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domenica 6 marzo 2016

Albania. Nota di Studio

II Parte
C.V.  Astrit ALIAJ


1.3       I Balcani durante l’impero ottomano
L'Impero impose ai territori già serbi conquistati nuove regole in campo fiscale, amministrativo e giuridico, riuniti nel sistema feudale ottomano. I cristiani e gli ebrei, sudditi di second'ordine ma pur sempre “popoli del Libro”, mantennero senz'altro uno status subalterno e soggetto a discriminazione[1], ma non subirono persecuzioni, salvo che in alcune fasi di crisi. Anzi, in base al sistema del Millet, formalmente essi erano “infedeli protetti”, e dunque autorizzati a conservare e praticare la loro religione e a godere di una certa autonomia in materia di diritto privato, purché tutto avvenisse con una certa discrezione. Sembra insomma che “l'instaurazione del regime ottomano in Europa orientale abbia comportato, più che l'islamizzazione di questa parte del continente, una coesistenza plurisecolare tra islam e cristianesimo ortodosso”[2]19. Caratteristica saliente dello Stato ottomano era la sua vocazione all'espansione territoriale; strumento essenziale del suo agire era dunque la guerra. Ai sudditi si poteva garantire anche un certo grado di tolleranza religiosa e culturale a patto che non venissero meno i due elementi essenziali per la politica imperiale: i soldati, musulmani, ed il denaro per pagarli, drenato mediante un regime fiscale discriminatorio dai non musulmani. Può risultare interessante, a conferma della vocazione della Penisola balcanica ad ospitare comunità di origini anche molto eterogenee, rilevare come proprio lì si stanziarono numerosi ebrei sefarditi cacciati dalla Spagna alla fine del XV secolo, evidentemente accolti dalle autorità ottomane e dalle popolazioni locali senza l'ostilità che avevano conosciuto nel resto d'Europa. La società serba conobbe comunque una radicale trasformazione sin dai primi anni del dominio turco. Anzitutto si estinse la classe aristocratica che aveva guidato e comandato il resto della popolazione, dal momento che tutti i suoi membri che non furono uccisi, o furono assimilati nel nuovo sistema di potere o fuggirono disperdendosi. Ma se in questo modo veniva meno uno dei pilastri della vita sociale serba forgiata da sveti (“santo”) Sava, rimaneva immutato, se non accresciuto, il potere del secondo, la Chiesa ortodossa, per necessità e spregiudicatezza da allora in avanti difensore e a tratti forgiatrice dell'autentica identità serba. Fu così che si modellò la configurazione sociale che avrebbe accompagnato la vita dei Balcani meridionali fino al XIX secolo, con la popolazione slava autoctona maggioritaria ma disseminata per le campagne ed emarginata dalla vita istituzionale, e una classe dirigente ottomana che, dalle città fortificate, amministrava le terre del sultano. Nel primo secolo di dominazione ottomana la vita urbana kosovara subì un notevole impulso. Le città, sede del potere civile, conobbero un importante aumento della popolazione e le corporazioni di mestiere che sorsero al loro interno ne regolarono ampi settori della vita economica e politica. Soprattutto in ambito cittadino, a partire dal XVI secolo prese piede un diffuso processo di islamizzazione di cristiani autoctoni. Non si trattò, nella maggioranza dei casi, di scelte coatte, imposte dai dominatori. Fu semmai un processo intrapreso da quei sudditi che dall'abbracciare la fede in Allah avevano molto da guadagnare. Tra loro anzitutto si segnalavano gli schiavi, in genere prigionieri di guerra, che mediante la conversione potevano venire parzialmente emancipati. Per tutti gli altri il vantaggio immediato conseguente al cambio di fede consisteva in una riduzione del carico fiscale e comunque nell'ascesa al rango di askeri, ossia membri della classe militare e amministrativa. A seconda dei casi queste scelte furono dovute a un desiderio di promozione sociale, all'ambizione di entrare a far parte dello strato dominante; all'intento di ottenere un alleggerimento fiscale (senza contare che i nuovi convertiti ricevevano ritualmente dei regali dalle autorità); ma anche – perché no? – ad autentica convinzione religiosa. [...] Per motivi controversi e non del tutto chiariti – ma in ogni caso non attinenti a forme di coscrizione dei conquistatori – alcune zone hanno fatto registrare spostamenti assai più consistenti [della media]. In Albania l'islamizzazione concerne il territorio nel suo complesso [...] sino a rendere il paese prevalentemente musulmano, ma solo dopo molti secoli di dominazione ottomana20.
Con la riduzione alla marginalità del credo cristiano, viene meno ciò che aveva rappresentato, in assenza di qualsiasi struttura istituzionale, il principale elemento di coesione dell'identità albanese nei secoli precedenti; declina con esso anche la “vocazione” a mantenere una difficile (e spesso dovuta all'opportunismo della classe nobile) posizione d'equilibrio tra l'occidente cattolico e la complessa realtà bizantina. La Chiesa ortodossa serba, che aveva conosciuto la morte del suo ultimo patriarca Artemije nel 1463, si era ritrovata sotto l'autorità dell'arcivescovo di Ohrid, nonostante l'opposizione dei vescovi del nord della Serbia, guidati dal vescovo Pavle, artefice della
cosidetta “ribellione della Chiesa serba”. Nel 1459 il sultano aveva soppresso l'autocefalia della Chiesa serba, nell'intento, esplicitamente antipapista, di rafforzare l'egemonia del patriarca di Costantinopoli su tutti i popoli slavi, allontanandoli così da ogni lusinga proveniente dai paesi cattolici. Solo nel 1557 il gran visir d'origine serbo-erzegovese Mehmed Sokolović intervenne presso il sultano affinché il patriarcato a Pejë/Peć fosse ripristinato, e ne affidò il vertice a suo fratello Makarije; questo fatto, che può risultare piuttosto sorprendente, si spiega in realtà con l'interesse dello Stato ottomano [ad] instaurare migliori relazioni con i suoi sudditi ortodossi, ora che le principali potenze nemiche schierate contro l'impero erano tutte cattoliche romane. Un patriarca dipendente dalla benevolenza ottomana sarebbe stato un utile strumento di controllo21. Il patriarca Makarije riorganizzò in maniera profonda la Chiesa ortodossa, esaltandone la gratitudine nei confronti della dinastia Nemanjić le cui gesta furono affiancate agli episodi biblici più frequenti sui muri delle chiese serbe, tra le quali le più antiche furono ristrutturate ed ampliate. Man mano che il dominio ottomano si faceva più duro, l'epoca di quegli antichi re “veniva sempre più ricordata come l'età dell'oro. L'aspra realtà del feudalesimo veniva dimenticata e le glorie dell'impero di Dušan consacrate, come la memoria di Lazar e dei suoi nobili cavalieri”22. Nonostante le inevitabili difficoltà affrontate per secoli, la Chiesa ortodossa avrebbe mantenuto in vita l'idea di “serbità” sotto i turchi; in virtù di questa operazione la grande maggioranza dei serbi, a differenza di molti popoli confinanti privi di una forte chiesa nazionale, come bosniaci e albanesi, mantennero il loro credo ortodosso fondamentale alla loro identità. D'altro canto, l'episodio della nomina di Makarije illustra pure con chiarezza come l’istituto ottomano del devişirme – ovvero il reclutamento coatto di bambini cristiani provenienti dai domini periferici al fine di portarli nella capitale dove avrebbero ricevuto un'istruzione islamica di alto livello, premessa al loro accesso alla carriera militare (nel corpo dei giannizzeri e nella guardia del corpo del sultano) o civile23, come nel caso in questione – costituisse senz'altro una crudeltà nei confronti dei genitori che si vedevano spogliati di un figlio, ma allo stesso tempo rappresentasse, all’interno della rigida struttura sociale dell'Impero, uno dei pochi canali di mobilità verticale; inoltre non sradicava completamente i futuri alti funzionari dal loro contesto familiare e geografico d'origine e non era del tutto impermeabile a criteri meritocratici. Infine l’episodio “ci mostra come nello stato ottomano la supremazia dell'Islam, oltre che tollerare un gerarchizzato pluralismo confessionale, implicasse pure l'assoluta irrilevanza di qualsiasi distinzione su base etnica fra sudditi verocredenti”24. Da un punto di vista demografico, il primo periodo di dominazione turca in Kosovo è caratterizzato da un'evidente avanzata della presenza dell'elemento albanese. I motivi alla base di questa “comparsa”, piuttosto repentina se comparata al fatto che “gli albanesi hanno certamente avuto una presenza continua in questa regione. Ma ogni evidenza suggerisce che, nel Kosovo medievale, furono solo una minoranza”25, sono aspramente dibattuti in ambito storiografico. Da parte serba si sostiene prevalentemente che si trattò di un fenomeno di immigrazione di massa, mentre da parte albanese si ritiene che soltanto in questa epoca finì una forzata “invisibilità” dovuta alla slavizzazione dei dati anagrafici compiuta dalla Chiesa ortodossa, autorità competente alle registrazioni nello Stato serbo medievale,. L'apice dell'espansione ottomana si toccò nel 1571, quando, dopo la battaglia di Lepanto, i turchi presero possesso anche delle città montenegrine di Bar e Ulcinj sul litorale adriatico. Ma già nel 1585 il governo turco riduceva del 40% il contenuto d'argento delle monete coniate, mantenendone inalterato il valore