del 1997 dal Presidente dell’Accademia Serba delle Scienze Aleksander Despic, proponeva un “divorzio consensuale” da Belgrado partendo dalla considerazione che, avendo la popolazione albanese percentuali di crescita decisamente maggiori di quella serba, entro venti o trenta anni gli equilibri demografici del Paese sarebbero stati modificati ponendo a rischio la sua identità culturale. Molto più rilevante dal punto di vista politico si presentava quella dettata dal professore serbo – americano Steven Majstorovic, il quale proponeva di dividere la regione attribuendo agli albanesi il 75% del territorio ed il restante 25% ai serbi, che in questo modo pur perdendo gran parte dei luoghi santi ortodossi avrebbero comunque conservato i più importanti impianti industriali e minerari della regione.
Sul piano istituzionale, mentre la parte albanese avrebbe goduto di una piena indipendenza, nell’area rimasta sotto il controllo di Belgrado i diritti individuali dei cittadini serbi ed albanesi sarebbero stati garantiti da un contingente di osservatori internazionali. L’ultima proposta, lanciata poco prima del conflitto dall’accademico Dusan Batakovic, intendeva dividere il Kosovo in una serie di cantoni riflettendo il pensiero di diversi esponenti politici e culturali serbi decisi ormai a trovare una soluzione al problema ma convinti anche che la comunità internazionale non avrebbe mai accettato una divisione del Kosovo ed una modifica delle sue frontiere.
Nei colloqui svoltisi in questi mesi per la definizione dello status definitivo della regione il governo serbo, pur continuando ad indirizzare le sue richieste direttamente all’UNMIK proprio per non riconoscere l’esistenza dell’esecutivo provvisorio kosovaro, ha puntato ad ottenere un’autonomia per i comuni a maggioranza serba ed un regime di protezione internazionale per i luoghi sacri ortodossi presenti in Kosovo. Nelle intenzioni di Belgrado si sarebbero dovute formare almeno 15 municipalità serbe, istituite sulla base della distribuzione della popolazione serba esistente prima del 1999, ognuna dotata di propri funzionari, di autonomia in campo finanziario e della prerogativa di amministrare i settori dell’istruzione, della sanità e dei servizi sociali ed alle quali doveva inoltre essere consentito di avere dei legami diretti con la Serbia. Allo stesso modo per tutelare i luoghi santi ortodossi questi sarebbero stati o inclusi all’interno del territorio dei comuni serbi qualora fossero situati nelle loro vicinanze oppure posti sotto un regime di protezione internazionale. Il governo serbo inoltre ha più volte ribadito l’intenzione di chiedere un risarcimento per i danni subiti dai suoi connazionali in occasione dei disordini interetnici esplosi tre anni fa e per quelli che recentemente hanno perso il proprio lavoro dopo la creazione della nuova società elettrica kosovara, proposte alle quali i dirigenti politici di Pristina hanno risposto affermando come Belgrado non abbia tuttora liquidato le migliaia di funzionari pubblici albanesi espulsi durante gli anni Novanta nonché tutti quelli costretti ad abbandonare le proprie abitazioni durante la repressione attuata dal regime di Milosevic tra il 1998 ed il 1999. Davanti alle richieste serbe, l’UNMIK ha però fatto notare che la costituzione di una serie di piccole municipalità sarebbe insostenibile sul piano finanziario, mentre gli esponenti politici kosovari hanno sottolineato come in questo modo il controllo sulla polizia ed il sistema giudiziario di queste amministrazioni comunali verrebbe di fatto sganciato e reso autonomo da quello centrale.
Le stesse autorità di Pristina hanno inoltre ritenuto troppo elevato il numero di municipalità serbe da costituire essendo ormai profondamente cambiata dopo il conflitto la mappa etnica della regione, dichiarando anche che non avrebbero accettato l’ipotesi di dividere la parte settentrionale a maggioranza serba della città di Mitrovica da quella meridionale abitata invece in prevalenza da albanesi. Nonostante questo, Belgrado ha continuato a ripetere che l’unica soluzione per ricreare un Kosovo multietnico sia l’istituzione di regioni autonome per le diverse minoranze presenti nel territorio. Stando ad un piano preparato dal governo serbo, la “Comunità Autonoma Serba del Kosovo e della Metohija” avrebbe dovuto includere cinque distretti comprendenti la dei luoghi sacri ortodossi, sarebbe stata dotata di un proprio governo, di un’Assemblea legislativa e di un sistema giudiziario autonomo, avrebbe avuto le competenze in materia di istruzione, cultura e sanità disponendo anche del controllo della polizia. La futura regione avrebbe incluso le aree rurali e le municipalità in cui i serbi fino al 1999 rappresentavano la maggioranza della popolazione ma, essendo ormai impossibile per i profughi ritornare nelle città dove in precedenza risiedevano, a questi come compensazione doveva essere consentito di stabilirsi non nelle zone originarie ma nei territori limitrofi a quelli attualmente abitati dai serbi proprio per creare un’area etnicamente omogenea dotata delle risorse naturali e delle infrastrutture necessarie. Allo stesso modo, ai cittadini serbi residenti al di fuori della regione dovevano essere garantiti tutti i diritti civili e politici, il rispetto della propria identità religiosa e culturale nonché la possibilità di costituire delle istituzioni governative autonome. Ma il motivo sul quale Belgrado ha costantemente insistito nell’opporre il suo veto ad una possibile indipendenza del Kosovo è che questa finirebbe per provocare un “effetto domino” capace di destabilizzare l’intera regione. Non pochi leader politici serbi ritengono che un eventuale Stato kosovaro autonomo non solo spingerebbe le minoranze albanesi residenti in Montenegro, Grecia e Macedonia, unitamente agli albanofoni serbi concentrati nella valle di Presevo, a seguire un’identica politica separatista, ma finirebbe anche per rafforzare gli elementi più radicali riproponendo la tesi secondo cui la Serbia avrebbe dovuto riconoscere la “Republika Srpska” nel caso in cui il Kosovo avesse proclamato la sua indipendenza.
