1.3 I Balcani durante l’impero
ottomano
L'Impero
impose ai territori già serbi conquistati nuove regole in campo fiscale, amministrativo
e giuridico, riuniti nel sistema feudale ottomano. I cristiani e gli ebrei,
sudditi di second'ordine ma pur sempre “popoli del Libro”, mantennero
senz'altro uno status subalterno e soggetto a discriminazione[1],
ma non subirono persecuzioni, salvo che in alcune fasi di crisi. Anzi, in base
al sistema del Millet, formalmente essi erano “infedeli protetti”, e dunque
autorizzati a conservare e praticare la loro religione e a godere di una certa autonomia
in materia di diritto privato, purché tutto avvenisse con una certa
discrezione. Sembra insomma che “l'instaurazione del regime ottomano in
Europa orientale abbia comportato, più che l'islamizzazione di questa
parte del continente, una coesistenza plurisecolare tra islam e
cristianesimo ortodosso”[2]19. Caratteristica
saliente dello Stato ottomano era la sua vocazione all'espansione territoriale;
strumento essenziale del suo agire era dunque la guerra. Ai sudditi si poteva
garantire anche un certo grado di tolleranza religiosa e culturale a patto che
non venissero meno i due elementi essenziali per la politica imperiale: i
soldati, musulmani, ed il denaro per pagarli, drenato mediante un regime
fiscale discriminatorio dai non musulmani. Può risultare interessante, a
conferma della vocazione della Penisola balcanica ad ospitare comunità di
origini anche molto eterogenee, rilevare come proprio lì si stanziarono
numerosi ebrei sefarditi cacciati dalla Spagna alla fine del XV secolo,
evidentemente accolti dalle autorità ottomane e dalle popolazioni locali senza l'ostilità
che avevano conosciuto nel resto d'Europa. La società serba conobbe comunque
una radicale trasformazione sin dai primi anni del dominio turco. Anzitutto si
estinse la classe aristocratica che aveva guidato e comandato il resto della
popolazione, dal momento che tutti i suoi membri che non furono uccisi, o
furono assimilati nel nuovo sistema di potere o fuggirono disperdendosi. Ma se
in questo modo veniva meno uno dei pilastri della vita sociale serba forgiata
da sveti (“santo”) Sava, rimaneva immutato, se non accresciuto, il
potere del secondo, la Chiesa ortodossa, per necessità e spregiudicatezza da
allora in avanti difensore e a tratti forgiatrice dell'autentica identità
serba. Fu così che si modellò la configurazione sociale che avrebbe
accompagnato la vita dei Balcani meridionali fino al XIX secolo, con la
popolazione slava autoctona maggioritaria ma disseminata per le campagne ed
emarginata dalla vita istituzionale, e una classe dirigente ottomana che, dalle
città fortificate, amministrava le terre del sultano. Nel primo secolo di
dominazione ottomana la vita urbana kosovara subì un notevole impulso. Le
città, sede del potere civile, conobbero un importante aumento della
popolazione e le corporazioni di mestiere che sorsero al loro interno ne
regolarono ampi settori della vita economica e politica. Soprattutto in ambito
cittadino, a partire dal XVI secolo prese piede un diffuso processo di
islamizzazione di cristiani autoctoni. Non si trattò, nella maggioranza dei casi,
di scelte coatte, imposte dai dominatori. Fu semmai un processo intrapreso da
quei sudditi che dall'abbracciare la fede in Allah avevano molto da guadagnare.
Tra loro anzitutto si segnalavano gli schiavi, in genere prigionieri di guerra,
che mediante la conversione potevano venire parzialmente emancipati. Per tutti
gli altri il vantaggio immediato conseguente al cambio di fede consisteva in
una riduzione del carico fiscale e comunque nell'ascesa al rango di askeri,
ossia membri della classe militare e amministrativa. A seconda dei casi queste
scelte furono dovute a un desiderio di promozione sociale, all'ambizione di
entrare a far parte dello strato dominante; all'intento di ottenere un alleggerimento
fiscale (senza contare che i nuovi convertiti ricevevano ritualmente dei regali
dalle autorità); ma anche – perché no? – ad autentica convinzione religiosa. [...]
Per motivi controversi e non del tutto chiariti – ma in ogni caso non attinenti
a forme di coscrizione dei conquistatori – alcune zone hanno fatto registrare spostamenti
assai più consistenti [della media]. In Albania l'islamizzazione concerne il
territorio nel suo complesso [...] sino a rendere il paese prevalentemente musulmano,
ma solo dopo molti secoli di dominazione ottomana20.
Con
la riduzione alla marginalità del credo cristiano, viene meno ciò che aveva rappresentato,
in assenza di qualsiasi struttura istituzionale, il principale elemento di coesione
dell'identità albanese nei secoli precedenti; declina con esso anche la
“vocazione” a mantenere una difficile (e spesso dovuta all'opportunismo della
classe nobile) posizione d'equilibrio tra l'occidente cattolico e la complessa
realtà bizantina. La Chiesa ortodossa serba, che aveva conosciuto la morte del
suo ultimo patriarca Artemije nel 1463, si era ritrovata sotto l'autorità
dell'arcivescovo di Ohrid, nonostante l'opposizione dei vescovi del nord della
Serbia, guidati dal vescovo Pavle, artefice della
cosidetta
“ribellione della Chiesa serba”. Nel 1459 il sultano aveva soppresso l'autocefalia
della Chiesa serba, nell'intento, esplicitamente antipapista, di rafforzare
l'egemonia del patriarca di Costantinopoli su tutti i popoli slavi,
allontanandoli così da ogni lusinga proveniente dai paesi cattolici. Solo nel
1557 il gran visir d'origine serbo-erzegovese Mehmed Sokolović intervenne
presso il sultano affinché il patriarcato a Pejë/Peć fosse ripristinato, e ne
affidò il vertice a suo fratello Makarije; questo fatto, che può risultare piuttosto
sorprendente, si spiega in realtà con l'interesse dello Stato ottomano [ad]
instaurare migliori relazioni con i suoi sudditi ortodossi, ora che le
principali potenze nemiche schierate contro l'impero erano tutte cattoliche
romane. Un patriarca dipendente dalla benevolenza ottomana sarebbe stato un
utile strumento di controllo21. Il patriarca Makarije riorganizzò in maniera
profonda la Chiesa ortodossa, esaltandone la gratitudine nei confronti della
dinastia Nemanjić le cui gesta furono affiancate agli episodi biblici più
frequenti sui muri delle chiese serbe, tra le quali le più antiche furono
ristrutturate ed ampliate. Man mano che il dominio ottomano si faceva più duro,
l'epoca di quegli antichi re “veniva sempre più ricordata come l'età
dell'oro. L'aspra realtà del feudalesimo veniva dimenticata e le
glorie dell'impero di Dušan consacrate, come la memoria di Lazar e dei suoi
nobili cavalieri”22. Nonostante le inevitabili difficoltà affrontate per
secoli, la Chiesa ortodossa avrebbe mantenuto in vita l'idea di “serbità” sotto
i turchi; in virtù di questa operazione la grande maggioranza dei serbi, a
differenza di molti popoli confinanti privi di una forte chiesa nazionale, come