nominale. Quando, quattro anni dopo, i giannizzeri ricevettero le retribuzioni con questa nuova moneta svalutata, scatenarono una rivolta. Si usa individuare in questo evento simbolico l'inizio del declino dell'Impero ottomano “dato che combina la quintessenza dell'incompetenza amministrativa, della ribellione violenta e, soprattutto, dell'insaziabile fame di denaro”26proprie dei protagonisti della sua vita politica. Ciò che ne conseguì in periferia fu l'allargamento, per tutto il corso del XVII secolo, degli ampi spazi di arbitrarietà dei governanti locali. A ciò si aggiunse la diffusione di pratiche come la vendita delle cariche pubbliche (in breve estesa anche agli uffici più prestigiosi dell'apparato statale turco e addirittura alle nomine di vertice della Chiesa ortodossa serba) e la vendita per appalto dell'esazione tributaria; un profondo cambiamento investì anche l'assetto della proprietà terriera e, come è facile intuire, nel nuovo sistema peggiorarono le condizioni di vita dei contadini. Infine il fatto che le guerrecondotte in questa fase dai sultani vedessero l'Impero opporsi alle potenze  cristiane, spiega perché i sudditi che conobbero le peggiori vessazioni fossero proprio quelli non aderenti alla religione di stato. In un contesto di tal specie non sorprende che le rivolte locali o regionali, parte delle quali in Kosovo, aumentassero significativamente. Ma il fatto che, nonostante gli appelli e le trattative segrete, nessuna di esse ottenesse l'appoggio di qualche potenza straniera (e cristiana) ne impedì qualsiasi ripercussione sulla tenuta dello Stato ottomano. L'evento che segnò un passaggio cruciale per tutta la regione balcanica fu il ritorno tra le fila delle potenze candidate al controllo dell'area dell'Austria asburgica - a più di un secolo di distanza dal primo tentativo di imporsi - con la guerra che vide contrapposto l'Impero turco a quello degli Asburgo tra il 1683 e il 1699. L'assedio ottomano di Vienna del 1683 fece per alcuni mesi temere che la potenza cattolica capitolasse, ma il contrattacco scatenato da una coalizione austro-polacca obbligò i turchi alla ritirata e l'inseguimento che ne scaturì la trasformò in una rotta disastrosa. Nel settembre 1688 gli austriaci prendevano possesso della fortezza di Belgrado, posizione strategica decisiva per il controllo dei territori posti a sud del Danubio e della Sava; quindi, interpretando in maniera piuttosto elastica le direttive di Vienna che ordinava ai propri generali una strategia difensiva per il consolidamento delle posizioni fin qui conquistate, le truppe austriache entrarono a Niš l'estate seguente27. Nel 1689 un esercito imperiale di dimensioni ridotte invase il Kosovo, cacciò i presidi turchi e ricevette l'accoglienza che si riserva ai liberatori da parte della popolazione locale. Una simile disfatta scatenò un vero e proprio terremoto politico a Istanbul che costò la vita al comandante sconfitto dell'esercito e l'incarico al gran visir che fu sostituito da Mehmed Köprülü, uomo di grandi capacità strategiche, discendente di una prestigiosa dinastia albanese di funzionari ottomani. Costui riuscì ad organizzare già nel 1690 una spedizione affidata in prevalenza a truppe tatare che mise in fuga gli austriaci dal Kosovo, dove i soldati del sultano si abbandonarono a feroci rappresaglie e a saccheggi su vasta scala. L'inseguimento delle truppe imperiali proseguì prima verso Niš e quindi fino a Belgrado; s'accompagnava ai soldati austriaci in ritirata un numero enorme di rifugiati serbi, in prevalenza provenienti dal Kosovo e dalla Serbia meridionale, guidati dal patriarca di Pejë/Peć Arsenije III. Questo terribile episodio è noto alla storia nazionale serba come Velika seoba (“Grande migrazione”); ad esso si fa risalire il momento culminante per la dinamica demografica del Kosovo: la fuoriuscita di centinaia di migliaia di serbi “rimpiazzati” da altrettanti albanesi provenienti dalle regioni confinanti. Ad accompagnare questa umanità disperata, timorosa di non poter mai più rivedere i propri luoghi natii, le spoglie di Sveti Lazar, trasportate dai monaci del monastero di Ravanica in una nuova località presso Srem dove fu fondato, nel 1697, il monastero di Sremska Ravanica. Belgrado resistette all'assedio turco solo dodici giorni. Quando, all'inizio dell'ottobre 1690, una granata lanciata dagli assedianti colpì la santabarbara principale della fortezza, l'intera cittadella fu rasa al suolo. I rifugiati serbi accampati attorno alla fortezza decisero allora di passare il Danubio e cercare scampo in Ungheria, dove affrontarono l'inverno in condizioni disperate. Le perdite umane sembrano essere state ingenti. “Una tradizione successiva e non priva di seguito doveva erroneamente affermare che i serbi furono invitati dall'imperatore a lasciare le loro terre, per ritirarsi in territorio asburgico, colla promessa del suo favore: in realtà essi emigrarono a nord proprio a causa della sua sconfitta”28. La pace di Karlowitz del 1699 avrebbe posto fine al conflitto. Sebbene l'accordo ratificasse il controllo turco dei Balcani, esso sanciva pure il passaggio dei domini ungheresi e transilvani da Istanbul all'Austria, e formalizzava il primo ridimensionamento dell'Impero ottomano, costretto ormai a sud del Danubio. “Le terribili rappresaglie compiute dalle forze ottomane e tatare facevano parte di una deliberata politica d'intimidazione”29 e durarono fino al settembre successivo, quando fu varata un'amnistia estesa anche a chi si era compromesso con gli Asburgo. L'anno seguente il sultano autorizzò la nomina di un nuovo patriarca di Pejë/Peć. Dal momento che Arsenije non rinunciò durante l'esilio al suo titolo, che anzi gli fu riconfermato dall'Imperatore Leopoldo I a garanzia della sua protezione, tra il 1691 e il 1706 la Chiesa serba ebbe due patriarchi. In seguito i successori di Arsenije mantennero il titolo di metropolitani, con sede a Sremski Karlovci nella Vojvodina sotto controllo asburgico, ma, benché garantiti dagli Asburgo nel mantenimento delle prerogative e dei diritti spirituali e temporali ottenuti in precedenza dagli ottomani, erano tuttavia impotenti tanto quanto il patriarca gradito ad
Istanbul di fronte all'ondata di islamizzazione, anche forzata, che caratterizzò il Kosovo nel ventennio successivo alla Velika seoba. Le ostilità con l'Austria erano destinate a riprendere ben presto: per gli imperatori asburgici i territori a sud del Danubio e nell'entroterra balcanico erano obiettivi strategici sempre più irrinunciabili man mano che l'Impero ottomano tradiva una crescente fatica a difendere i propri confini. Tra il 1716 e il 1718 una guerra combattuta al fianco di Venezia garantì agli austriaci il possesso di Belgrado, avamposto insostituibile sulla sponda meridionale del Danubio. Questo evento consentì l'apparizione sulle coeve mappe politiche di un'entità statuale chiamata Regno di Serbia; si trattava del ritorno sulla scena della politica internazionale dopo un'assenza cominciata nel Medioevo. Ma fu una comparsa di breve durata: quando nel 1736 l'Austria combatté alleata con la Russia una nuova guerra contro l'Impero ottomano, lo Stato maggiore asburgico pianificò per l'anno successivo un'avanzata a partire da Belgrado verso tutta la Serbia meridionale, la Bosnia e l'Albania settentrionale. Ad agosto truppe austriache occuparono Novi Pazar e Pristina, ma furono presto ritirate a causa di un rovescio subito dagli imperiali sul fronte bosniaco. L'unica posizione rimasta in mano loro era l'area di Niš. Su di essa conversero tutte le forze austriache, rinforzate da un contingente serbo-albanese proveniente dal Kosovo forte di tremila uomini, guidato dal patriarca Arsenije IV e composto in prevalenza da membri del clan cattolico albanese Kelmendi; ma in ottobre il fronte cedette. Quanti conoscono l'inestricabile e, in ragione di ciò, straordinario groviglio etnico che caratterizza l'area geografica in analisi non potranno non trovare interessante il fatto che, dopo la rotta, il patriarca ed i Kelmendi fuggirono a nord, dove questi ultimi raggiunsero il territorio asburgico [e] finirono per essere inseriti come soldati nella “Frontiera militare” austro-ungarica; a loro e alle loro famiglie furono concessi due villaggi, Hrtkovci e Nikinci nella regione di Srem a ovest di Belgrado. [...] avrebbero mantenuto la loro lingua e cultura per generazioni, trasformandosi solo gradualmente in croati30. Ancora una volta, la rappresaglia ottomana sulle popolazioni dei territori interessati all'invasione fu feroce, si registrarono nuove conversioni forzate e un'ondata di deportazione e riduzione in schiavitù. Nel 1740 il sultano insediò a capo della Chiesa ortodossa serba il primo dei patriarchi greci fanarioti; ciò aprì le porte all'ultima fase della vita del patriarcato di Pejë/Peć, punito per la sua compromissione con gli Asburgo, un periodo caratterizzato da diffusa corruzione che lo condusse ad essere assorbito nel sistema clientelare del patriarcato greco di Costantinopoli. Questo mutamento al vertice della Chiesa portò nel 1766 alla chiusura del patriarcato serbo e alla confluenza di tutte le diocesi sotto Costantinopoli. Il titolo e la sede patriarcale sarebbero stati ripristinati solo nel 1920 a Pejë/Peć. La regione del Kosovo fin dai tempi degli Illiri è stata popolata dalla popolazione albanese.