Sul piano politico, quasi tutti i partiti serbi hanno espresso la loro contrarietà ad ogni ipotesi di indipendenza della regione. Se il leader del “Partito Radicale” ( SRS ) Tomislav Nikolic, recentemente sconfitto alle presidenziali da Boris Tadic, era arrivato a prospettare un’insurrezione popolare qualora le Nazioni Unite avessero approvato il piano Ahtisaari, non meno ferme sono state le posizioni espresse dai Socialisti e dal “Partito Democratico Serbo” ( DSS ) del Premier Kostunica, mentre l’unica voce discordante è stata quella del responsabile del “Partito Liberaldemocratico” ( LDP ) Cedomir Jovanovic che si è sempre pubblicamente espresso a favore dell’auto – determinazione del Kosovo. E lo stesso “Partito Democratico”  ( DS ) del Presidente Tadic ed i liberali del “G17”, che pure in passato erano sembrati possibilisti verso l’idea di un Kosovo autonomo, appaiono ora fermamente contrari all’indipendenza della regione. Ma se la linea del governo serbo ha avuto come obiettivo quello di impedire, o quantomeno di rallentare, il cammino del Kosovo verso l’indipendenza puntando ad ottenere una larga autonomia per i propri connazionali rimasti, quella del governo e dei principali partiti kosovari – la“Lega Democratica del Kosovo” ( LDK ), il “Partito Democratico del Kosovo” ( maggior parte PDK ) e l’“Alleanza per il Futuro del Kosovo” ( AAK ) – è stata sempre univoca nel richiedere l’autodeterminazione per la regione.
In questi mesi però, pure se la posizione ufficiale di Pristina è che nessuna rivendicazione territoriale oltre i confini regionali verrà avanzata da parte del nuovo Stato, alcuni esponenti kosovari, perlopiù appartenenti a formazioni ultranazionaliste, si sono spinti oltre sostenendo l’idea di una futura unione con l’Albania, anche se il pan – albanismo non sembra comunque riscuotere grandi consensi né a Pristina né a Tirana.

Dal rapporto Ahtisaari all’indipendenza
Preoccupata dei possibili rischi che avrebbe comportato per la sicurezza del Kosovo un ritardo nell’avvio dei negoziati, la comunità internazionale nella scorsa primavera ha deciso di presentare un piano dettagliato per definire lo status della regione. Nel rapporto preparato dall’inviato speciale Marti Ahtisaari e trasmesso ai membri del Consiglio di Sicurezza dal Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki - moon, si affermava come l’unica soluzione praticabile per la regione era quella di un’indipendenza sotto la supervisione internazionale, non essendo possibile prospettare né il ritorno sotto la sovranità di Belgrado né tantomeno il prolungamento dell’attuale missione UNMIK. Nel primo caso, la relazione sottolineava come la stragrande maggioranza della popolazione albanese, ricordando quanto accaduto sotto il regime di Milosevic, non accettava di vedere la regione rientrare a far parte della Serbia, mentre l’attuale amministrazione internazionale non poteva più essere mantenuta in funzione in quanto, pur avendo questa favorito la creazione delle autonomie locali, non aveva consentito lo sviluppo di un’economia stabile. Proprio la debolezza economica  è stata causa di tensioni politiche e sociali, senza contare che per il suo status indefinito il Kosovo non ha potuto accedere alle istituzioni finanziarie internazionali, integrarsi con gli altri Paesi della regione e partecipare al processo di adesione all’Unione Europea. Nel rapporto si ricordava comunque come la piena indipendenza non poteva essere al momento considerata realizzabile data la debolezza delle istituzioni locali, disponendo queste di pochi strumenti efficienti per assicurare la gestione dell’economia, consolidare il processo di democratizzazione e tutelare la minoranza serba le cui condizioni di vita continuavano a rimanere difficili. L’opzione di un’ “indipendenza monitorata” sotto la supervisione di una presenza civile e militare internazionale, incaricata di valutare ed eventualmente modificare le disposizioni in materia di decentralizzazione, diritti delle
  minoranze, protezione della Chiesa Ortodossa e tutela dello stato di diritto, appariva quindi la sola prospettiva credibile. Sul piano istituzionale, secondo quanto era previsto nel piano, il Kosovo avrebbe avuto un Presidente ed un Governo, del quale dovevano far parte almeno un ministro serbo ed un altro in rappresentanza delle diverse minoranze etniche, di un’Assemblea legislativa composta di 120 membri eletti con il sistema proporzionale e di un sistema giudiziario indipendente e capace di riflettere il carattere multietnico della regione.
Riguardo alla decentralizzazione, il piano prevedeva che ai comuni sarebbe spettato l’insegnamento primario e secondario, le prestazioni sanitarie di primo livello, l’assistenza sociale, la tutela dell’ambiente e la protezione civile, mentre le municipalità a maggioranza serba avrebbero goduto di un’autonomia in campo culturale per permettergli di tutelare i siti religiosi presenti all’interno del loro territorio insieme al diritto di poter adottare i testi scolastici in uso in Serbia e di avviare programmi di cooperazione ed assistenza tecnica e finanziaria con Belgrado nei settori di loro competenza[i]. A tutela dei luoghi sacri ortodossi, il progetto Ahtisaari stabiliva poi che il governo di Pristina avrebbe dovuto rispettare l’autonomia interna della Chiesa ortodossa in Kosovo riconoscendola parte integrante di quella di Belgrado impegnandosi inoltre a garantire l’inviolabilità delle sue proprietà immobiliari, mentre come ulteriore garanzia il piano, a protezione del Patriarcato di Pec e degli altri monasteri più importanti, assicurava la presenza di un contingente internazionale che sarebbe stato dispiegato nella zona fino a quando il Rappresentante civile internazionale non avrebbe accertato l’esistenza delle condizioni per un trasferimento delle funzioni alla polizia locale. 