bosniaci e albanesi, mantennero il loro credo ortodosso fondamentale alla loro
identità. D'altro canto, l'episodio della nomina di Makarije illustra pure con
chiarezza come l’istituto ottomano del devişirme – ovvero il
reclutamento coatto di bambini cristiani provenienti dai domini periferici al
fine di portarli nella capitale dove avrebbero ricevuto un'istruzione islamica
di alto livello, premessa al loro accesso alla carriera militare (nel corpo dei
giannizzeri e nella guardia del corpo del sultano) o civile23, come nel caso in
questione – costituisse senz'altro una crudeltà nei confronti dei genitori che
si vedevano spogliati di un figlio, ma allo stesso tempo rappresentasse,
all’interno della rigida struttura sociale dell'Impero, uno dei pochi canali di
mobilità verticale; inoltre non sradicava completamente i futuri alti
funzionari dal loro contesto familiare e geografico d'origine e non era del
tutto impermeabile a criteri meritocratici. Infine l’episodio “ci mostra
come nello stato ottomano la supremazia dell'Islam, oltre che tollerare
un gerarchizzato pluralismo confessionale, implicasse pure l'assoluta
irrilevanza di qualsiasi distinzione su base etnica fra sudditi
verocredenti”24. Da un punto di vista demografico, il primo periodo di
dominazione turca in Kosovo è caratterizzato da un'evidente avanzata della
presenza dell'elemento albanese. I motivi alla base di questa “comparsa”,
piuttosto repentina se comparata al fatto che “gli albanesi hanno certamente
avuto una presenza continua in questa regione. Ma ogni evidenza suggerisce che,
nel Kosovo medievale, furono solo una minoranza”25, sono aspramente
dibattuti in ambito storiografico. Da parte serba si sostiene prevalentemente
che si trattò di un fenomeno di immigrazione di massa, mentre da parte albanese
si ritiene che soltanto in questa epoca finì una forzata “invisibilità” dovuta
alla slavizzazione dei dati anagrafici compiuta dalla Chiesa ortodossa,
autorità competente alle registrazioni nello Stato serbo medievale,. L'apice
dell'espansione ottomana si toccò nel 1571, quando, dopo la battaglia di Lepanto,
i turchi presero possesso anche delle città montenegrine di Bar e Ulcinj sul
litorale adriatico. Ma già nel 1585 il governo turco riduceva del 40% il
contenuto d'argento delle monete coniate, mantenendone inalterato il valore
nominale. Quando, quattro anni dopo, i giannizzeri ricevettero le retribuzioni
con questa nuova moneta svalutata, scatenarono una rivolta. Si usa individuare
in questo evento simbolico l'inizio del declino dell'Impero ottomano “dato
che combina la quintessenza dell'incompetenza amministrativa, della ribellione
violenta e, soprattutto, dell'insaziabile fame di denaro”26proprie dei
protagonisti della sua vita politica. Ciò che ne conseguì in periferia fu
l'allargamento, per tutto il corso del XVII secolo, degli ampi spazi di
arbitrarietà dei governanti locali. A ciò si aggiunse la diffusione di pratiche
come la vendita delle cariche pubbliche (in breve estesa anche agli uffici più
prestigiosi dell'apparato statale turco e addirittura alle nomine di vertice
della Chiesa ortodossa serba) e la vendita per appalto dell'esazione
tributaria; un profondo cambiamento investì anche l'assetto della proprietà
terriera e, come è facile intuire, nel nuovo sistema peggiorarono le condizioni
di vita dei contadini. Infine il fatto che le guerrecondotte in questa fase dai
sultani vedessero l'Impero opporsi alle potenze cristiane, spiega perché i sudditi che
conobbero le peggiori vessazioni fossero proprio quelli non aderenti alla religione
di stato. In un contesto di tal specie non sorprende che le rivolte locali o
regionali, parte delle quali in Kosovo, aumentassero significativamente. Ma il
fatto che, nonostante gli appelli e le trattative segrete, nessuna di esse
ottenesse l'appoggio di qualche potenza straniera (e cristiana) ne impedì
qualsiasi ripercussione sulla tenuta dello Stato ottomano. L'evento che segnò
un passaggio cruciale per tutta la regione balcanica fu il ritorno tra le fila
delle potenze candidate al controllo dell'area dell'Austria asburgica - a più
di un secolo di distanza dal primo tentativo di imporsi - con la guerra che
vide contrapposto l'Impero turco a quello degli Asburgo tra il 1683 e il 1699.
L'assedio ottomano di Vienna del 1683 fece per alcuni mesi temere che la
potenza cattolica capitolasse, ma il contrattacco scatenato da una coalizione
austro-polacca obbligò i turchi alla ritirata e l'inseguimento che ne scaturì la
trasformò in una rotta disastrosa. Nel settembre 1688 gli austriaci prendevano
possesso della fortezza di Belgrado, posizione strategica decisiva per il
controllo dei territori posti a sud del Danubio e della Sava; quindi,
interpretando in maniera piuttosto elastica le direttive di Vienna che ordinava
ai propri generali una strategia difensiva per il consolidamento delle posizioni
fin qui conquistate, le truppe austriache entrarono a Niš l'estate seguente27.
Nel 1689 un esercito imperiale di dimensioni ridotte invase il Kosovo, cacciò i
presidi turchi e ricevette l'accoglienza che si riserva ai liberatori da parte
della popolazione locale. Una simile disfatta scatenò un vero e proprio
terremoto politico a Istanbul che costò la vita al comandante sconfitto
dell'esercito e l'incarico al gran visir che fu sostituito da Mehmed Köprülü,
uomo di grandi capacità strategiche, discendente di una prestigiosa dinastia albanese
di funzionari ottomani. Costui riuscì ad organizzare già nel 1690 una
spedizione affidata in prevalenza a truppe tatare che mise in fuga gli
austriaci dal Kosovo, dove i soldati del sultano si abbandonarono a feroci
rappresaglie e a saccheggi su vasta scala. L'inseguimento delle truppe
imperiali proseguì prima verso Niš e quindi fino a Belgrado; s'accompagnava ai
soldati austriaci in ritirata un numero enorme di rifugiati serbi, in prevalenza
provenienti dal Kosovo e dalla Serbia meridionale, guidati dal patriarca di Pejë/Peć
Arsenije III. Questo terribile episodio è noto alla storia nazionale serba come
Velika seoba (“Grande migrazione”); ad esso si fa risalire il
momento culminante per la dinamica demografica del Kosovo: la fuoriuscita di centinaia
di migliaia di serbi “rimpiazzati” da altrettanti albanesi provenienti dalle
regioni confinanti. Ad accompagnare questa umanità disperata, timorosa di non
poter mai più rivedere i propri luoghi natii, le spoglie di Sveti Lazar,
trasportate dai monaci del monastero di Ravanica in una nuova località presso
Srem dove fu fondato, nel 1697, il monastero di Sremska Ravanica. Belgrado
resistette all'assedio turco solo dodici giorni. Quando, all'inizio
dell'ottobre 1690, una granata lanciata dagli assedianti colpì la santabarbara
principale della fortezza, l'intera cittadella fu rasa al suolo. I rifugiati
serbi accampati attorno alla fortezza decisero allora di passare il Danubio e
cercare scampo in Ungheria, dove affrontarono l'inverno in condizioni disperate.