L’origine degli albanesi
A partire dal XII secolo la zona venne progressivamente occupata dal popolo slavo dei serbi, che sotto il regno dello zar Stefan Dušan, tra il 1331 ed il 1355, raggiunse il massimo splendore e la massima estensione territoriale[3]. Il giorno di San Vito del giugno 1389, a Kosovo Polje (Campo dei merli), vicino a Prishtina, si svolse l’epica battaglia, che vide contrapporsi l’esercito serbo contro quello ottomano[4]. La sconfitta inflitta dai Turchi ai Serbi segnò la fine del regno medioevale serbo e l’inizio della dominazione turca della zona[5].
1.2       I Balcani nell’impero ottomano
A partire dal XV secolo, sotto il dominio dell'impero ottomano, il Kosovo ha vissuto un periodo iniziale di fioritura economica, dovuta soprattutto alle sue risorse minerarie e al fatto di essere attraversato da vie di comunicazione allora importanti. Tale periodo tuttavia è cessato tra il XVII e il XVIII secolo nel contesto generale di crisi economica e sociale dell'impero, che in Kosovo ha preso forme particolarmente acute. Nel 1867, nell'ambito di una riforma territoriale dell'impero ottomano, venne creata una grande unità amministrativa, il vilayet di Prizren, che comprendeva interamente l’odierno Kosovo, più le regioni di Diber, Shkup e Niš (tutte a maggioranza o a forte presenza albanese). Nel 1878, dopo il congresso di Berlino, la Serbia diventò un principato autonome rientrando nella sfera d’influenza dell’impero Asburgico. Il Kosovo rimase invece una provincia dell’impero ottomano[6].
Nel 10 giugno 1878, un gruppo di intellettuali, nell'ambito del risveglio nazionale albanese, creano la “Lega di Prizren”[7], il cui obiettivo era di lottare per l'autonomia territoriale degli albanesi, ma che inizialmente, visti i timori delle ali più conservatrici, si impegnò solo a impedire l'occupazione da parte di eserciti stranieri e dichiarò fedeltà al sultano. Nel 1880, la Lega si dichiarò "governo provvisorio dell'Albania”, rivendicando uno stato autonomo e assumendo il controllo del Kosovo e della Macedonia occidentale, ponendo la “questione albanese” all’attenzione dei governi e della comunità occidentale. La risposta del Governo ottomano alle istanze indipendentiste fu la riconquista dei territori "autonomi" e la messa al bando della Lega di Prizren, che tuttavia continuò ad esistere seppur in forma illegale[8]. Ai primi del '900 si intensificano le mire delle grandi potenze verso i Balcani. È in questo contesto che nel 1912 si ebbe una massiccia insurrezione da parte degli albanesi, che arrivarono a conquistare Skopje, chiedendo l’unificazione dei territori albanesi dell'impero ottomano, una loro amministrazione autonoma e la creazione di un sistema educativo in lingua albanese. Tutte le loro richieste vennero accettate, ma non vi fu il tempo per applicarle, perché meno di due mesi dopo il Kosovo fu invaso e occupato da truppe serbe.
Il conflitto tra serbi e albanesi deve essere inquadrato in questo contesto. Quando la Serbia e il Montenegro, al termine delle guerre balcaniche, si impossessarono del Sangiaccatto, della Macedonia, del Vadar, del Kosovo e della Metohija, si trovarono ad amministrare province con una forte presenza di popolazione slavo-musulmana e albanese[9]. Dal 1912 al 1918 l'intera regione, tra guerre balcaniche e prima guerra mondiale, rimase in uno stato di guerra permanente, con continui rovesciamenti di fronte, che vedranno il Kosovo occupato prima dai serbi, poi dagli austriaci e dai bulgari e, infine, di nuovo dai serbi. L'intenzione della Serbia era quella di estendersi militarmente fino alla costa adriatica, a Durazzo, ma l'opposizione di Austria e Italia porterà alla creazione di uno stato albanese. Il 28 novembre 1912, il Congresso Nazionale Albanese riunito a Vlorë (Valona), sotto la presidenza di Ismail Qemali, proclamò l’indipendenza[10]. L’Albania del 1912 era risorta dopo cinque secoli di dominazione turca, ma rimaneva privata, in buona parte, del territorio popolato da albanesi; i cittadini del nuovo stato erano 800.000, mentre altrettanti ne rimasero esclusi, e tra questi i kosovari[11]. La decisione fu il frutto di un compromesso, dopo che Francia e Russia si erano opposte alla creazione di un'Albania comprendente anche il Kosovo e le altre zone a maggioranza albanese. Infine, con il Trattato di Versailles del 1919 venne formalmente riconosciuta la dominazione serba sul Kosovo e sulla Macedonia.
Dopo la prima guerra mondiale, per circa vent’anni il Governo denominato "Regno dei Serbi, Croati e Sloveni", privò gli albanesi dei diritti che sarebbero spettati loro come minoranza (come per esempio l’uso della lingua madre), adottando una politica di espropri, violenze e trasferimenti forzati verso la Turchia”[12]. I serbi ed i montenegrini, che costituivano circa il 20% della popolazione, occuparono tutti i ruoli dirigenziali. Durante la seconda guerra mondiale la regione fu sottoposta all'occupazione da parte dei nazisti, combattuti e cacciati da parte del movimento di liberazione guidato dai nazionalisti serbi e dai comunisti di Tito, dopo una sanguinosa guerra civile che coinvolse tutta la regione balcanica. La regione del Kosovo, che non era mai stata ufficialmente riconosciuta come parte dell’Albania, tornò a tutti gli effetti ad essere parte del territorio jugoslavo, e per di più senza alcun tipo di riconoscimento, dal momento che quando nel 1943, Tito pose le basi del futuro stato federale jugoslavo, i rappresentanti del Kosovo non vennero interpellati[13].

1.2. Le radici del conflitto serbo albanese
In seguito alla vittoria di Tito, la popolazione albanese fu inizialmente oggetto di repressione da parte della polizia jugoslava (guidata da A. Ranković), che provocò un flusso migratorio verso la Turchia. Nell’ambito della strategia di Tito, volta ad evitare il proliferare del nazionalismo albanese, nel 1963 la nuova costituzione jugoslava stabilì l'autonomia del Kosovo, a cui segui l’introduzione di riforme in favore degli albanesi, in particolare nel settore scolastico. Al miglioramento della situazione generale dei kosovari all’interno della federazione jugoslava contribuì anche la estromissione del serbo Ranković dall’incarico di Ministro dell’Interno nel 1966. Tito ritenne di affrontare in altra maniera la tradizionale avversione degli albanesi per la Jugoslavia, (gli albanesi erano, “nella Jugoslavia i meno jugoslavisti fra tutti i popoli”)[14]; concesse dunque al Kosovo uno status di “quasi repubblica”, appena temperato dal fatto di rimanere formalmente una provincia autonoma nell'ambito della Serbia. Padroni del Kosovo grazie alla schiacciante superiorità demografica sui serbi, gli albanesi nel 1968 si autogovernavano disponendo di propri organi esecutivi, di un parlamento, di polizia e magistratura autonoma da Belgrado, di televisioni e strumenti culturali. Potevano anche esporre la bandiera albanese di Skanderbeg15, accanto a quella federale. Avevano un sistema scolastico e universitario in parte connesso a quello dell’Albania.