Ed una delle questioni più importanti che l’amministrazione internazionale si è trovata  ad affrontare è stata proprio quella relativa all’organizzazione delle forze di polizia kosovare. Poco dopo la conclusione del conflitto, venne istituito il “Kosovo Police Service”, un corpo di sicurezza ritenuto però da alcuni osservatori non sufficientemente preparato visti i presunti legami con la criminalità organizzati avuti da diversi suoi componenti[ii]. Negli ultimi anni però a detta degli esperti il quadro sarebbe andato progressivamente migliorando e, pur restando la fiducia della popolazione serba estremamente bassa, dopo l’istituzione del Ministero degli Interni kosovaro un sempre maggiore numero di funzioni è stato trasferito alla polizia locale. In proposito, nel piano avanzato da Ahtisaari era previsto che la polizia del Kosovo avrebbe avuto un comando unificato e la sua composizione etnica all’interno delle municipalità riflesso quella esistente sul territorio comunale, mentre ai comuni serbi veniva concesso il diritto di redigere una lista di nominativi dalla quale le autorità di Pristina avrebbero successivamente designato il comandante locale. Le unità di polizia sarebbero state poi
 affiancate da un servizio d’intelligence interno e da una “Forza di Sicurezza” equipaggiata con armamento leggero e composta da 2.500 effettivi ed 800 riservisti, mentre una presenza militare internazionale avrebbe continuato a rimanere dispiegata nella regione con l’incarico di proteggere il Kosovo da eventuali minacce esterne e di supervisionare ed assistere le locali forze dell’ordine.
La proposta Ahtisaari veniva però respinta nel febbraio dello scorso anno dal Parlamento serbo con un voto pressoché unanime dal quale si dissociavano solo i liberaldemocratici di Jovanovic. Ed in un memorandum presentato subito dopo, il governo di Belgrado ricordava che dal 1999 oltre 200.000 serbi ed appartenenti ad altre minoranze erano stati costretti ad abbandonare il Kosovo e come solo una parte trascurabile di essi era rientrata nelle zone di residenza, affermando inoltre come almeno il 70% dei centri abitati serbi era stato oggetto di “pulizia etnica” dopo il conflitto. Il piano presentato dall’inviato delle Nazioni Unite è stato poi criticato dalla Serbia non solo perché la sua applicazione avrebbe portato alla perdita del 15% del territorio nazionale, ma soprattutto per il fatto che questo indebolirebbe le istituzioni democratiche del Paese avendo effetti imprevedibili sulla stabilità e la sicurezza dei Balcani. Per questo, Belgrado ha sempre affermato come l’unica soluzione praticabile era quella di una “autonomia monitorata” sotto la supervisione della comunità internazionale. Secondo questo piano, illustrato dalla delegazione serba al Consiglio di Sicurezza nella primavera scorsa, al Kosovo venivano attribuiti un governo, un potere legislativo ed un sistema giudiziario autonomi lasciando a Belgrado solo le competenze in materia di politica estera, difesa, controllo delle frontiere, emissione della moneta e protezione dei luoghi sacri e culturali serbi. Ai kosovari era inoltre assicurata una rappresentanza all’interno della Banca Nazionale e del Ministero degli Esteri, non avendo avuto il Kosovo la facoltà di concludere trattati internazionali ed aprire uffici diplomatici all’estero.
E’ in questo quadro d’incertezza che si è arrivati alla scadenza del 10 dicembre, quando all’interno del Consiglio di Sicurezza è sembrato ormai evidente come non ci fossero più spazi di manovra per raggiungere un’intesa. Già nelle settimane precedenti comunque appariva chiaro quanto le parti fossero distanti tra loro, tanto che mentre il “Gruppo di Contatto” nel suo documento in 14 punti presentato sul Kosovo in autunno escludeva esplicitamente l’eventualità che la regione potesse tornare sotto sovranità serba, il governo di Belgrado al contrario nelle sue controproposte sottolineava la validità della “Risoluzione 1244” delle Nazioni Unite in cui si affermava l’appartenenza del Kosovo alla Jugoslavia ( ora Serbia ) ed il rispetto da parte di tutti gli Stati membri dell’Organizzazione dell’integrità territoriale del Paese. L’ultimo progetto avanzato dai dirigenti politici serbi è stato presentato lo scorso novembre e proponeva per la regione
un statuto di autonomia modellato su quello garantito ad Hong Kong. Respinto dai negoziatori kosovari vista la diversità tra le due situazioni, il piano prevedeva che le frontiere internazionali non sarebbero state modificate e nessuna delle due parti avrebbe potuto procedere unilateralmente a modifiche della Costituzione o dello status regionale.