Le perdite umane sembrano essere state ingenti. “Una tradizione successiva
e non priva di seguito doveva erroneamente affermare che i serbi furono
invitati dall'imperatore a lasciare le loro terre, per ritirarsi in
territorio asburgico, colla promessa del suo favore: in realtà essi
emigrarono a nord proprio a causa della sua sconfitta”28. La pace di
Karlowitz del 1699 avrebbe posto fine al conflitto. Sebbene l'accordo
ratificasse il controllo turco dei Balcani, esso sanciva pure il passaggio dei
domini ungheresi e transilvani da Istanbul all'Austria, e formalizzava il primo
ridimensionamento dell'Impero ottomano, costretto ormai a sud del Danubio. “Le
terribili rappresaglie compiute dalle forze ottomane e tatare facevano parte di
una deliberata politica d'intimidazione”29 e durarono fino al
settembre successivo, quando fu varata un'amnistia estesa anche a chi si era
compromesso con gli Asburgo. L'anno seguente il sultano autorizzò la nomina di
un nuovo patriarca di Pejë/Peć. Dal momento che Arsenije non rinunciò durante
l'esilio al suo titolo, che anzi gli fu riconfermato dall'Imperatore Leopoldo I
a garanzia della sua protezione, tra il 1691 e il 1706 la Chiesa serba ebbe due
patriarchi. In seguito i successori di Arsenije mantennero il titolo di metropolitani,
con sede a Sremski Karlovci nella Vojvodina sotto controllo asburgico, ma,
benché garantiti dagli Asburgo nel mantenimento delle prerogative e dei diritti
spirituali e temporali ottenuti in precedenza dagli ottomani, erano tuttavia
impotenti tanto quanto il patriarca gradito ad
Istanbul
di fronte all'ondata di islamizzazione, anche forzata, che caratterizzò il
Kosovo nel ventennio successivo alla Velika seoba. Le ostilità con
l'Austria erano destinate a riprendere ben presto: per gli imperatori asburgici
i territori a sud del Danubio e nell'entroterra balcanico erano obiettivi
strategici sempre più irrinunciabili man mano che l'Impero ottomano tradiva una
crescente fatica a difendere i propri confini. Tra il 1716 e il 1718 una guerra
combattuta al fianco di Venezia garantì agli austriaci il possesso di Belgrado,
avamposto insostituibile sulla sponda meridionale del Danubio. Questo evento
consentì l'apparizione sulle coeve mappe politiche di un'entità statuale
chiamata Regno di Serbia; si trattava del ritorno sulla scena della politica internazionale
dopo un'assenza cominciata nel Medioevo. Ma fu una comparsa di breve durata:
quando nel 1736 l'Austria combatté alleata con la Russia una nuova guerra
contro l'Impero ottomano, lo Stato maggiore asburgico pianificò per l'anno
successivo un'avanzata a partire da Belgrado verso tutta la Serbia meridionale,
la Bosnia e l'Albania settentrionale. Ad agosto truppe austriache occuparono
Novi Pazar e Pristina, ma furono presto ritirate a causa di un rovescio subito
dagli imperiali sul fronte bosniaco. L'unica posizione rimasta in mano loro era
l'area di Niš. Su di essa conversero tutte le forze austriache, rinforzate da
un contingente serbo-albanese proveniente dal Kosovo forte di tremila uomini,
guidato dal patriarca Arsenije IV e composto in prevalenza da membri del clan
cattolico albanese Kelmendi; ma in ottobre il fronte cedette. Quanti conoscono
l'inestricabile e, in ragione di ciò, straordinario groviglio etnico che caratterizza
l'area geografica in analisi non potranno non trovare interessante il fatto
che, dopo la rotta, il patriarca ed i Kelmendi fuggirono a nord, dove questi
ultimi raggiunsero il territorio asburgico [e] finirono per essere inseriti
come soldati nella “Frontiera militare” austro-ungarica; a loro e alle loro
famiglie furono concessi due villaggi, Hrtkovci e Nikinci nella regione di Srem
a ovest di Belgrado. [...] avrebbero mantenuto la loro lingua e cultura
per generazioni, trasformandosi solo gradualmente in croati30. Ancora
una volta, la rappresaglia ottomana sulle popolazioni dei territori interessati
all'invasione fu feroce, si registrarono nuove conversioni forzate e un'ondata
di deportazione e riduzione in schiavitù. Nel 1740 il sultano insediò a capo
della Chiesa ortodossa serba il primo dei patriarchi greci fanarioti; ciò aprì
le porte all'ultima fase della vita del patriarcato di Pejë/Peć, punito per la
sua compromissione con gli Asburgo, un periodo caratterizzato da diffusa
corruzione che lo condusse ad essere assorbito nel sistema clientelare del
patriarcato greco di Costantinopoli. Questo mutamento al vertice della Chiesa
portò nel 1766 alla chiusura del patriarcato serbo e alla confluenza di tutte
le diocesi sotto Costantinopoli. Il titolo e la sede patriarcale sarebbero
stati ripristinati solo nel 1920 a Pejë/Peć. La
regione del Kosovo fin dai tempi degli Illiri è stata popolata dalla popolazione
albanese.
L’origine degli albanesi
A partire dal XII secolo la zona venne progressivamente occupata
dal popolo slavo dei serbi, che sotto il regno dello zar Stefan Dušan, tra il
1331 ed il 1355, raggiunse il massimo splendore e la massima estensione
territoriale[3]. Il
giorno di San Vito del giugno 1389,
a Kosovo Polje (Campo dei merli), vicino a Prishtina, si
svolse l’epica battaglia, che vide contrapporsi l’esercito serbo contro quello
ottomano[4].
La sconfitta inflitta dai Turchi ai Serbi segnò la fine del regno medioevale
serbo e l’inizio della dominazione turca della zona[5].
1.2 I Balcani nell’impero ottomano
A partire dal XV secolo, sotto il dominio dell'impero ottomano,
il Kosovo ha vissuto un periodo iniziale di fioritura economica, dovuta
soprattutto alle sue risorse minerarie e al fatto di essere attraversato da vie
di comunicazione allora importanti. Tale periodo tuttavia è cessato tra il XVII
e il XVIII secolo nel contesto generale di crisi economica e sociale dell'impero,
che in Kosovo ha preso forme particolarmente acute. Nel 1867, nell'ambito di
una riforma territoriale dell'impero ottomano, venne creata una grande unità
amministrativa, il vilayet di
Prizren, che comprendeva interamente l’odierno Kosovo, più le regioni di Diber,
Shkup e Niš (tutte a maggioranza o a forte presenza albanese). Nel 1878, dopo
il congresso di Berlino, la
Serbia diventò un principato autonome rientrando nella sfera
d’influenza dell’impero Asburgico. Il Kosovo rimase invece una provincia
dell’impero ottomano[6].
Nel 10 giugno 1878, un gruppo di intellettuali, nell'ambito del
risveglio nazionale albanese, creano la “Lega di Prizren”[7],
il cui obiettivo era di lottare per l'autonomia territoriale degli albanesi, ma
che inizialmente, visti i timori delle ali più conservatrici, si impegnò solo a
impedire l'occupazione da parte di eserciti stranieri e dichiarò fedeltà al
sultano. Nel 1880, la Lega
si dichiarò "governo provvisorio dell'Albania”, rivendicando uno stato
autonomo e assumendo il controllo del Kosovo e della Macedonia occidentale,
ponendo la “questione albanese” all’attenzione dei governi e della comunità
occidentale. La risposta del Governo ottomano alle istanze indipendentiste fu
la riconquista dei territori "autonomi" e la messa al bando della
Lega di Prizren, che tuttavia continuò ad esistere seppur in forma illegale[8].
Ai primi del '900 si intensificano le mire delle grandi potenze verso i Balcani.
È in questo contesto che nel 1912 si ebbe una massiccia insurrezione da parte
degli albanesi, che arrivarono a conquistare Skopje, chiedendo l’unificazione
dei territori albanesi dell'impero ottomano, una loro amministrazione autonoma
e la creazione di un sistema educativo in lingua albanese. Tutte le loro
richieste vennero accettate, ma non vi fu il tempo per applicarle, perché meno
di due mesi dopo il Kosovo fu invaso e occupato da truppe serbe.
Il conflitto tra serbi e albanesi deve essere inquadrato in questo
contesto. Quando la Serbia
e il Montenegro, al termine delle guerre balcaniche, si impossessarono del
Sangiaccatto, della Macedonia, del Vadar, del Kosovo e della Metohija, si
trovarono ad amministrare province con una forte presenza di popolazione slavo-musulmana
e albanese[9].