Disponevano di una rappresentanza diretta negli organi federali, senza dipendere dagli serbi. Nel 1969 il Parlamento serbo adottò una nuova costituzione per il Kosovo, che prevedeva la creazione di un sistema giudiziario della provincia, maggiori poteri di autonomia nell'amministrazione, la parità tra le lingue albanese, serbo-croata e turca e la creazione dell'Università albanese di Prishtina, che sarà negli anni seguenti un punto di riferimento anche per gli albanesi della Macedonia e del Montenegro.
Nel 1974 il progetto di decentralizzazione a livello federale culminò con
l'approvazione di una nuova Costituzione che fece delle province
autonome del Kosovo e della Vojvodina16 soggetti federali con diritto di
14 Roberto Morozzo Della Rocca, Kosovo; le ragioni di una crisi, “Limes”, VI, 1998/3, p. 90.
15 Gjergj Kastrioti Skenderbe, principe albanese (Krujë ca. 1400-Lezhë 1468).
16 Pitassio, La lunga tragedia del Kosovo…, cit., p. 14.
10
voto all'interno della repubblica federale, decisione che provocò un forte
risentimento da parte delle autorità serbe.
Nel 1980, in seguito alla morte di Tito le istanze secessioniste si fecero
sempre più forti, così come le repressioni violente degli scontri.
Alla metà degli anni '80 il nazionalismo serbo era in piena risorgenza. I
serbi erano stati parzialmente sacrificati da Tito che aveva applicato
l'assioma “Serbia debole - Jugoslavia forte”17.
La situazione iniziò a peggiorare a partire dal 1987, quando in Serbia
iniziò l'ascesa al potere di Slobodan Miloševič, un burocrate della Lega dei
Comunisti. Miloševič, che mai aveva avuto posizioni nazionaliste in
passato, usò il Kosovo e le tematiche antialbanesi come trampolino di
lancio per vincere la lotta per il potere in Serbia. I temi centrali del
risorgimento nazionalista serbo furono sviluppati durante uno dei raduni,
quasi quotidiani, del partito comunista, detti mitinsi, e aventi come oggetto
la questione del Kosovo. Questi raduni assunsero la forma di una
mobilitazione di massa del popolo serbo: furono presentati come adunate
assolutamente spontanee, benché fossero in realtà organizzati dalle
strutture del partito comunista, con il compiacente appoggio della polizia e
dell’esercito. Ben presto, i mitinsi divennero il principale strumento
politico per la realizzazione del programma di Slobodan Miloševič 18.
Alcune delle tappe della riconquista serba del Kosovo furono:
17 Morozzo Della Rocca, Kosovo le ragioni di una crisi…, cit., p. 90.
18 Benedikter , Il dramma del Kosovo …, cit., pp. 69-72.
11
la mobilitazione popolare per promuovere un reinserimento serbo nella Regione;
la presentazione di un progetto serbo di riforme costituzionali per cancellare le
autonomie;
la dura repressione degli scioperi e delle proteste albanesi nel marzo del '89;
il raduno nel Campo dei Merli di un milione di serbi, 28 giugno 1989;
la proclamazione dello stato di emergenza in Kosovo, presidiato massicciamente
dall’esercito federale e dalla polizia serba;
le modifiche costituzionali, approvate nel luglio 1990, che abolivano lo status di
provincia autonoma del Kosovo, sciogliendo gli organi istituzionali provinciali.
1.3. La strategia non violenta di Ibrahim Rugova19 e L’UÇK20
La riforma della costituzione serba del '89, abolì le province autonome
attuando una maggiore centralizzazione del potere statale, che cancellò
ogni tutela per la lingua per la cultura degli albanesi.21
Al fine di rafforzare la presenza serba nella provincia, furono emessi dopo
l'89 numerosi decreti legge e approvati regolamenti amministrativi
fortemente discriminatori nei confronti degli albanesi22.
In risposta all’azione di repressione posta in atto dalle autorità di Belgrado,
alla fine del 1989, fu ufficialmente fondato quello che sarebbe rapidamente
diventato il partito d’identificazione etnica degli albanesi23: la LDK24, di
19 Nato nel 1944, da una famiglia di agricoltori moderatamente nazionalista proveniente dalla regione di
Rugova e molto nota. Compie i suoi studi a Peja e si laurea in letteratura albanese a Prishtina, quindi
lavora come insegnate, come giornalista e come ricercatore nella stessa Università.
20 Ushria Çlirimtare e Kosoves: Esercito di Liberazione del Kosovo
21 Antonello Biagini, Alle origini della crisi del Kosovo, “Europa/Europe”, VIII, 1999/4, p. 28.
22 Jože Pirjevec, Le guerre jugoslave 1991-1999, Einaudi, Torino, 2001, p. 555.
23 Luciano Bozzo e Carlo Simon-Belli, La “Questione Illirica”. La politica estera italiana in un’area di
instabilità: scenari di crisi e metodi di risoluzione, Milano, Franco Angeli, 1997, p. 91.
24 Lidhjes Demokratike te Kosovës - Lega Democratica del Kosovo.
12
cui divenne leader l’intellettuale Ibrahim Rugova, professore di letteratura
albanese e scrittore. La politica perseguita da Rugova e dalla LDK, per
tentare di risolvere la questione del Kosovo, poggiava le proprie basi su
una duplice linea d’azione. All’interno, una strategia di resistenza nonviolenta
nei confronti della repressione serba si accompagnava alla
negazione sistematica della legittimità del governo di Belgrado;
all’esterno, invece, l’internazionalizzazione del problema kosovaro, vale a
dire la ricerca di diverse forme di coinvolgimento politico internazionale,
doveva condurre al riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo.
La consultazione referendaria tenutasi il 26-30 settembre 1991, a cui
partecipò l’87,01% degli abitanti del Kosovo, portò alla proclamazione
unilaterale della Repubblica del Kosovo, con il 99,87% di suffragi a
favore dell’indipendenza.25
Rugova istituì un governo in esilio, (che venne riconosciuto solo dal
governo di Tirana 26), a capo del quale nominò Bujar Bukoshi. Questi si
installò a Stoccarda per propagandare presso i governi e l'opinione
pubblica europea la causa kosovara e imporre ai circa mezzo milione di
connazionali emigrati all'estero una tassa del 3% sui loro redditi, che servi
per ricostruire uno stato parallelo o “stato ombra”27.
Nonostante le minacce della polizia, il 24 maggio 1992 la leadership
kosovara organizzò elezioni clandestine, vinte con voto plebiscitario della
25 Morozzo Della Rocca, Kosovo le ragioni di una crisi…, p. 92.
26 Osvaldo Croci, Dovere, umanitarismo e interesse nazionale. L’Italia e l’intervento della Nato in
Kosovo, “Politica in Italia”, Bologna, Mulino, 2000, p. 111.
27 Pirjevec, Le guerre jugoslave…, cit., pp. 554-559.
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LDK, mentre il suo leader venne eletto Presidente della Repubblica con
oltre il 90% dei suffragi.28
Il governo centrale di Belgrado sconfessò i risultati del referendum e delle
successive elezioni presidenziali allo scopo di ribadire l'appartenenza della
provincia alla Serbia.
Gli anni tra il 1989 e il 1992 sono anni euforici per i serbi che pensano di
potere riappropriarsi del Kosovo. Gli albanesi vengono allontanati dai
posti pubblici, che vengono dati ai serbi29.
Rugova divenne presto una figura nota a livello internazionale, come
“Gandhi dei Balcani”. La sua non violenza fu dovuta a ragioni ideologiche,
ma anche a necessità reali; appariva evidente, infatti, che qualsiasi
tentativo di rivolta armata contro il dominio serbo avrebbe provocato un
bagno di sangue, data la grande disparità delle forze in campo. A
differenza di altri leader albanesi come Adem Demaçi e Rexhep Qosja, che
invitavano gli albanesi a temerarie sfide al potere serbo, Rugova rivelò una
certa sensibilità umanitaria, per quanto glielo consentisse la durezza del
confronto etnico.