Dopo la proclamazione dell’indipendenza da parte del Parlamento kosovaro lo scorso 17 febbraio, lo scenario però è radicalmente cambiato e gran parte delle soluzioni precedentemente avanzate appaiono difficilmente proponibili[iii]. Anche se il governo e la Corte Suprema di Belgrado hanno dichiarato nulla ed illegale l’indipendenza kosovara, sostenuti in questo da Mosca per la quale la secessione rappresenta una violazione del diritto internazionale, Pristina ha comunque già ottenuto il riconoscimento della maggioranza dei Paesi europei e degli Stati Uniti. Tuttavia, appare difficile che il nuovo Stato possa essere ammesso alle Nazioni Unite viste le reazioni negative da parte di Russia e Cina Popolare. Se infatti fin dall’inizio Washington ha appoggiato il governo kosovaro, una posizione questa dettata anche dall’intenzione da parte dell’Amministrazione Bush di ringraziare l’Albania per il sostegno offerto all’intervento in Iraq e di avvicinarsi ad una popolazione musulmana dopo le tensioni avute con il mondo islamico in questi ultimi,  Mosca e Pechino al contrario hanno accolto negativamente l’indipendenza del Kosovo. Storica alleata di Belgrado, la Russia ha sempre affermato che qualsiasi soluzione doveva ricevere l’approvazione di entrambe le parti ricordando come il Kosovo potrebbe servire da precedente per altri movimenti separatisti attivi in Europa o per le rivendicazioni indipendentiste dell’Abkhasia e dell’Ossezia meridionale, un concetto questo ribadito anche dalla Cina Popolare, la quale auspica il raggiungimento di un accordo sulla base di quanto contenuto nella “Risoluzione 1244” ritenendo che la secessione di Pristina introduca un elemento d’instabilità nella regione balcanica[iv]. Non va poi dimenticato poi come Pechino pensa che l’indipendenza kosovara possa rappresentare un punto di riferimento qualora analoghe aspirazioni autonomiste emergessero nel Tibet, nel Sinkiang e soprattutto a Taiwan. L’Unione Europea invece, alla luce delle divisioni emerse al suo interno, non ha espresso una posizione comune lasciando ai singoli membri la decisione se procedere o meno al riconoscimento. Così se da un lato Italia, Regno Unito, Francia e Germania hanno riconosciuto il nuovo Stato, dall’altro Spagna, Slovacchia, Romania e Cipro si sono detti contrari all’indipendenza di Pristina, mentre la Grecia auspica invece una soluzione condivisa e la Bulgaria si attende dal nuovo governo kosovaro l’applicazione di quanto contenuto nel piano Ahtisaari e delle garanzie per la propria minoranza presente nella regione.
Ma il timore della comunità internazionale è che davanti ad un Kosovo indipendente i quattro comuni a maggioranza serba a nord dell’Ibar – Mitrovica Nord, Zvecan, Zubin Potok e Leposavica – potrebbero distaccarsi per ricongiungersi con Belgrado finendo così per riaprire anche le richieste di procedere a modifiche territoriali e confinarie nei Paesi vicini, mentre altri non escludono poi che Belgrado possa rimettere in discussione anche l’assetto politico ed istituzionale della Bosnia – Erzegovina. Alcuni mesi fa, la proposta del Rappresentante Internazionale Miroslav Lajcak di abbassare il quorum che consente ai diversi gruppi nazionali di esercitare il diritto di veto, avanzata nell’intenzione di rafforzare il governo ed il Parlamento bosniaco, aveva sollevato in Serbia la dura protesta non solo degli esponenti radicali e socialisti ma anche dello stesso Kostunica, che si era spinto ad affermare come l’attività della diplomazia internazionale stesse mettendo in pericolo gli interessi essenziali del popolo serbo[v]. E poco dopo l’indipendenza del Kosovo, il Parlamento della “Republika Srpska”  ha dichiarato come sia possibile la convocazione di un referendum per la secessione dell’entità serbo – bosniaca, una consultazione che lo stesso Lajcak ha già dichiarato illegale ma che, nel caso venisse indetta ed approvata, porterebbe di fatto alla dissoluzione della Bosnia – Erzegovina.

La secessione del Kosovo dalla Serbia, proclamata solennemente dall’assemblea parlamentare di Pristina il 17 febbraio 2008, pone all’osservatore di politica internazionale tre ordini di problemi. Il primo dilemma è giuridico, il secondo è storico e la terza questione è politico-strategica. Considerata la complessa partita diplomatica giocata tra il Palazzo di Vetro e le vallate dei Balcani meridionali in questi nove anni, conviene precisare da principio i termini del confronto legale in atto in queste ore, riservandoci di approfondire in un secondo tempo l’analisi sul piano storico e politico della querelle.
Al contrario di quanti hanno superficialmente liquidato la decisione kosovara come lecita perché appoggiata dalla maggioranza degli Stati occidentali, è opportuno chiarire che, sul piano giuridico internazionale, la dichiarazione di indipendenza è considerata un atto rilevante a livello meramente storico, una situazione di fatto che, di per sé, non è contraria e non è conforme al diritto internazionale.
I riferimenti all’autodeterminazione del popolo kosovaro, da più parti impropriamente avanzati, non hanno alcun peso nella fattispecie. Infatti, il principio di autodeterminazione dei popoli, come sancito dall’art. 1, par. 2, e dagli artt. 55 e 56 della Carta ONU, dai due Patti ONU del 1966, dalla Dichiarazione dell’Assemblea Generale (AG) sull’indipendenza dei popoli coloniali del 1960, da quella sulle relazioni amichevoli tra gli Stati del 1970, dai pareri resi dalla Corte Internazionale di Giustizia nel caso della Namibia (1971) e del Sahara Occidentale (1975) e dalla sua sentenza nel caso di Timor Orientale (1995), nonché infine dall’unanimità della dottrina, si configura come autodeterminazione esterna, e non interna.
Ha diritto a determinare liberamente il proprio status internazionale quel popolo assoggettato a dominazione coloniale o razzista o il cui territorio è conquistato e occupato con la forza; non già, quindi, quello che ambisce all’instaurazione di un regime interno di tipo democratico. Va da sé che questo tipo di pretesa, sebbene, come si è visto, non fondata in termini giuridici, avrebbe trovato giustificazione quantomeno politica ai tempi del regime di Slobodan Milosevic e della Repubblica Federale di Jugoslavia (RFJ).