Dal 1912 al 1918 l 'intera
regione, tra guerre balcaniche e prima guerra mondiale, rimase in uno stato di
guerra permanente, con continui rovesciamenti di fronte, che vedranno il Kosovo
occupato prima dai serbi, poi dagli austriaci e dai bulgari e, infine, di nuovo
dai serbi. L'intenzione della Serbia era quella di estendersi militarmente fino
alla costa adriatica, a Durazzo, ma l'opposizione di Austria e Italia porterà
alla creazione di uno stato albanese. Il 28 novembre 1912, il Congresso Nazionale
Albanese riunito a Vlorë (Valona), sotto la presidenza di Ismail Qemali,
proclamò l’indipendenza[10].
L’Albania del 1912 era risorta dopo cinque secoli di dominazione turca, ma
rimaneva privata, in buona parte, del territorio popolato da albanesi; i
cittadini del nuovo stato erano 800.000, mentre altrettanti ne rimasero esclusi,
e tra questi i kosovari[11].
La decisione fu il frutto di un compromesso, dopo che Francia e Russia si erano
opposte alla creazione di un'Albania comprendente anche il Kosovo e le altre
zone a maggioranza albanese. Infine, con il Trattato di Versailles del 1919
venne formalmente riconosciuta la dominazione serba sul Kosovo e sulla
Macedonia.
Dopo la prima guerra mondiale, per circa vent’anni il Governo
denominato "Regno dei Serbi, Croati e Sloveni", privò gli albanesi
dei diritti che sarebbero spettati loro come minoranza (come per esempio l’uso
della lingua madre), adottando una politica di espropri, violenze e
trasferimenti forzati verso la Turchia”[12].
I serbi ed i montenegrini, che costituivano circa il 20% della popolazione,
occuparono tutti i ruoli dirigenziali. Durante la seconda guerra mondiale la
regione fu sottoposta all'occupazione da parte dei nazisti, combattuti e
cacciati da parte del movimento di liberazione guidato dai nazionalisti serbi e
dai comunisti di Tito, dopo una sanguinosa guerra civile che coinvolse tutta la
regione balcanica. La regione del Kosovo, che non era mai stata ufficialmente riconosciuta come
parte dell’Albania, tornò a tutti gli effetti ad essere parte del territorio
jugoslavo, e per di più senza alcun tipo di riconoscimento, dal momento che
quando nel 1943, Tito pose le basi del futuro stato federale jugoslavo, i
rappresentanti del Kosovo non vennero interpellati[13].
1.2. Le radici del conflitto serbo albanese
In
seguito alla vittoria di Tito, la popolazione albanese fu inizialmente oggetto
di repressione da parte della polizia jugoslava (guidata da A. Ranković), che
provocò un flusso migratorio verso la Turchia. Nell’ambito della strategia di
Tito, volta ad evitare il proliferare del nazionalismo albanese, nel 1963 la
nuova costituzione jugoslava stabilì l'autonomia del Kosovo, a cui segui
l’introduzione di riforme in favore degli albanesi, in particolare nel settore
scolastico. Al miglioramento della situazione generale dei kosovari all’interno
della federazione jugoslava contribuì anche la estromissione del serbo Ranković
dall’incarico di Ministro dell’Interno nel 1966. Tito ritenne di affrontare in
altra maniera la tradizionale avversione degli albanesi per la Jugoslavia , (gli
albanesi erano, “nella Jugoslavia i meno jugoslavisti fra tutti i popoli”)[14];
concesse dunque al Kosovo uno status di “quasi repubblica”, appena temperato
dal fatto di rimanere formalmente una provincia autonoma nell'ambito della
Serbia. Padroni del Kosovo grazie alla schiacciante superiorità demografica sui
serbi, gli albanesi nel 1968 si autogovernavano disponendo di propri organi
esecutivi, di un parlamento, di polizia e magistratura autonoma da Belgrado, di
televisioni e strumenti culturali. Potevano anche esporre la bandiera albanese
di Skanderbeg15, accanto a quella federale. Avevano un sistema scolastico e
universitario in parte connesso a quello dell’Albania.
Disponevano
di una rappresentanza diretta negli organi federali, senza dipendere dagli
serbi. Nel 1969 il Parlamento serbo adottò una nuova costituzione per il
Kosovo, che prevedeva la creazione di un sistema giudiziario della provincia,
maggiori poteri di autonomia nell'amministrazione, la parità tra le lingue albanese,
serbo-croata e turca e la creazione dell'Università albanese di Prishtina, che
sarà negli anni seguenti un punto di riferimento anche per gli albanesi della
Macedonia e del Montenegro.
Nel
1974 il progetto di decentralizzazione a livello federale culminò con
l'approvazione
di una nuova Costituzione che fece delle province
autonome
del Kosovo e della Vojvodina16 soggetti federali con diritto di
14
Roberto Morozzo Della Rocca, Kosovo; le ragioni di una crisi, “Limes”,
VI, 1998/3, p. 90.
15
Gjergj Kastrioti Skenderbe, principe albanese (Krujë ca. 1400-Lezhë 1468).
16
Pitassio, La lunga tragedia del Kosovo…, cit., p. 14.
10
voto
all'interno della repubblica federale, decisione che provocò un forte
risentimento
da parte delle autorità serbe.
Nel
1980, in
seguito alla morte di Tito le istanze secessioniste si fecero
sempre
più forti, così come le repressioni violente degli scontri.
Alla
metà degli anni '80 il nazionalismo serbo era in piena risorgenza. I
serbi
erano stati parzialmente sacrificati da Tito che aveva applicato
l'assioma
“Serbia debole - Jugoslavia forte”17.
La
situazione iniziò a peggiorare a partire dal 1987, quando in Serbia
iniziò
l'ascesa al potere di Slobodan Miloševič, un burocrate della Lega dei
Comunisti.
Miloševič, che mai aveva avuto posizioni nazionaliste in
passato,
usò il Kosovo e le tematiche antialbanesi come trampolino di
lancio
per vincere la lotta per il potere in Serbia. I temi centrali del
risorgimento
nazionalista serbo furono sviluppati durante uno dei raduni,
quasi
quotidiani, del partito comunista, detti mitinsi, e aventi come oggetto
la
questione del Kosovo. Questi raduni assunsero la forma di una
mobilitazione
di massa del popolo serbo: furono presentati come adunate
assolutamente
spontanee, benché fossero in realtà organizzati dalle
strutture
del partito comunista, con il compiacente appoggio della polizia e
dell’esercito.
Ben presto, i mitinsi divennero il principale strumento
politico
per la realizzazione del programma di Slobodan Miloševič 18.
Alcune
delle tappe della riconquista serba del Kosovo furono:
17
Morozzo Della Rocca, Kosovo le ragioni di una crisi…, cit., p. 90.
18
Benedikter , Il dramma del Kosovo …, cit., pp. 69-72.
11
la
mobilitazione popolare per promuovere un reinserimento serbo nella Regione;
la
presentazione di un progetto serbo di riforme costituzionali per cancellare le
autonomie;
la
dura repressione degli scioperi e delle proteste albanesi nel marzo del '89;
il
raduno nel Campo dei Merli di un milione di serbi, 28 giugno 1989;
la
proclamazione dello stato di emergenza in Kosovo, presidiato massicciamente
dall’esercito
federale e dalla polizia serba;
le
modifiche costituzionali, approvate nel luglio 1990, che abolivano lo status di
provincia
autonoma del Kosovo, sciogliendo gli organi istituzionali provinciali.
1.3. La strategia non violenta di Ibrahim Rugova19 e L’UÇK20
La
riforma della costituzione serba del '89, abolì le province autonome
attuando
una maggiore centralizzazione del potere statale, che cancellò
ogni
tutela per la lingua per la cultura degli albanesi.21
Al
fine di rafforzare la presenza serba nella provincia, furono emessi dopo
l'89
numerosi decreti legge e approvati regolamenti amministrativi
fortemente
discriminatori nei confronti degli albanesi22.