Contemporaneamente il governo di Miloševič, impegnato indirettamente in
Bosnia e stretto dall'embargo economico, di fatto tollerava che nel Kosovo
si istituisse una struttura statuale albanese parallela, in forma di
associazione privata.30
28 Ivi, p. 557.
29 Morozzo Della Rocca, Kosovo le ragioni di una crisi…, cit., p. 93.
30 Pitassio, La lunga tragedia del Kosovo…, cit., p. 16.
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I kosovari, nello scegliere la resistenza passiva, svilupparono una linea di
condotta non priva di metodo: le autorità albanesi rinunciarono a chiedere
il pagamento delle tasse, a riscuotere le bollette dell'acqua, della luce e del
gas, e perfino ad arruolare i giovani di origine albanese nell'esercito.
Sfruttando il personale licenziato dai serbi, crearono uno “Stato ombra”
dotato di tutte le essenziali strutture politiche, culturali, sociali, mediche e
d’informazione. Si trattava naturalmente di istituzioni carenti sul piano
dell'efficienza, costrette com'erano a operare in condizioni precarie e di
semi clandestinità, che spesso non furono in grado di far fronte a situazioni
di emergenza31.
Lo “stato parallelo” fu finanziato con le rimesse che gli albanesi kosovari
all'estero mandavano in Kosovo e con contributi di un’economia parallela,
in parte basata su piccole attività commerciali cresciute negli anni di crisi,
e in parte su attività criminali.
Questa strategia di non collaborazione fece diminuire il livello di scontro
diretto tra autorità serbe e popolazione albanese-kosovara. In questo modo
la repressione serba da un lato e la strategia della non collaborazione dei
leader albanesi-kosovari dall’altro daranno vita a un sistema di
segregazione. Negli anni Novanta si svilupparono in Kosovo due società
parallele che trovarono, fino al 1995, il modo per convivere una accanto
all'altra senza scontri diretti.
Questa strategia tuttavia non riuscì a costruire sbocchi positivi al conflitto.
31 Pirjevec, Le guerre jugoslave…, cit., p. 557-558.
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La scelta dello stato parallelo impedì ai leader kosovari-albanesi di
stringere alleanze o di costruire occasioni di dialogo con gli oppositori
serbi del governo di Miloševič. L'unico obiettivo politico fu quello di
attirare l'attenzione internazionale e guadagnare l'appoggio delle potenze
occidentali.
Dopo gli accordi di Dayton del novembre 1995, che misero fine alle guerre
in Croazia e Bosnia, “e che non facevano alcun cenno alla provincia del
Kosovo”32, il fallimento di questa strategia diventò evidente.33 I confini
internazionali della nuova Jugoslavia erano stati riconosciuti dalle potenze
occidentali e il Kosovo ne faceva parte. Il consenso attorno alla strategia
della non-collaborazione della LDK cominciò a erodersi tra gli albanesi del
Kosovo. Soprattutto gli studenti premevano per passare a forme di
resistenza più attive: come proteste, manifestazioni, occupazioni di scuole
e di strutture pubbliche. Le proteste, durante il 1996 e il 1997, furono
continue. La LDK vide criticare queste nuove forme di protesta e temette
di perdere il controllo sulla società. Intanto il muro contro muro tra autorità
serbe e opposizione albanese non veniva superato.
Tra la fine del 1995 e la fine del 1997 un’organizzazione prima
sconosciuta, l’Uçk rivendicò numerosi ma comunque isolati attentati
contro esponenti delle istituzioni serbe in Kosovo e contro cosiddetti
"collaborazionisti" di lingua albanese. L'Uçk decise di rispondere con la
32 Pirjevec, Serbi, Croati, Sloveni…, cit., p. 77.
33 Morozzo Della Rocca, Kosovo le ragioni di una crisi…, cit., p. 99.
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violenza, alla violenza dello stato, rivendicando nel suo “Comunicato n. 1”
gli attentati commessi, nella convinzione che senza lotta e senza sacrifici
non sarebbe stato possibile liberare la patria34. L’Uçk definì ben presto la
propria fisionomia di movimento di resistenza locale, le cui finalità erano
la protezione della popolazione di etnia albanese dagli attacchi serbi,
l’unità nazionale e la liberazione del Kosovo.
L’entrata in scena dell’Uçk, manifestatosi completamente solo dopo la
conclusione degli Accordi di Dayton, mise definitivamente in crisi la
strategia della resistenza passiva adottata dalla LDK. L’atteggiamento di
Rugova nei confronti dell’Uçk fu inizialmente caratterizzato da una certa
dose di diffidenza. Egli era convinto, infatti, che, dietro gli attentati
rivendicati dall’Uçk, vi fossero degli agenti provocatori, appartenenti ai
servizi segreti di Belgrado. Per gli oppositori del leader albanese, questo
non fu che l’ennesimo segnale della sua ormai evidente incapacità di
interpretare la realtà in costante divenire del Kosovo. Nonostante ciò, il 22
marzo 1998, Rugova fu rieletto presidente della “Repubblica del Kosova”.
È proprio l’Uçk che agli inizi del 1998 intaccò l'equilibrio della paura che
aveva congelato la situazione del Kosovo. Il gruppo fece conoscere
inizialmente per l'eliminazione di albanesi collaborazionisti dei serbi e per
attentati contro le forze di polizia. In due anni eliminò una trentina tra
collaborazionisti e poliziotti, finché l'uccisione di due militi, il primo
34 Pirjevec, Le guerre jugoslave…, cit., p. 561.
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marzo 1998, scatenò una brutale repressione serba35.
Il 28 febbraio 1998, nei villaggi di Likosani e Cirez, nel Kosovo, in scontri
tra polizia e dimostranti muoiono 16 persone. Il 5 e 6 marzo la polizia
serba uccide 58 albanesi durante operazioni nella regione di Drenica per lo
più vecchi, donne e bambini, Ucciso anche il leader dell’Uçk, Adem
Jashari.Il massacro di Drenica, posero la questione del Kosovo
all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, mentre migliaia di
giovani albanesi iniziarono e prendere le armi e a combattere con l'Uçk36.
Dopo Drenica, ogni azione militare serba in Kosovo, pur motivata dalla
presenza reale dei guerriglieri dell'Uçk, produsse per qualche tempo due
effetti contrari agli interessi serbi: indusse un maggior numero di albanesi
ad armarsi, e internazionalizzò la questione del Kosovo secondo le
speranze degli albanesi.
Sembrava comunque che l'Uçk e la linea della lotta armata dovessero
rimanere dei fenomeni marginali.
La controffensiva delle forze serbe nella tarda estate del 1998 ebbe degli
effetti devastanti per la popolazione civile: mentre i combattenti albanesi si
ritiravano, interi paesi furono rasi al suolo, gli abitanti albanesi di queste
zone furono minacciati ed espulsi dalle loro case. Molti civili dovettero
rifugiarsi nelle montagne, altri si diressero verso l’Albania. I serbi
riconquistano gradualmente i territori precedentemente persi. L'estate di
35 Morozzo Della Rocca, Kosovo le ragioni di una crisi…, cit., p. 97.
36 Pirjevec, Le guerre jugoslave…, cit., p. 564.
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guerra del Kosovo fece registrare circa 500 morti, mentre i profughi, che
avevano abbandonato le loro case, erano circa 300 mila. Concretamente i
guerriglieri non potevano supporre di sconfiggere l'esercito jugoslavo
anche se “i balcanici non avviano le guerre perché pensano di vincerle”37.
La loro speranza era quella di provocare un intervento occidentale,
americano o della Nato, dopo aver acceso i riflettori dei media
internazionali sul Kosovo, e suscitato un ondata di sdegno anti – serbo38.n seguito alla vittoria di Tito, la popolazione albanese fu inizialmente oggetto di repressione da parte della polizia jugoslava (guidata da A. Ranković), che provocò un flusso migratorio verso la Turchia. Nell’ambito della strategia di Tito, volta ad evitare il proliferare del nazionalismo albanese, nel 1963 la nuova costituzione jugoslava stabilì
l'autonomia del Kosovo, a cui segui l’introduzione di riforme in favore degli albanesi, in particolare nel settore scolastico.
Al miglioramento della situazione generale dei kosovari Benché





Dalla guerra del ’99 all’indipendenza del Kosovo
Il 24 marzo 1999 l'Alleanza Atlantica prese atto del fallimento dei negoziati, dopo anni di trattative con la Serbia, ed iniziò (senza un provvedimento in questo senso da parte dell'ONU, a causa del minacciato veto di Russia e Cina) alcune operazioni militari di dissuasione nella speranza di ottenere una replica di quanto già avvenne per i negoziati per il conflitto bosniaco, dove anche lì la delegazione serba abbandonò improvvisamente la trattativa riprendendo immediatamente le operazioni militari. In quella occasione poche operazioni militari di dissuasione sulle linee serbe convinsero il regime di Milošević a ritornare al tavolo delle trattative e a firmare (e rispettare) la fine del conflitto. Tale circostanza non si ripeté nel caso del Kosovo, presumibilmente perché Milošević - che puntava in modo piuttosto trasparente ad una sua spartizione, tra Serbia e Albania - riteneva di potere contare su determinate alleanze, o semplicemente su di un mutato quadro internazionale che pensava avrebbe giocato a suo favore. La Cina aveva manifestato una netta contrarietà nei confronti della neonata repubblica di Macedonia (verso la quale l'esercito serbo cercò di spingere la popolazione del Kosovo in fuga) a causa del riconoscimento di Taiwan da parte di quest'ultima, circostanza che sembra essere stata la motivazione dominante della minaccia di veto cinese ad ogni intervento in sede ONU.