Allo stato attuale dell’assetto istituzionale interno alla Serbia e successivo al distacco del Montenegro, della situazione politica interna ed internazionale ad essa connessa in virtù degli sviluppi derivanti dall’intervento aereo della NATO del 1999, della conseguente risoluzione 1244 (1999) del Consiglio di Sicurezza (CdS), della concessione statutaria di una larga autonomia preservata dalla presenza di una missione militare NATO (Kfor) e dell’amministrazione provvisoria del territorio kosovaro da parte delle Nazioni Unite (Unmik), il tema della democrazia come clausola argomentativa utile al perseguimento dell’obiettivo della sovranità e dell’indipendenza non è sostenibile neanche politicamente.
C’è da aggiungere che il principio di autodeterminazione è irretroattivo, non operando così verso quelle situazioni consolidatesi prima della sua formazione, quest’ultima relazionabile al secondo dopoguerra. E’ evidente, perciò, come il Kosovo sotto sovranità serba non rientri in alcuna modo nel’ambito di applicazione integrale di tale regola. Tuttavia, l’autodeterminazione trova nel principio di integrità territoriale degli Stati un’importante eccezione, sancita al par. 7 della citata Dichiarazione dell’Assemblea Generale del 1960. In virtù di tale norma, l’autodeterminazione va coordinata con i legami storico-geografici del territorio rispetto a quelli dello Stato dominante. Interpretato in tal modo, il principio di integrità territoriale costituisce un potente freno giuridico alle pretese secessionistiche di un popolo. La Carta di Parigi del 1990, elaborata in ambito OSCE e significativa di una certa tendenza del diritto internazionale odierno a considerare con crescente sensibilità la tematica dell’autodeterminazione interna, si pronuncia anch’essa in tal modo. Anche sul piano della giurisprudenza interna le cose non cambiano. La Corte Suprema russa, nei casi del Tatarstan e della Cecenia, ha interpretato i due principi come appena esposto per negare la possibilità di una secessione unilaterale dalla Federazione. Anche la Corte Suprema canadese, nel caso del Québec, ha negato che una provincia o una regione, anche quando etnicamente differenziata dal resto dello Stato, abbia il diritto a secedere al di fuori delle tre ipotesi tipiche del principio di autodeterminazione dei popoli.
Pur in assenza di un diritto a secedere, però, un popolo, se ne ha la forza politica o militare, può di fatto staccarsi da uno Stato. In altre parole, il diritto internazionale non prevede il diritto a secedere, ma non per questo non riconosce, sulla base del principio di effettività, il distacco e la conseguente nascita di un nuovo Stato, purché sovrano ed indipendente. Ai fini della soggettività di diritto internazionale, pertanto, risulterà sufficiente che un governo risulti capace in fatto di esercitare in via esclusiva il potere di imperio sulla comunità territoriale distaccatasi, nell’ambito di un ordinamento giuridico non derivato, cioè non dipendente da altri Stati (in tal senso è inteso il requisito dell’indipendenza).
Quanto fin qui chiarito vale purché non vi sia aiuto da parte di Stati terzi, i quali hanno l’obbligo di rispettare l’integrità territoriale dello Stato che subisce la secessione. Come ha rilevato il professor Antonio Cassese, «se si dimostra che questo è il risultato di un’azione autonoma dei kosovari, allora non vi è nessuna violazione del diritto internazionale». Ovviamente, la dimostrazione del carattere autonomo dell’azione kosovara è largamente opinabile in ambo i sensi e, essenzialmente, oggetto dell’attuale stallo diplomatico in seno al Consiglio di Sicurezza.
Sulla base di tali elementi possono quindi respingersi i timori di taluni sulla portata della statualità del Kosovo proclamatosi indipendente. In tal senso la pratica del riconoscimento del nascente Stato da parte degli Stati preesistenti a cui si assiste in questi giorni non ha valenza costitutiva della personalità internazionale dello Stato da riconoscersi. In dottrina si afferma che il riconoscimento di Stati è un atto politico, pertanto discrezionale, e non giuridico. Gli Stati preesistenti sono liberi di riconoscere uno Stato sovrano ed indipendente, così come di non riconoscerlo, essendo la decisione legata a considerazioni di carattere diplomatico. Il riconoscimento, quindi, non ha altro significato che una presa d’atto, sul piano storico, dell’esistenza di uno Stato che sia tale giuridicamente – cioè: sovrano ed indipendente – secondo la valutazione posta in essere dallo Stato riconoscente. E la sua utilità è circoscritta all’instaurazione di normali relazioni diplomatiche tra i due Stati e, più in generale, delle varie forme di cui si sostanzia la vita di relazione internazionale. Non è un caso che le conclusioni del documento comune approvato dal Consiglio dei ministri degli Esteri dell’UE del 18 febbraio 2008 lascino facoltà ai singoli Stati membri di decidere liberamente in merito al riconoscimento dello Stato kosovaro «in linea con le pratiche nazionali e le norme giuridiche». Assunto quindi che la secessione kosovara, considerata di per sé, assume una valenza giuridica a livello internazionale al di fuori e a prescindere dall’ambito di applicazione del principio di autodeterminazione dei popoli, bensì in virtù della mera situazione di fatto venutasi a creare, è utile infine approfondire le diverse interpretazioni giuridiche fornite dalle parti coinvolte nella crisi al testo-chiave per una valutazione di legittimità della secessione di Pristina dalla Serbia, cioè la risoluzione 1244 (1999) del CdS.