In
risposta all’azione di repressione posta in atto dalle autorità di Belgrado,
alla
fine del 1989, fu ufficialmente fondato quello che sarebbe rapidamente
diventato
il partito d’identificazione etnica degli albanesi23: la LDK 24, di
19
Nato nel 1944, da una famiglia di agricoltori moderatamente nazionalista
proveniente dalla regione di
Rugova
e molto nota. Compie i suoi studi a Peja e si laurea in letteratura albanese a
Prishtina, quindi
lavora
come insegnate, come giornalista e come ricercatore nella stessa Università.
20
Ushria Çlirimtare e Kosoves: Esercito di Liberazione del Kosovo
21
Antonello Biagini, Alle origini della crisi del Kosovo, “Europa/Europe”,
VIII, 1999/4, p. 28.
22
Jože Pirjevec, Le guerre jugoslave 1991-1999, Einaudi, Torino, 2001, p.
555.
23
Luciano Bozzo e Carlo Simon-Belli, La “Questione Illirica”. La politica
estera italiana in un’area di
instabilità: scenari di crisi e metodi di risoluzione, Milano, Franco Angeli, 1997,
p. 91.
24
Lidhjes Demokratike te Kosovës - Lega Democratica del Kosovo.
12
cui
divenne leader l’intellettuale Ibrahim Rugova, professore di letteratura
albanese
e scrittore. La politica perseguita da Rugova e dalla LDK, per
tentare
di risolvere la questione del Kosovo, poggiava le proprie basi su
una
duplice linea d’azione. All’interno, una strategia di resistenza nonviolenta
nei
confronti della repressione serba si accompagnava alla
negazione
sistematica della legittimità del governo di Belgrado;
all’esterno,
invece, l’internazionalizzazione del problema kosovaro, vale a
dire
la ricerca di diverse forme di coinvolgimento politico internazionale,
doveva
condurre al riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo.
La
consultazione referendaria tenutasi il 26-30 settembre 1991, a cui
partecipò
l’87,01% degli abitanti del Kosovo, portò alla proclamazione
unilaterale
della Repubblica del Kosovo, con il 99,87% di suffragi a
favore
dell’indipendenza.25
Rugova
istituì un governo in esilio, (che venne riconosciuto solo dal
governo
di Tirana 26), a capo del quale nominò Bujar Bukoshi. Questi si
installò
a Stoccarda per propagandare presso i governi e l'opinione
pubblica
europea la causa kosovara e imporre ai circa mezzo milione di
connazionali
emigrati all'estero una tassa del 3% sui loro redditi, che servi
per
ricostruire uno stato parallelo o “stato ombra”27.
Nonostante
le minacce della polizia, il 24 maggio 1992 la leadership
kosovara
organizzò elezioni clandestine, vinte con voto plebiscitario della
25
Morozzo Della Rocca, Kosovo le ragioni di una crisi…, p. 92.
26
Osvaldo Croci, Dovere, umanitarismo e interesse nazionale. L’Italia e
l’intervento della Nato in
Kosovo,
“Politica in Italia”, Bologna, Mulino, 2000, p. 111.
27
Pirjevec, Le guerre jugoslave…, cit., pp. 554-559.
13
LDK,
mentre il suo leader venne eletto Presidente della Repubblica con
oltre
il 90% dei suffragi.28
Il
governo centrale di Belgrado sconfessò i risultati del referendum e delle
successive
elezioni presidenziali allo scopo di ribadire l'appartenenza della
provincia
alla Serbia.
Gli
anni tra il 1989 e il 1992 sono anni euforici per i serbi che pensano di
potere
riappropriarsi del Kosovo. Gli albanesi vengono allontanati dai
posti
pubblici, che vengono dati ai serbi29.
Rugova
divenne presto una figura nota a livello internazionale, come
“Gandhi
dei Balcani”. La sua non violenza fu dovuta a ragioni ideologiche,
ma
anche a necessità reali; appariva evidente, infatti, che qualsiasi
tentativo
di rivolta armata contro il dominio serbo avrebbe provocato un
bagno
di sangue, data la grande disparità delle forze in campo. A
differenza
di altri leader albanesi come Adem Demaçi e Rexhep Qosja, che
invitavano
gli albanesi a temerarie sfide al potere serbo, Rugova rivelò una
certa
sensibilità umanitaria, per quanto glielo consentisse la durezza del
confronto
etnico.
Contemporaneamente
il governo di Miloševič, impegnato indirettamente in
Bosnia
e stretto dall'embargo economico, di fatto tollerava che nel Kosovo
si
istituisse una struttura statuale albanese parallela, in forma di
associazione
privata.30
28
Ivi, p. 557.
29
Morozzo Della Rocca, Kosovo le ragioni di una crisi…, cit., p. 93.
30
Pitassio, La lunga tragedia del Kosovo…, cit., p. 16.
14
I
kosovari, nello scegliere la resistenza passiva, svilupparono una linea di
condotta
non priva di metodo: le autorità albanesi rinunciarono a chiedere
il
pagamento delle tasse, a riscuotere le bollette dell'acqua, della luce e del
gas,
e perfino ad arruolare i giovani di origine albanese nell'esercito.
Sfruttando
il personale licenziato dai serbi, crearono uno “Stato ombra”
dotato
di tutte le essenziali strutture politiche, culturali, sociali, mediche e
d’informazione.
Si trattava naturalmente di istituzioni carenti sul piano
dell'efficienza,
costrette com'erano a operare in condizioni precarie e di
semi
clandestinità, che spesso non furono in grado di far fronte a situazioni
di
emergenza31.
Lo
“stato parallelo” fu finanziato con le rimesse che gli albanesi kosovari
all'estero
mandavano in Kosovo e con contributi di un’economia parallela,
in
parte basata su piccole attività commerciali cresciute negli anni di crisi,
e
in parte su attività criminali.
Questa
strategia di non collaborazione fece diminuire il livello di scontro
diretto
tra autorità serbe e popolazione albanese-kosovara. In questo modo
la
repressione serba da un lato e la strategia della non collaborazione dei
leader
albanesi-kosovari dall’altro daranno vita a un sistema di
segregazione.
Negli anni Novanta si svilupparono in Kosovo due società
parallele
che trovarono, fino al 1995, il modo per convivere una accanto
all'altra
senza scontri diretti.
Questa
strategia tuttavia non riuscì a costruire sbocchi positivi al conflitto.
31
Pirjevec, Le guerre jugoslave…, cit., p. 557-558.
15
La
scelta dello stato parallelo impedì ai leader kosovari-albanesi di
stringere
alleanze o di costruire occasioni di dialogo con gli oppositori
serbi
del governo di Miloševič. L'unico obiettivo politico fu quello di
attirare
l'attenzione internazionale e guadagnare l'appoggio delle potenze
occidentali.
Dopo
gli accordi di Dayton del novembre 1995, che misero fine alle guerre
in
Croazia e Bosnia, “e che non facevano alcun cenno alla provincia del
Kosovo”32,
il fallimento di questa strategia diventò evidente.33 I confini
internazionali
della nuova Jugoslavia erano stati riconosciuti dalle potenze
occidentali
e il Kosovo ne faceva parte. Il consenso attorno alla strategia
della
non-collaborazione della LDK cominciò a erodersi tra gli albanesi del
Kosovo.
Soprattutto gli studenti premevano per passare a forme di
resistenza
più attive: come proteste, manifestazioni, occupazioni di scuole
e
di strutture pubbliche. Le proteste, durante il 1996 e il 1997, furono
continue.
La LDK vide
criticare queste nuove forme di protesta e temette
di
perdere il controllo sulla società. Intanto il muro contro muro tra autorità
serbe
e opposizione albanese non veniva superato.