La Russia aveva iniziato un recupero della conflittualità con gli USA in chiave nazionalista, e inoltre tra Russi e Serbi esiste storicamente un legame particolare su base etnico - religiosa. La NATO iniziò quindi una escalation di bombardamenti aerei su tutto il paese che sono durati oltre due mesi (operazione Allied Force). I jet della NATO partivano soprattutto da basi militari italiane, come quella di Aviano, in Friuli-Venezia Giulia. In media, la Serbia subiva almeno 600 raid aerei al giorno. Il numero esatto di vittime della guerra, sia serbe che albanesi, militari e civili, non è ancora oggi conosciuto con esattezza, ma è presumibile sia dell'ordine di qualche migliaio. Si tratta di una ulteriore tragedia che si somma a quella dei dieci precedenti anni di conflitti balcanici, che hanno fatto circa 250.000 vittime, in gran parte civili.
Nel corso del conflitto ci sono stati diversi gravi episodi: in un'occasione un attacco aereo colpí un convoglio di civili in fuga facendo una strage. Un'altra volta, un missile finí per errore in Bulgaria, senza provocare danni. Tra le infrastrutture prese di mira anche alcuni ponti e centrali elettriche (bombardate con bombe alla grafite che non provocano danni permanenti, ma solo un black-out). Fu anche bombardata e distrutta la torre della televisione (gli oppositori di Milošević in Serbia sostenevano che il personale era stato avvisato dell'attacco, ma gli era stato ordinato di rimanere nell'edificio), con 16 vittime tra giornalisti, funzionari ed impiegati. In seguito venne bombardata l'ambasciata cinese a Belgrado, nel convincimento che in quell'edificio fosse stata spostata la trasmittente della radiotelevisione Serba dopo la distruzione della sua sede. La vicenda creò una notevole tensione con la nazione asiatica. L'esercito serbo, e truppe "irregolari" facenti capo a movimenti ultranazionalisti serbi (che già avevano operato in Bosnia Erzegovina distinguendosi in massacri di civili ed operazioni di cecchinaggio) non mancarono di compiere diverse esazioni sulla popolazione del Kosovo, per provocarne la fuga e creare quello stato di fatto necessario alla realizzazione dell'obiettivo della spartizione. L'operazione militare, chiamata "ferro di cavallo", sarebbe stata preparata prima ancora delle trattative di Rambouillet (prima dell’inizio del conflitto), anche se prove definitive al di là di ogni ragionevole dubbio in tal senso non sono state fornite, o la stampa internazionale non ne ha mai dato un resoconto esauriente. In ogni caso l'esercito serbo sotto attacco NATO aumentò progressivamente la pressione sulla popolazione albanese, che iniziò a spostarsi verso la Macedonia e l'Albania. Il numero dei rifugiati raggiunse gli 800.000.
L'inevitabile capitolazione del governo serbo portò al dispiegamento della missione ONU KFOR, disposta dal Consiglio di sicurezza a seguito di un accordo "a posteriori" includente Russia e Cina, a guida NATO e con una significativa presenza di truppe russe, a garanzia della Serbia.
I rifugiati albanesi ritornarono ma cominciò un nuovo esodo, quello serbo. Migliaia di cittadini di etnia non albanese (serbi, montenegrini e gitani, in prevalenza) fuggirono dal Kosovo temendo – e subendo – rappresaglie albanesi (per altro protrattesi sino ai giorni nostri, a dispetto della presenza della KFOR). Milošević fu arrestato il 1 aprile 2001 su mandato del tribunale internazionale dell'Aja, dopo molte titubanze del nuovo regime democratico, come imputato per crimini contro l'umanità. Il processo si è interrotto a poca distanza dalla sua conclusione, a causa della morte dell'imputato l'11 marzo 2006 per presunto arresto cardiaco.
In base alle Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite numero 1244 del 1999, il Kosovo fu provvisto di un governo e un parlamento provvisori, e posto sotto il protettorato internazionale UNMIK e NATO.
Dopo la morte del presidente Ibrahim Rugova (avvenuta nel gennaio 2006), furono avviati i negoziati tra delegazione kosovara Serba e delegazione kosovara Albanese sotto la guida del mediatore ONU Martti Ahtisaari per la definizione dello status futuro della provincia serba.
Il 26 marzo 2007 il Segretario generale dell’Onu Ben Ki-moon ha rimesso al Consiglio di Sicurezza il rapporto redatto da Maarti Ahtisaari sul futuro status del Kosovo. Il rapporto, che è opportuno conoscere, consta di una parte di raccomandazioni e di un annesso. È molto chiaro e basa le sue conclusioni su tre punti fondamentali: a) un ritorno allo status quo ante 1999 non è possibile; b) non è più sostenibile la prosecuzione della missione internazionale; c) l’unica opzione possibile rimane quella dell’indipendenza “sotto controllo della comunità internazionale”.
Dopo il riassunto della natura dell’incarico ricevuto e gli aspetti salienti della missione, Ahtisaari motiva brevemente il primo punto: la lunga storia della ostilità tra le due popolazioni ha provocato l’inasprirsi della tensione fino alla brutale repressione dal regime di Miloševič e, in seguito a questi fatti, il successivo insediamento della missione UNMIK ha fatto sì che Serbia e Kosovo fossero amministrate in maniere diverse e separate. In questo periodo di circa otto anni (dal 1999 a oggi) la Serbia non ha più esercitato alcun potere effettivo sul Kosovo. Poiché questo è innegabile, si è trattato di un processo che può ora definirsi irreversibile (e senza scomodare Aristotele, Ahtisaari qui fa un vero e proprio sillogismo).
Se queste osservazioni possono essere in parte condivisibili nella sostanza, varie perplessità affiorano invece leggendo la seconda parte sui risultati ottenuti dall’amministrazione internazionale e in particolare sulle capacità realmente acquisite nella gestione della cosa pubblica dalla nuova classe dirigente. Attraverso l’amministrazione UNMIK – prosegue infatti Ahtisaari – è stato particolarmente curato l’aspetto del self-government nella formazione delle amministrazioni locali, innescando perciò un processo di sviluppo politico, ma non economico. Questa particolare situazione di instabilità politica-istituzionale non ha attratto quindi investimenti stranieri né consentito l’accesso a finanziamenti internazionali né promosso l’integrazione economica con altri Paesi balcanici o creato infrastrutture per lo sviluppo. Per questo – conclude Ahtissari – solo l’indipendenza della provincia, con la stabilità e la chiarezza che comportano, potrà assicurare delle prospettive di sviluppo economico.
Dopo queste premesse, l’opzione dell’indipendenza “sotto il controllo della comunità internazionale”, rimane quindi l’unica realistica, sebbene la situazione interna richieda molta attenzione. La convivenza etnica è ancora segnata dall’eredità dei fatti avvenuti nell’estate del 1999 e nel marzo 2004 e, nonostante gli sforzi sinora effettuati, la comunità serba necessita di una maggiore integrazione nelle istituzioni del Kosovo. “Il Kosovo è un caso unico, che richiede una soluzione unica. Non deve creare un precedente per altri conflitti irrisolti”. Sono alcune tra le parole conclusive di Ahtisaari che inoltre sottolinea come la combinazione di particolari fattori abbia fatto del Kosovo un insieme di circostanze straordinarie.
Dal novembre del 2005 però, da quando cioè erano iniziate le ultime trattative sul futuro status, sembrava che l’ipotesi della spartizione fosse stata esclusa a priori non solo dalla comunità internazionale, ma anche dagli stessi diretti interessati. All’interno dei due schieramenti chi sosteneva tale ipotesi era insomma in netta minoranza e apertamente contrari si erano dichiarati ufficialmente Solana e autorevoli diplomatici e funzionari Onu. Il modello delle due entità che compongono l’attuale Bosnia-Erzegovina (Republika Srpska e Federazione musulmano-croata) era stato insomma respinto, anche alla luce delle difficoltà di collaborazione verificatesi in questi anni – e che oggi si stanno ancora protraendo – come ad esempio sulla questione dell’unificazione delle forze di polizia. Ciò nonostante, benché in numero ridotto, sostenitori di questo tipo di soluzione evidentemente non mancavano e soprattutto l’espressione ‘indipendenza’, sia pure condizionata, era stata usata con estrema cautela.