La risoluzione 1244 ordinava al governo della RFJ, al termine dell’intervento aereo della NATO di quell’anno, di ritirare tutte le forze armate federali dal territorio del Kosovo e di permettervi l’avvio di un’amministrazione provvisoria da parte dell’ONU. La risoluzione rinviava indefinitamente la soluzione politica della crisi in tal maniera. L’argomentazione fornita dalla maggior parte degli Stati membri dell’Unione Europea e dagli Stati Uniti al riguardo è che, poiché la risoluzione disponeva l’invio di una missione «civile e militare internazionale che facilitasse un processo politico volto a determinare il futuro status internazionale del Kosovo» e poiché tali principi furono concordati, prima dell’adozione della risoluzione in esame, da una riunione dei ministri degli Esteri degli Stati membri del G8, implicitamente questa clausola giustificherebbe giuridicamente l’esito finale – l’indipendenza di Pristina – di tale processo politico. In pratica, gli Stati occidentali asseriscono che l’indipendenza è il risultato di un percorso politico caratterizzante lo spirito della risoluzione 1244. Nello stesso senso si pronuncia il documento adottato dall’UE per legittimare la missione Eulex, approntata in ambito PESD. La posizione della Serbia, della Federazione Russa, della Cina e di una minoranza degli Stati membri dell’UE (Grecia, Spagna, Cipro, Slovacchia e Romania) che tuttavia, astenendosi in sede di votazione, non si sono opposti all’approntamento della missione Eulex da parte dell’UE, consiste in un rifiuto categorico di una siffatta impostazione. Questi Stati affermano che non esiste alcuna risoluzione del CdS che autorizzi la secessione del Kosovo. Il riferimento argomentativo è dato dal paragrafo 10 della risoluzione 1244 che prevede espressamente, e con efficacia indiscutibilmente vincolante per le parti coinvolte, la concessione al Kosovo di «una sostanziale autonomia» all’interno dell’allora RFJ. Poiché tale disposizione è l’unica tra quelle della risoluzione 1244 a statuire in merito allo status della regione kosovara, ne discende che l’ipotesi dell’indipendenza è apertamente esclusa dal testo. Inoltre, con riferimento alla missione Eulex, i governi di Belgrado e Mosca rilevano come la risoluzione 1244 autorizzi missioni di organizzazioni internazionali nel territorio del Kosovo purché «sotto gli auspici dell’ONU», elemento di cui sarebbe quindi sprovvista la missione UE.
La posizione avanzata dagli Stati occidentali appare molto debole. La prova è data dal fatto che il documento comune dell’UE adottato in ambito PESD e relativo alla missione Eulex, dopo aver giustificato l’esito finale del processo politico richiamato nella risoluzione 1244, tuttavia si affretta a riconoscere che i riferimenti del Preambolo al Kosovo come parte integrante del territorio della RFJ e al rispetto del principio di integrità territoriale della RFJ non siano vincolanti. Notoriamente, le clausole preambolari delle risoluzioni del CdS non sono infatti vincolanti, al contrario del testo dispositivo, anche nei casi in cui queste siano adottate ex Capitolo VII della Carta Onu. Ma risulta quantomeno paradossale e in ultima istanza da respingere nella posizione degli Stati occidentali l’argomentazione secondo la quale ciò che è espressamente affermato nella parte dispositiva della risoluzione – l’integrità territoriale della RFJ e lo status di mera autonomia del Kosovo – non debba considerarsi vincolante, mentre ciò che fu concordato in un foro politico multilaterale privo di poteri vincolanti ed estraneo al CdS, quale è il G8, e che non risulta inequivocabilmente sancito nella risoluzione – ovverosia che l’esito finale del processo politico potesse prevedere l’indipendenza del Kosovo – risulti invece vincolante, seppur implicitamente.
Alla luce di questa analisi non può ammettersi la legittimità giuridica del processo di secessione del Kosovo, ferma restando, in virtù del principio di effettività sul piano meramente storico e di un progressivo e connesso consolidamento delle istituzioni del nascente Stato da ipotizzarsi nel tempo, la piena configurabilità quale soggetto di diritto internazionale dello Stato kosovaro, in quanto sovrano ed indipendente.





La regione dei Balcani è stata più volte, nel corso della storia, teatro di violenti e sanguinosi scontri etnici. Essendo una regione particolare, in essa si scontrano storicità, identità etnica, identità religiosa, geopolitica, nazionalismo, interesse economico ed interesse politico. Inizialmente si cadde in un dilemma di carattere cronologico, in quanto è difficile scegliere il tempo dal quale iniziare ad analizzare i fatti che portarono all’interessamento internazionale verso il Kosovo. Essendo una regione (in una più ampia visione i Balcani) che separa l’ est dall’ ovest, (l’Impero Ottomano dall’ Impero Asburgico) è stata la carta in mano per soddisfare interessi geopolitici delle grandi potenze. Avanzando nel tempo la regione si trovò fra i due campi opposti della Guerra Fredda con lo status di non-allineata (Jugoslavia) e la fine di essa portò ad una corsa delle nuove potenze per farla entrare nella propria sfera d’influenza. La situazione si complica anche a causa della diversità etnica[1] all’interno della regione, la quale è difficilmente determinata poiché le continue assimilazioni nella regione hanno garantito volontariamente o involontariamente una differenziazione rispetto alle culture originarie ossia quelle albanesi, serbe, rom e altre minoranze. Le aspirazioni territoriali di diversi paesi sulla regione hanno continuamente nutrito il ben noto “scontro delle civiltà” descritto da Huntington.