Tra
la fine del 1995 e la fine del 1997 un’organizzazione prima
sconosciuta,
l’Uçk rivendicò numerosi ma comunque isolati attentati
contro
esponenti delle istituzioni serbe in Kosovo e contro cosiddetti
"collaborazionisti"
di lingua albanese. L'Uçk decise di rispondere con la
32
Pirjevec, Serbi, Croati, Sloveni…, cit., p. 77.
33
Morozzo Della Rocca, Kosovo le ragioni di una crisi…, cit., p. 99.
16
violenza,
alla violenza dello stato, rivendicando nel suo “Comunicato n. 1”
gli
attentati commessi, nella convinzione che senza lotta e senza sacrifici
non
sarebbe stato possibile liberare la patria34. L’Uçk definì ben presto la
propria
fisionomia di movimento di resistenza locale, le cui finalità erano
la
protezione della popolazione di etnia albanese dagli attacchi serbi,
l’unità
nazionale e la liberazione del Kosovo.
L’entrata
in scena dell’Uçk, manifestatosi completamente solo dopo la
conclusione
degli Accordi di Dayton, mise definitivamente in crisi la
strategia
della resistenza passiva adottata dalla LDK. L’atteggiamento di
Rugova
nei confronti dell’Uçk fu inizialmente caratterizzato da una certa
dose
di diffidenza. Egli era convinto, infatti, che, dietro gli attentati
rivendicati
dall’Uçk, vi fossero degli agenti provocatori, appartenenti ai
servizi
segreti di Belgrado. Per gli oppositori del leader albanese, questo
non
fu che l’ennesimo segnale della sua ormai evidente incapacità di
interpretare
la realtà in costante divenire del Kosovo. Nonostante ciò, il 22
marzo
1998, Rugova fu rieletto presidente della “Repubblica del Kosova”.
È
proprio l’Uçk che agli inizi del 1998 intaccò l'equilibrio della paura che
aveva
congelato la situazione del Kosovo. Il gruppo fece conoscere
inizialmente
per l'eliminazione di albanesi collaborazionisti dei serbi e per
attentati
contro le forze di polizia. In due anni eliminò una trentina tra
collaborazionisti
e poliziotti, finché l'uccisione di due militi, il primo
34
Pirjevec, Le guerre jugoslave…, cit., p. 561.
17
marzo
1998, scatenò una brutale repressione serba35.
Il
28 febbraio 1998, nei villaggi di Likosani e Cirez, nel Kosovo, in scontri
tra
polizia e dimostranti muoiono 16 persone. Il 5 e 6 marzo la polizia
serba
uccide 58 albanesi durante operazioni nella regione di Drenica per lo
più
vecchi, donne e bambini, Ucciso anche il leader dell’Uçk, Adem
Jashari.Il
massacro di Drenica, posero la questione del Kosovo
all’attenzione
dell’opinione pubblica internazionale, mentre migliaia di
giovani
albanesi iniziarono e prendere le armi e a combattere con l'Uçk36.
Dopo
Drenica, ogni azione militare serba in Kosovo, pur motivata dalla
presenza
reale dei guerriglieri dell'Uçk, produsse per qualche tempo due
effetti
contrari agli interessi serbi: indusse un maggior numero di albanesi
ad
armarsi, e internazionalizzò la questione del Kosovo secondo le
speranze
degli albanesi.
Sembrava
comunque che l'Uçk e la linea della lotta armata dovessero
rimanere
dei fenomeni marginali.
La
controffensiva delle forze serbe nella tarda estate del 1998 ebbe degli
effetti
devastanti per la popolazione civile: mentre i combattenti albanesi si
ritiravano,
interi paesi furono rasi al suolo, gli abitanti albanesi di queste
zone
furono minacciati ed espulsi dalle loro case. Molti civili dovettero
rifugiarsi
nelle montagne, altri si diressero verso l’Albania. I serbi
riconquistano
gradualmente i territori precedentemente persi. L'estate di
35
Morozzo Della Rocca, Kosovo le ragioni di una crisi…, cit., p. 97.
36
Pirjevec, Le guerre jugoslave…, cit., p. 564.
18
guerra
del Kosovo fece registrare circa 500 morti, mentre i profughi, che
avevano
abbandonato le loro case, erano circa 300 mila. Concretamente i
guerriglieri
non potevano supporre di sconfiggere l'esercito jugoslavo
anche
se “i balcanici non avviano le guerre perché pensano di vincerle”37.
La
loro speranza era quella di provocare un intervento occidentale,
americano
o della Nato, dopo aver acceso i riflettori dei media
internazionali
sul Kosovo, e suscitato un ondata di sdegno anti – serbo38.n seguito alla
vittoria di Tito, la popolazione albanese fu inizialmente oggetto di
repressione da parte della polizia jugoslava (guidata da A. Ranković), che
provocò un flusso migratorio verso la Turchia. Nell ’ambito della strategia di Tito,
volta ad evitare il proliferare del nazionalismo albanese, nel 1963 la nuova
costituzione jugoslava stabilì
l'autonomia
del Kosovo, a cui segui l’introduzione di riforme in favore degli albanesi, in
particolare nel settore scolastico.
Al
miglioramento della situazione generale dei kosovari Benché
Dalla guerra del ’99 all’indipendenza del Kosovo
Il 24 marzo 1999 l'Alleanza
Atlantica prese atto del fallimento dei negoziati, dopo anni di trattative con la Serbia , ed iniziò (senza un
provvedimento in questo senso da parte dell'ONU, a causa del minacciato veto di
Russia e Cina) alcune operazioni militari di dissuasione nella speranza di
ottenere una replica di quanto già avvenne per i negoziati per il
conflitto bosniaco, dove anche lì la delegazione serba abbandonò
improvvisamente la trattativa riprendendo immediatamente le operazioni
militari. In quella occasione poche operazioni militari di dissuasione sulle
linee serbe convinsero il regime di Milošević a ritornare al tavolo delle
trattative e a firmare (e rispettare) la fine del conflitto. Tale circostanza
non si ripeté nel caso del Kosovo, presumibilmente perché Milošević - che
puntava in modo piuttosto trasparente ad una sua spartizione, tra Serbia e
Albania - riteneva di potere contare su determinate alleanze, o semplicemente
su di un mutato quadro internazionale che pensava avrebbe giocato a suo favore.
La Cina aveva
manifestato una netta contrarietà nei confronti della neonata repubblica di
Macedonia (verso la quale l'esercito serbo cercò di spingere la popolazione del
Kosovo in fuga) a causa del riconoscimento di Taiwan da parte di quest'ultima,
circostanza che sembra essere stata la motivazione dominante della minaccia di
veto cinese ad ogni intervento in sede ONU.
Nel
corso del conflitto ci sono stati diversi gravi episodi: in un'occasione un
attacco aereo colpí un convoglio di civili in fuga facendo una strage. Un'altra
volta, un missile finí per errore in Bulgaria, senza
provocare danni. Tra le infrastrutture prese di mira anche alcuni ponti e
centrali elettriche (bombardate con bombe alla grafite che non provocano danni
permanenti, ma solo un black-out). Fu anche bombardata e distrutta la torre
della televisione (gli oppositori di Milošević in Serbia sostenevano che il
personale era stato avvisato dell'attacco, ma gli era stato ordinato di
rimanere nell'edificio), con 16 vittime tra giornalisti, funzionari ed
impiegati. In seguito venne bombardata l'ambasciata cinese a Belgrado, nel
convincimento che in quell'edificio fosse stata spostata la trasmittente della
radiotelevisione Serba dopo la distruzione della sua sede. La vicenda creò una
notevole tensione con la nazione asiatica. L'esercito serbo, e truppe
"irregolari" facenti capo a movimenti ultranazionalisti serbi (che
già avevano operato in Bosnia Erzegovina distinguendosi in massacri di civili
ed operazioni di cecchinaggio) non mancarono di compiere diverse esazioni sulla
popolazione del Kosovo, per provocarne la fuga e creare quello stato di fatto
necessario alla realizzazione dell'obiettivo della spartizione. L'operazione
militare, chiamata "ferro di cavallo", sarebbe stata preparata prima
ancora delle trattative di Rambouillet (prima dell’inizio del conflitto), anche
se prove definitive al di là di ogni ragionevole dubbio in tal senso non sono
state fornite, o la stampa internazionale non ne ha mai dato un resoconto
esauriente. In ogni caso l'esercito serbo sotto attacco NATO aumentò
progressivamente la pressione sulla popolazione albanese, che iniziò a spostarsi
verso la Macedonia
e l'Albania. Il numero dei rifugiati raggiunse gli 800.000.