Alcuni osservatori avevano del resto notato – tra le tante debolezze del piano Ahtisaari – che le ampie concessioni alle amministrazioni dei comuni del nord (la zona di Mitrovica a maggioranza serba) avrebbero in ogni caso prodotto una ulteriore spartizione di fatto. Una dichiarazione del 26 marzo di Goran Svilanovic (ex ministro degli Esteri serbo) richiama alcuni punti per una soluzione in questo senso, ma il silenzio con cui sono state accolte queste dichiarazioni è eloquente. D’altra parte, proprio nello stesso rapporto Ahtisaari emergono aspetti inquietanti, gli stessi punti sostenuti dai fautori della spartizione: riconciliazione impossibile, due popolazioni che vivono separate e riforme che non decollano. Volendo rimanere all’interno del parallelo tra Bosnia e Kosovo, da una parte il blocco delle riforme istituzionali comuni e dall’altra il fallimento della politica degli ‘standard before status’ lanciata nel 2003.
Il Kosovo, oltre al valore simbolico, rappresenta territorialmente tra il dieci e il quindici per cento della Serbia. La zona che la Serbia potrebbe riuscire a sottrarre all’indipendenza del Kosovo è circa meno di un quarto, ma è anche vero che la maggior parte della minoranza serba in tutta la provincia non si trova in questa zona perché vive soprattutto nelle varie enclave sparse nel territorio. Per loro la spartizione equivarrebbe a una condanna, senza contare i contraccolpi sulle altre minoranze albanesi che vivono attualmente in territorio serbo e che in caso di annessione si troverebbero in un quadro etnico radicalmente mutato in modo sfavorevole.
Inoltre esiste la questione delle miniere di Mitrovica che – sebbene al momento obsolete, improduttive e inquinanti oltre ogni limite – rappresentano tuttavia una risorsa fondamentale per un futuro sviluppo e quella dello status delle chiese e dei conventi serbo-ortodossi a sud del fiume Ibar che dovrebbero godere di una sorta di extra-territorialità. Una spartizione dunque creerebbe certamente altre difficoltà, ma paragonabili a quelle di una “indipendenza condizionata” che costringerebbe a una situazione di convivenza impossibile con tutte le conseguenze?
Il giorno successivo (27 marzo), in un articolo dello stesso Svilanovic sul quotidiano belgradese Politika, sono invece messe a fuoco abbastanza lucidamente le ragioni dell’appoggio di Putin alla Serbia. All’autore non sfuggono le motivazioni reali dell’atteggiamento della diplomazia russa: dopo aver delineato il complesso quadro di relazioni intercorrenti con le maggiori potenze, emergerebbe che la politica russa sulla questione del futuro status miri principalmente soltanto a ritardare i tempi di risoluzione per ottenere maggior potere contrattuale in altre trattative e del resto la politica estera della ex Unione Sovietica in questo momento sta tentando un difficile rilancio anche su altri fronti.
Obiettivo principale sarebbe comunque ritardare la risoluzione sul Kosovo almeno fino al vertice del G8 previsto per giugno. Per tutti questi motivi la minaccia del veto al Consiglio di Sicurezza non sarebbe affatto un bluff unicamente in chiave filo serba. La stessa tattica dilatoria impiegata - si potrebbe aggiungere - potrebbe diventare in questo caso il terreno sul quale preparare la spartizione. Inoltre, considerando che una proclamazione dell’indipendenza unilaterale – da parte cioè dei soli kosovari albanesi – obbligherebbe numerosi Stati a riconoscere o meno il nuovo Kosovo, proprio l’ipotesi della spartizione potrebbe richiamare attenzione per evitare una fuga in avanti da parte albanese.
Tutta la questione è resa ancora più complicata dal fatto che in Serbia dopo le elezioni del 21 gennaio non sono ancora terminate le trattative per la formazione del nuovo governo. Il partito radicale, che rappresenta i nazionalisti usciti dal confronto elettorale con la maggioranza relativa, ha già ammonito che un prolungarsi delle trattative senza esito imporrebbe nuove elezioni. La questione della consegna dei criminali di guerra all’Aja blocca ancora la prosecuzione delle trattative per l’adesione all’Unione Europea.
Per tutti questi complessi motivi, nei quali si mescolano in un groviglio davvero inestricabile questioni interne e questioni internazionali, l’ipotesi della spartizione – benché deprecata – è tornata a farsi avanti, rafforzata dalla mancanza di una soluzione alternativa nel caso del rifiuto totale del piano Ahtisaari e dalla possibilità – ancora ipotetica – che un nuovo governo serbo la sottoponga invece alla propria opinione pubblica come unica soluzione possibile per la questione del Kosovo, o come estremo salvataggio di una parte della provincia stessa.
Nonostante numerosissimi incontri tra le diverse parti, il piano per lo status finale del Kosovo preparato da Ahtisaari non fu mai condiviso né dai serbi, che non volevano perdere la sovranità sulla provincia, né dai kosovari, che ambivano alla piena indipendenza.
Il 17 novembre 2007 si sono tenute le elezioni per rinnovare sia l'assemblea parlamentare del Kosovo. Le elezioni sarebbero dovute avvenire nel 2006, ma furono rinviate nella speranza di risolvere in breve tempo la questione dello status. Così non è stato, e le profonde divisioni con la Serbia hanno portato al boicottaggio elettorale degli stessi serbi del Kosovo ed una bassa affluenza alle urne da parte dei kosovari albanesi. Ha prevalso il Partito democratico (Pdk) dell'ex capo guerrigliero dell'Uck, Hashim Thaci, che ha superato per la prima volta la Lega democratica (Ldk) del defunto presidente Rugova. Thaci ha avviato un governo albanofono di grande coalizione per gestire il processo verso la piena indipendenza del Kosovo. Il 10 dicembre 2007 è scaduto il periodo dei negoziati condotti dall'ONU, che hanno fatto registrare un sostanziale nulla di fatto, con Serbia e Kosovo rimasti sulle rispettive posizioni. Le autorità kosovare hanno insistito nel voler proclamare l'indipendenza in modo unilaterale (soluzione ovviamente preferita da parte della maggioranza albanese e che ha come unico precedente il caso di Timor Est).
Il 16 febbraio 2008 l'Unione Europea, un giorno prima dell'annunciata proclamazione d'indipendenza, ha approvato l'invio di una missione civile internazionale in Kosovo (chiamata "EULEX"), in sostituzione della missione UNMIK, per accompagnare il Paese in questo periodo di transizione. La missione comprende 2000 uomini (fra i quali piu' di 200 italiani), e ha l'obiettivo di sostenere le autorità kosovare nel mantenimento della sicurezza e dell'ordine pubblico, nel settore doganale e nell'amministrazione della giustizia. Da parte serba si fa notare come da un punto di vista sostanziale tale missione, priva di un mandato diretto da parte dell'ONU, sia quantomeno di dubbia legalità. La missione EULEX infatti, trae la propria legittimità solo dall'invito ad operare in Kosovo che il "Presidente" kosovaro Seidiu ha indirizzato all'Unione Europea.

Il 17 febbraio 2008 il Parlamento di Prishtina, riunito in seduta straordinaria, ha approvato la dichiarazione d'indipendenza del Kosovo letta dal premier Hashim Thaçi e ha battezzato i suoi simboli nazionali: la bandiera e lo stemma. I nuovi simboli dello stato sono stati scelti in modo tale da rispettarne la composizione multietnica. Il discorso pronunciato dal premier  parla di una Repubblica democratica, secolare e multietnica, guidata da principi di non discriminazione e uguale protezione da parte della Legge. Circa dieci minuti dopo la proclamazione, avvenuta circa alle 3 pomeridiane, il governo serbo si è affrettato a dichiarare illegittima e illegale tale affermazione e che mai riconoscerà la repubblica secessionista come indipendente.