Nella prospettiva economica la regione è stata una delle più povere nel corso della storia (anche se ricchissima in risorse naturali). Il sottosviluppo e la mancanza di iniziative economiche hanno dato alla regione uno status uguale a quello di una colonia sfruttata dalle “Grandi Potenze” (prima l’Impero Bizantino, poi l’Impero Ottomano e infine lo stato serbo) che nel corso della storia hanno reperito materia prima e forza lavorativa a basso costo. Nel campo religioso la regione del Kosovo è casa di musulmani, cattolici ortodossi, altre minoranze religiose e atei. Alcune religioni sono state imposte, altre tramandate, ma comunque usate ampiamente per dividere e inasprire le convergenze tra gli abitanti della regione. Certo le popolazioni di essa non hanno ugualmente colpa nei continui conflitti all’interno della regione. L’ origine storica[2], le differenze culturali, la nascita del nazionalismo serbo prima della formazione di uno stato albanese, il consenso degli albanesi nel vivere all’interno dell’Impero Ottomano e l’organizzazione politica bilaterale sono alla base delle acquisizioni territoriali senza un criterio etnico. Dall’ altra parte anche le concessioni delle Grandi Potenze del XIX e del XX secolo hanno consentito a portare alla situazione del 1999. Il Congresso di Vienna[3], il Trattato di Santo Stefano[4], il Congresso di Berlino[5] e la Conferenza di Londra[6] hanno totalmente taciuto in merito al problema etnico. Ci volle l’interesse del presidente Wilson e della Società delle Nazioni per far sentire la voce delle minoranze etniche nei Balcani, ma i confini erano stati decisi da molto prima. Questi sono fatti storici attraverso i quali si può spiegare la continuità della questione albanese nei Balcani inglobando all’interno di essa la questione del Kosovo. L’ importanza che riveste la conoscenza della reazione internazionale in merito alle richieste delle nuove formazioni politiche nei Balcani fa’ capire l’ingiustizia storica[7] che ha accompagnato tale processo. Purtroppo la meglio la ha avuta lo stato serbo che assurdamente si riferiva alla sua “nacertanije” ossia il progetto per il ritorno nei confini della grande Serbia del 1331. La formazione degli stati nell’ 800 è un primo momento con il quale si può iniziare a studiare l’interessamento della comunità internazionale verso la regione del Kosovo, ma si può parlare di interessamento verso la regione o di soddisfacimento di interessi? I confini internazionali nella regione si sono definiti (o meglio riconosciuti universalmente) dopo la I Guerra Mondiale e sono rimasti uguali fino alla fine della Guerra Fredda. Neanche la fine della II Guerra Mondiale ha portato al cambiamento dei confini, in quanto non fu riconosciuto nessun cambiamento avvenuto con la forza. In aggiunta al rifiuto internazionale, la situazione politica interna ossia le relazioni fra l’Albania comunista e la Jugoslavia federalista erano “ottime” e il Kosovo non era un punto di corrosione delle relazioni fra i due stati confinanti.
Solo nell’ultimo decennio del XX secolo con i cambiamenti riportati nell’ intero sistema internazionale il Kosovo spuntò di nuovo come un problema irrisolto. Manifestazioni, proteste, scontri armati (isolati in un primo tempo), scioperi da parte degli albanesi sono state soppresse attraverso l’uso della forza, discriminazioni, licenziamenti dallo stato serbo. Il tutto oscurato quasi totalmente agli occhi della comunità internazionale. Con la guerra in Bosnia – Erzegovina il Kosovo sprofondò ancora di più nell΄oscurità e nel disinteressamento internazionale. Durante quell periodo del conflitto serbo-bosniaco, si svolse nel Kosovo, dal 26 al 30 settembre 1991, un referendum popolare clandestino per decidere del proprio futuro: l’87.5 % della popolazione albanese espresse la volontà di costituire uno Stato sovrano indipendente. Il 24 maggio 1992, utilizzando case private come seggi elettorali, si svolsero anche le prime elezioni libere e pluripartitiche parallele, non riconosciute dalle autorità serbe, per l’elezione della nuova assemblea e del nuovo governo del Kosovo. La vittoria fu del LDK (Lega democratica del Kosovo) ed il suo leader, Ibrahim Rugova, divenne il Presidente della “Repubblica del Kosova” con il 99% dei voti. La politica di Rugova e del LDK negli anni successivi si incentrò su tre linee direttrici principali: la resistenza non violenta, l’internazionalizzazione del problema Kosovo e, soprattutto, la creazione di un apparato statale parallelo della “Repubblica del Kosova” in opposizione all’autorità serba. Si cercava, in altre parole, di ricevere dalla comunità internazionale il riconoscimento dell’indipendenza attraverso la finzione dell’esistenza di uno Stato del Kosovo. Il regime di Belgrado reagì a questa provocazione militarizzando completamente la regione. Le violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali, a cui la popolazione albanese fu sottoposta in questo periodo, portarono alla messa in discussione della linea politica non violenta di Rugova.
Intanto, il 19 maggio 1996 si segnalò la comparsa nelle principali città dei primi manifesti dell’Uçk, l’Esercito di Liberazione del Kosovo. Nelle elezioni clandestine, tenutesi il 22 marzo 1998, Rugova fu comunque rieletto Presidente della “Repubblica del Kosova”, anche se la popolazione, non essendo più convinta della sua linea politica, iniziò a sostenere sempre di più le azioni terroristiche dell’Uçk volte a colpire le istituzioni serbe. Sono stati gli eventi del 1998 ad attirare l’attenzione della comunità internazionale. La crisi umanitaria e la situazione “quasi” bellicosa nel Kosovo ha portato potenze, organizzazioni e lobby ad un particolare interessamento verso la regione considerata da tempo come “polveriera” d’Europa. Gli attori principali sono stati i paesi del Gruppo del Contatto, particolarmente distinti gli USA e la Russia, l’ONU, l’UE, la NATO e ovviamente l’ Albania, la Macedonia e il Montenegro.
Questo è il secondo momento nel quale la comunità internazionale ha iniziato ad interessarsi (seriamente) della questione del Kosovo fino alla liberazione dalla Serbia e sarà questo momento l’ oggetto di analisi di questa tesi. Ovviamente sarà trattato anche il momento precedente in quanto garantisce la continuità storica del problema. Saranno trattate sia le azioni politiche intraprese nel campo internazionale sia l’influenza politica all’interno degli stati e delle organizzazioni internazionali provocate dalla crisi del Kosovo. Una particolare attenzione sarà rivolta all’intervento della NATO e alle novità riportate da esso. Certamente sarà inclusa l’influenza del campo politico interno, ossia l’influenza dell’Albania e della politica jugoslava, delle forze politiche nel Kosovo e la loro collaborazione con il resto degli attori che hanno portato alla soluzione dell’ultimo conflitto armato in Europa.