L'inevitabile capitolazione del governo serbo portò al
dispiegamento della missione ONU KFOR, disposta dal Consiglio di sicurezza a
seguito di un accordo "a posteriori" includente Russia e Cina, a
guida NATO e con una significativa presenza di truppe russe, a garanzia della Serbia.
I
rifugiati albanesi ritornarono ma cominciò un nuovo esodo, quello serbo.
Migliaia di cittadini di etnia non albanese (serbi, montenegrini e gitani, in
prevalenza) fuggirono dal Kosovo temendo – e subendo – rappresaglie albanesi
(per altro protrattesi sino ai giorni nostri, a dispetto della presenza della
KFOR). Milošević fu arrestato il 1
aprile 2001 su mandato del tribunale internazionale
dell'Aja, dopo molte
titubanze del nuovo regime democratico, come imputato per crimini contro
l'umanità. Il processo si è interrotto a poca distanza dalla sua conclusione, a
causa della morte dell'imputato l'11 marzo 2006 per
presunto arresto cardiaco.
In base alle Risoluzione del Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite numero 1244 del 1999,
il Kosovo fu provvisto di un governo e un parlamento provvisori, e posto sotto il protettorato
internazionale UNMIK e NATO.
Dopo la morte del presidente Ibrahim
Rugova (avvenuta
nel gennaio 2006), furono avviati i negoziati tra delegazione kosovara Serba e
delegazione kosovara Albanese sotto la guida del mediatore ONU Martti Ahtisaari per la definizione dello status futuro della provincia
serba.
Il 26 marzo 2007 il Segretario generale dell’Onu Ben
Ki-moon ha rimesso al Consiglio di Sicurezza il rapporto redatto da Maarti
Ahtisaari sul futuro status del Kosovo. Il rapporto, che è opportuno conoscere,
consta di una parte di raccomandazioni e di un annesso. È molto chiaro e basa
le sue conclusioni su tre punti fondamentali: a) un ritorno allo status quo
ante 1999 non è possibile; b) non è più sostenibile la prosecuzione della missione
internazionale; c) l’unica opzione possibile rimane quella dell’indipendenza
“sotto controllo della comunità internazionale”.
Dopo
il riassunto della natura dell’incarico ricevuto e gli aspetti salienti della
missione, Ahtisaari motiva brevemente il primo punto: la lunga storia della
ostilità tra le due popolazioni ha provocato l’inasprirsi della tensione fino
alla brutale repressione dal regime di Miloševič e, in seguito a questi fatti,
il successivo insediamento della missione UNMIK ha fatto sì che Serbia e Kosovo
fossero amministrate in maniere diverse e separate. In questo periodo di circa
otto anni (dal 1999 a
oggi) la Serbia
non ha più esercitato alcun potere effettivo sul Kosovo. Poiché questo è
innegabile, si è trattato di un processo che può ora definirsi irreversibile (e
senza scomodare Aristotele, Ahtisaari qui fa un vero e proprio sillogismo).
Se
queste osservazioni possono essere in parte condivisibili nella sostanza, varie
perplessità affiorano invece leggendo la seconda parte sui risultati ottenuti
dall’amministrazione internazionale e in particolare sulle capacità realmente
acquisite nella gestione della cosa pubblica dalla nuova classe dirigente.
Attraverso l’amministrazione UNMIK – prosegue infatti Ahtisaari – è stato
particolarmente curato l’aspetto del self-government nella formazione delle
amministrazioni locali, innescando perciò un processo di sviluppo politico, ma
non economico. Questa particolare situazione di instabilità
politica-istituzionale non ha attratto quindi investimenti stranieri né
consentito l’accesso a finanziamenti internazionali né promosso l’integrazione
economica con altri Paesi balcanici o creato infrastrutture per lo sviluppo.
Per questo – conclude Ahtissari – solo l’indipendenza della provincia, con la
stabilità e la chiarezza che comportano, potrà assicurare delle prospettive di
sviluppo economico.
Dopo
queste premesse, l’opzione dell’indipendenza “sotto il controllo della comunità
internazionale”, rimane quindi l’unica realistica, sebbene la situazione
interna richieda molta attenzione. La convivenza etnica è ancora segnata
dall’eredità dei fatti avvenuti nell’estate del 1999 e nel marzo 2004 e,
nonostante gli sforzi sinora effettuati, la comunità serba necessita di una
maggiore integrazione nelle istituzioni del Kosovo. “Il Kosovo è un caso unico,
che richiede una soluzione unica. Non deve creare un precedente per altri
conflitti irrisolti”. Sono alcune tra le parole conclusive di Ahtisaari che
inoltre sottolinea come la combinazione di particolari fattori abbia fatto del
Kosovo un insieme di circostanze straordinarie.
Dal
novembre del 2005 però, da quando cioè erano iniziate le ultime trattative sul
futuro status, sembrava che l’ipotesi della spartizione fosse stata esclusa a
priori non solo dalla comunità internazionale, ma anche dagli stessi diretti
interessati. All’interno dei due schieramenti chi sosteneva tale ipotesi era
insomma in netta minoranza e apertamente contrari si erano dichiarati
ufficialmente Solana e autorevoli diplomatici e funzionari Onu. Il modello
delle due entità che compongono l’attuale Bosnia-Erzegovina (Republika Srpska e
Federazione musulmano-croata) era stato insomma respinto, anche alla luce delle
difficoltà di collaborazione verificatesi in questi anni – e che oggi si stanno
ancora protraendo – come ad esempio sulla questione dell’unificazione delle
forze di polizia. Ciò nonostante, benché in numero ridotto, sostenitori di
questo tipo di soluzione evidentemente non mancavano e soprattutto
l’espressione ‘indipendenza’, sia pure condizionata, era stata usata con
estrema cautela.
Alcuni
osservatori avevano del resto notato – tra le tante debolezze del piano
Ahtisaari – che le ampie concessioni alle amministrazioni dei comuni del nord
(la zona di Mitrovica a maggioranza serba) avrebbero in ogni caso prodotto una
ulteriore spartizione di fatto. Una dichiarazione del 26 marzo di Goran
Svilanovic (ex ministro degli Esteri serbo) richiama alcuni punti per una
soluzione in questo senso, ma il silenzio con cui sono state accolte queste
dichiarazioni è eloquente. D’altra parte, proprio nello stesso rapporto
Ahtisaari emergono aspetti inquietanti, gli stessi punti sostenuti dai fautori
della spartizione: riconciliazione impossibile, due popolazioni che vivono
separate e riforme che non decollano. Volendo rimanere all’interno del
parallelo tra Bosnia e Kosovo, da una parte il blocco delle riforme
istituzionali comuni e dall’altra il fallimento della politica degli ‘standard before status’ lanciata nel
2003.