Lo stesso 17 febbraio il governo del Costa Rica è stato il primo paese a riconoscere l'indipendenza del Kosovo. Il 18 febbraio sono arrivati gli importanti riconoscimenti da parte di Stati Uniti e Albania. L'Unione Europea, riunita in assemblea a Strasburgo non è riuscita a disegnare una linea guida unitaria e ha lasciato i vari stati liberi di riconoscere la provincia secessionista. Da tempo si erano dichiarati favorevoli Francia, Gran Bretagna, Germania ed Italia, mentre fortemente contrari sono Spagna, Grecia, Cipro e Romania, che vedono in un riconoscimento ufficiale un gravissimo pericolo di instabilità interna per le autonomie che chiedono più spazi e riconoscimenti. Successivamente, in data 21 febbraio 2008, il Governo italiano ha riconosciuto ufficialmente l'indipendenza del Kosovo, e ha risposto affermativamente alla richiesta di stabilire relazioni diplomatiche. In campo extraeuropeo, fortemente contrari sono Russia e Cina, entrambe con potere di veto al Consiglio di Sicurezza dell'ONU che non si è pronunciato a favore dell'indipendenza, ribadendo che resta valida la propria Risoluzione n. 1244.
Ufficialmente, secondo il diritto internazionale e l'ONU, in Kosovo vige ancora la Risoluzione numero 1244 che definisce il territorio kosovaro sotto sovranità serba.
Sembra inoltre profilarsi il rischio di una nuova separazione territoriale, ad opera della comunità serba che risiede nella parte nord del Kosovo confinante con la Serbia (a nord del fiume Ibar), tuttora in una situazione caotica dal punto di vista istituzionale. La comunità serba, maggioranza in questa zona, minaccia infatti a sua volta la separazione dal Kosovo e il ricongiungimento con la Serbia. Questo provocherebbe di fatto la divisione della città di Kosovska Mitrovica, attraversata essa stessa dal fiume e abitata dai serbi sul lato nord e dagli albanesi sul lato sud.
La situazione in Kosovo dopo il conflitto del 1999
Secondo quanto stabilito dalla “Risoluzione 1244” approvata delle Nazioni Unite nel giugno 1999, il Kosovo deve considerarsi un territorio formalmente facente parte della Repubblica Federale di Jugoslavia ma sottoposto ad un regime di amministrazione civile e militare internazionale provvisoria[i]. Questa è stata affidata alla “United Nations Mission in Kosovo” ( UNMIK ), il cui compito è di favorire il raggiungimento dell’auto – governo nella regione trasferendo gradualmente le sue competenze alle autorità locali democraticamente elette. La missione è guidata dal “Rappresentante Speciale del Segretario Generale” delle Nazioni Unite, incaricato tra l’altro di dirigere e coordinare l’attività delle altre istituzioni presenti in Kosovo, quali l’Unione Europea e l’OSCE, nonché di assicurare l’ordine e la sicurezza nel territorio, funzione questa svolta dalla KFOR, il contingente militare internazionale forte di 17.000 effettivi – dei quali 1.700 statunitensi – dispiegato in quattro aree della regione ognuna delle quali è posta sotto il comando di un diverso Paese.
Tra le tante questioni che l’UNMIK si è trovata ad affrontare nel dopoguerra, quelle riguardanti le competenze da attribuire alla nuova amministrazione autonoma locale e la definizione del futuro status della regione si sono dimostrate fin dall’inizio le più difficili da gestire.
Come primo passo verso la formazione di un esecutivo kosovaro, nel 2001 veniva varata una “Carta Costituzionale per l’Autogoverno Provvisorio del Kosovo” che istituiva un’Assemblea legislativa composta di 120 membri – dei quali 20 riservati alle minoranze etniche – incaricata di eleggere il Presidente ed il Primo Ministro del governo regionale. Formalmente autonome, le nuove istituzioni disponevano di una serie di competenze che a partire dal 2003 sono state progressivamente ampliate fino ad includere anche dei dicasteri responsabili per la giustizia, gli affari interni e l’energia, pur restando all’UNMIK il controllo sulla politica monetaria e fiscale, le relazioni esterne e la sicurezza nonché il diritto di porre il veto sui provvedimenti approvati dall’Assemblea legislativa locale che risultavano in contrasto con le disposizioni contenute nella “Risoluzione 1244”. Tenute nell’autunno del 2001 le prime consultazioni per l’elezione dei membri dell’Assemblea legislativa, pochi mesi dopo l’allora “Rappresentante Speciale del Segretario Generale” Michael Steiner dichiarava come nessun negoziato sul futuro status della regione sarebbe stato avviato dalle Nazioni Unite prima che le autorità kosovare avessero adempiuto ad alcuni standard fissati dalla comunità internazionale, quali il rispetto delle minoranze, la costituzione di uno Stato di diritto e di istituzioni democratiche e l’adozione di un’economia basata sui principi del libero mercato. Alla fine del 2003 il governo kosovaro e l’UNMIK si accordavano quindi per istituire cinque gruppi di lavoro, ai quali però non parteciparono rappresentanti serbi, allo scopo di implementare le condizioni fissate dalle Nazioni Unite. Tuttavia, l’esplosione dei nuovi disordini interetnici che nella primavera del 2004 provocarono 19 vittime e 900 feriti tra popolazione insieme all’esodo di almeno 4.000 persone, nella gran maggioranza serbi, dalle loro abitazioni, convinse la comunità internazionale che i negoziati per definire il futuro status del Kosovo dovessero essere accelerati e possibilmente portati a termini per la fine del 2006. 
Il compito di valutare se gli standard precedentemente fissati fossero stati rispettati dal governo di Pristina veniva affidato al norvegese Kai Eide, designato dalle Nazioni Unite nell’estate del 2005, il quale nell’autunno dello stesso anno redigeva un rapporto, riconosciuto come realistico e veritiero da entrambe le parti, in cui risultava che anche se erano stati compiuti progressi significativi, la situazione economica restava negativa, l’apparato di polizia ed il sistema giudiziario continuavano ad essere deboli e le prospettive per la ricostruzione di una società multi – etnica quanto mai remote, ribadendo inoltre come fosse auspicabile avviare al più presto i negoziati per definire lo status della regione. Nel documento si affermava poi come l’autorità delle Nazioni Unite in Kosovo stesse progressivamente riducendosi a causa anche di alcuni scandali nei quali erano rimasti coinvolti esponenti dell’UNMIK.
In seguito il Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan nominava il diplomatico finlandese Marti Ahtisaari quale inviato speciale incaricato di coordinare i colloqui dai quali si sarebbe dovuto stabilire il futuro status del Kosovo, mentre i sei Paesi del “Gruppo di Contatto” – Stati Uniti, Russia, Francia, Italia, Regno Unito e Germania – in un documento indicavano quali sarebbero state le linee – guida della comunità internazionale nelle trattative, ovvero la conformità ai principi ed ai valori democratici europei, il rispetto dei diritti per le minoranze insieme alla protezione dei luoghi santi serbi, la decentralizzazione e l’autonomia per le amministrazione locali unitamente alla conservazione dell’integrità territoriale della regione.


[1]La loro testimonianza, per esempio, valeva meno di quella di un musulmano e non potevano portare armi; ma la discriminazione poteva anche avere effetti pratici non del tutto negativi: l'entità delle multe comminate agli infedeli era la metà di quella prevista dalla legge islamica.
agli infedeli era la metà di quella prevista dalla legge islamica.
[2]G. Veinstein, L'Islam ottomano nei Balcani e nel Mediterraneo, in Storia d'Europa (Vol. IV), Torino,
Einaudi, 1995, p. 68.
[3] Enrico Bartok, Kosovo:Le ragioni di una tragedia, Milano, Nuove Edizioni Swan, 1999, p. 19.
[4] Jože Pirjevec, Serbi, Croati, Sloveni di tre nazioni, Bologna, Mulino, 2002, pp. 16-17.
[5] Malkolm Noel, Storia del Kosovo: dalle origine ai giorni nostri, Milano, Paperback, 1999, p. 23.
[6] Enrico Bartok, Kosovo:Le ragioni di una tragedia, Milano, Nuove Edizioni Swan, 1999, p. 22.
[7] Lega di Prizren – Lidhja e Prizrenit
[8] Malkolm Noel, Storia del Kosovo: dalle origine ai giorni nostri, Milano, Paperback, 1999, p. 259.
[9] Armando Pitassio, La lunga tragedia del Kosovo, “ Europa/Europe”, VIII, 1999/3, p. 11.
[10] Antonello Biagini, Storia dell΄Albaniadalle origini ai giorni nostri, Milano, Bompiani, 1998, p. 97.
[11]Thomas Benedikter, Il dramma del Kosovo: dall΄origine del conflitto fra serbi e albanesi agli scontri di oggi. Roma, Datanews Editrice, 1998, cit., p.32.
[12] http://www.volint.it/areavolint/educazione/aereetematiche/schede/paesi/kossovo.htm
[13]Thomas Benedikter, Il dramma del Kosovo..., cit., p.42
[14] Roberto Morozzo Della Rocca, Kosovo; le ragioni di una crisi, “ Limes ” , Vl, 1998/3, p.90


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