Nel 1998 un’escalation di violenza tra le milizie militari e paramilitari serbe e i guerriglieri albanesi dell’Uçk segnò il quasi definitivo precipitare della situazione in Kosovo. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, nella Risoluzione n. 1160 del 1998, decise di decretare l’embargo sulla fornitura di armi a tutta la regione.
Altre due risoluzioni, approvate dal Consiglio di Sicurezza, il 23 settembre e il 24 ottobre 1998, nonostante avessero qualificato la situazione in Kosovo come una minaccia alla sicurezza e alla pace nella regione, non si spinsero oltre alla formale condanna della violenza e all’invito al cessate il fuoco in vista di un negoziato internazionale.
Le trattative di Rambouillet e di Parigi[8], svoltesi dal 6 febbraio al 19 marzo del 1999, non portarono comunque a nessuna soluzione pacifica del conflitto tra serbi ed albanesi. Così, la sera del 24 marzo 1999, la NATO decise unilateralmente di intraprendere, con una serie di bombardamenti aerei contro obiettivi posti in tutto il territorio della Repubblica Federativo di Jugoslavia, l’operazione “Determined Force ”, che sarebbe durata 78 giorni. La risoluzione 1244[9], adottata il 10 giugno 1999, dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite avrebbe definito il piano di pace nonché decretato la missione di peace-keeping dell’UNMIK in Kosovo.
Le motivazioni avanzate dall’Alleanza Nord-Atlantica per giustificare l’intervento militare unilaterale del 1999 contro la Repubblica Federativo di Jugoslavia, se da un lato contenevano un generico riferimento agli obiettivi delle risoluzioni n. 1160, 1199, 1203 adottate nel corso del 1998 dal Consiglio di Sicurezza; dall’altro, invece, si rifacevano alla teoria dell’intervento d’umanità “to prevent further humanitarian catastrophe”. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, d’altronde, non era stato in grado di autorizzare i raid aerei della NATO a causa della ferma opposizione della Federazione Russa e della Cina.
La crisi del Kosovo ha quindi riaperto in dottrina il problema relativo alla liceità dell’intervento unilaterale umanitario. Alcuni eminenti studiosi di diritto internazionale hanno deciso, infatti, di affrontare il problema relativo alla legittimità in base al diritto internazionale del ricorso unilaterale all’uso della forza armata per porre rimedio a gravi violazioni dei diritti umani. Non bisogna dimenticare, d’altronde, che il divieto di ricorrere all’uso della forza armata da parte degli Stati, in seguito all’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite, è divenuta una norma di ius cogens[10]. Le uniche eccezioni a tale divieto sono costituite dalla legittima difesa nonché dalle misure coercitive autorizzate dal Consiglio di Sicurezza in base al sistema di sicurezza collettivo predisposto dal cap. VII della Carta delle Nazioni Unite.
Tuttavia, l’adozione da parte dell’Alleanza Nord-Atlantica della nuova dottrina strategica del 1999 sembra aver ampliato, in linea di principio, le possibilità di ricorso legittimo all’uso della forza da parte degli Stati membri della NATO in caso di inerzia del Consiglio di Sicurezza: in questa prospettiva, quindi, le Nazioni Unite non costituirebbero più l’unica organizzazione legittimata ad intervenire in caso di conflitti che mettano in pericolo la sicurezza dell’area euro-atlantica.
L’intervento militare della NATO in Kosovo, anche se ha preceduto l’adozione formale della nuova dottrina strategica, infatti, sembra essere stato concepito, almeno da alcuni Stati membri dell’Alleanza, proprio come un’attuazione anticipata di tale strumento.
Lo sviluppo economico del Kosovo e la sua integrazione nell’economica globale, sono fondamentali per garantire la stabilità. La sua situazione prima dell’indipendenza è stato molto più problematico rispetto alla situazione post-indipendenza, poiché pre-indipendenza del Kosovo è stato completamente isolato, in gran parte in grado di richiedere l’assistenza da parte delle istituzioni finanziarie internazionali, e ha offerto  una clima veramente incerto investimento per le imprese straniere. Subito dopo del proclamazione di indipendenza del Kosovo tanti paesi hanno riconosciuto e stanno dando sostegno, in previsione della necessità di assistere la transizione del Kosovo come stato indipendente. Il Kosovo è diventato in poco tempo un importante fattore di pace, stabilità e cooperazione per la regione, dove le tensioni interetniche sono ormai a livelli minimi. La repubblica del Kosovo è diventata membro a pieno titolo di due importanti istituzioni economiche mondiali, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale.


[1] Vedere fig.15, fig.16, fig.17
[2] Vedere fig.1
[3]http:/www.seerecon.org/Kosovo/KosovoInformation.htm
[4]Enrico Bartok, Kosovo:Le ragioni di una tragedia, Milano, Nuove Edizioni Swan, 1999, p. 19.
[5]Jože Pirjevec, Serbi, Croati, Sloveni. Storia di tre nazioni, Bologna, Mulino, 2002, pp. 16 – 17.
[6] Malcolm Noel, Storia del Kosovo: dalle origini ai giorni nostri, Milano, Paperback, 1999, p. 23.
[7] I confini degli stati balcanici sono stati determinati nel corso del ‘800 alla influenza degli trattati segreti e dalle convenzioni fra le grandi potenze del epoca. 
[8]
[9]











Nessun commento:

Posta un commento