Il
Kosovo, oltre al valore simbolico, rappresenta territorialmente tra il dieci e
il quindici per cento della Serbia. La zona che la Serbia potrebbe riuscire a
sottrarre all’indipendenza del Kosovo è circa meno di un quarto, ma è anche
vero che la maggior parte della minoranza serba in tutta la provincia non si
trova in questa zona perché vive soprattutto nelle varie enclave sparse nel
territorio. Per loro la spartizione equivarrebbe a una condanna, senza contare
i contraccolpi sulle altre minoranze albanesi che vivono attualmente in
territorio serbo e che in caso di annessione si troverebbero in un quadro
etnico radicalmente mutato in modo sfavorevole.
Inoltre
esiste la questione delle miniere di Mitrovica che – sebbene al momento
obsolete, improduttive e inquinanti oltre ogni limite – rappresentano tuttavia
una risorsa fondamentale per un futuro sviluppo e quella dello status delle
chiese e dei conventi serbo-ortodossi a sud del fiume Ibar che dovrebbero
godere di una sorta di extra-territorialità. Una spartizione dunque creerebbe
certamente altre difficoltà, ma paragonabili a quelle di una “indipendenza
condizionata” che costringerebbe a una situazione di convivenza impossibile con
tutte le conseguenze?
Il
giorno successivo (27 marzo), in un articolo dello stesso Svilanovic sul
quotidiano belgradese Politika, sono invece messe a fuoco abbastanza
lucidamente le ragioni dell’appoggio di Putin alla Serbia. All’autore non
sfuggono le motivazioni reali dell’atteggiamento della diplomazia russa: dopo
aver delineato il complesso quadro di relazioni intercorrenti con le maggiori
potenze, emergerebbe che la politica russa sulla questione del futuro status
miri principalmente soltanto a ritardare i tempi di risoluzione per ottenere
maggior potere contrattuale in altre trattative e del resto la politica estera
della ex Unione Sovietica in questo momento sta tentando un difficile rilancio
anche su altri fronti.
Obiettivo
principale sarebbe comunque ritardare la risoluzione sul Kosovo almeno fino al
vertice del G8 previsto per giugno. Per tutti questi motivi la minaccia del
veto al Consiglio di Sicurezza non sarebbe affatto un bluff unicamente in
chiave filo serba. La stessa tattica dilatoria impiegata - si potrebbe aggiungere
- potrebbe diventare in questo caso il terreno sul quale preparare la
spartizione. Inoltre, considerando che una proclamazione dell’indipendenza
unilaterale – da parte cioè dei soli kosovari albanesi – obbligherebbe numerosi
Stati a riconoscere o meno il nuovo Kosovo, proprio l’ipotesi della spartizione
potrebbe richiamare attenzione per evitare una fuga in avanti da parte
albanese.
Tutta
la questione è resa ancora più complicata dal fatto che in Serbia dopo le
elezioni del 21 gennaio non sono ancora terminate le trattative per la
formazione del nuovo governo. Il partito radicale, che rappresenta i
nazionalisti usciti dal confronto elettorale con la maggioranza relativa, ha
già ammonito che un prolungarsi delle trattative senza esito imporrebbe nuove elezioni.
La questione della consegna dei criminali di guerra all’Aja blocca ancora la
prosecuzione delle trattative per l’adesione all’Unione Europea.
Per
tutti questi complessi motivi, nei quali si mescolano in un groviglio davvero
inestricabile questioni interne e questioni internazionali, l’ipotesi della
spartizione – benché deprecata – è tornata a farsi avanti, rafforzata dalla
mancanza di una soluzione alternativa nel caso del rifiuto totale del piano
Ahtisaari e dalla possibilità – ancora ipotetica – che un nuovo governo serbo
la sottoponga invece alla propria opinione pubblica come unica soluzione
possibile per la questione del Kosovo, o come estremo salvataggio di una parte
della provincia stessa.
Nonostante numerosissimi incontri tra le diverse parti,
il piano per lo status finale del Kosovo preparato da Ahtisaari non fu mai
condiviso né dai serbi, che non volevano perdere la sovranità sulla provincia,
né dai kosovari, che ambivano alla piena indipendenza.
Il 17 novembre 2007 si sono tenute le elezioni per
rinnovare sia l'assemblea parlamentare del Kosovo. Le elezioni sarebbero dovute
avvenire nel 2006, ma furono rinviate nella speranza di risolvere in breve
tempo la questione dello status. Così non è stato, e le profonde divisioni con la Serbia hanno portato al
boicottaggio elettorale degli stessi serbi del Kosovo ed una bassa affluenza
alle urne da parte dei kosovari albanesi. Ha prevalso il Partito democratico
(Pdk) dell'ex capo guerrigliero dell'Uck, Hashim
Thaci, che ha superato per la prima volta la Lega democratica (Ldk) del
defunto presidente Rugova. Thaci ha avviato un governo albanofono di grande
coalizione per gestire il processo verso la piena indipendenza del Kosovo. Il 10
dicembre 2007 è scaduto il periodo dei negoziati condotti dall'ONU,
che hanno fatto registrare un sostanziale nulla di fatto, con Serbia e Kosovo
rimasti sulle rispettive posizioni. Le autorità kosovare hanno insistito nel
voler proclamare l'indipendenza in modo unilaterale (soluzione ovviamente
preferita da parte della maggioranza albanese e che ha come unico precedente il caso di Timor
Est).
Il 16 febbraio 2008 l 'Unione Europea, un giorno prima
dell'annunciata proclamazione d'indipendenza, ha approvato l'invio di una
missione civile internazionale in Kosovo (chiamata "EULEX"), in sostituzione della missione
UNMIK, per accompagnare il Paese in questo periodo di transizione. La missione
comprende 2000 uomini (fra i quali piu' di 200 italiani), e ha l'obiettivo di
sostenere le autorità kosovare nel mantenimento della sicurezza e dell'ordine
pubblico, nel settore doganale e nell'amministrazione della giustizia. Da parte
serba si fa notare come da un punto di vista sostanziale tale missione, priva
di un mandato diretto da parte dell'ONU, sia quantomeno di dubbia legalità. La
missione EULEX infatti, trae la propria legittimità solo dall'invito ad operare
in Kosovo che il "Presidente" kosovaro Seidiu ha indirizzato
all'Unione Europea.
Il 17 febbraio 2008 il Parlamento di Prishtina, riunito in seduta
straordinaria, ha approvato la dichiarazione d'indipendenza del Kosovo letta
dal premier Hashim Thaçi e ha battezzato i suoi simboli nazionali: la bandiera e
lo stemma. I nuovi
simboli dello stato sono stati scelti in modo tale da rispettarne la composizione
multietnica. Il discorso pronunciato dal premier parla di una Repubblica
democratica, secolare e multietnica, guidata da principi di non discriminazione
e uguale protezione da parte della Legge. Circa dieci minuti dopo la
proclamazione, avvenuta circa alle 3 pomeridiane, il governo serbo si è
affrettato a dichiarare illegittima e illegale tale affermazione e che mai
riconoscerà la repubblica secessionista come indipendente.
Lo
stesso 17 febbraio il governo del Costa Rica è stato il primo paese a riconoscere
l'indipendenza del Kosovo. Il 18 febbraio sono arrivati gli importanti
riconoscimenti da parte di Stati Uniti e Albania. L'Unione Europea,
riunita in assemblea a Strasburgo non è riuscita a disegnare una linea guida
unitaria e ha lasciato i vari stati liberi di riconoscere la provincia
secessionista. Da tempo si erano dichiarati favorevoli Francia, Gran Bretagna, Germania ed Italia, mentre fortemente contrari sono Spagna, Grecia, Cipro e Romania, che
vedono in un riconoscimento ufficiale un gravissimo pericolo di instabilità
interna per le autonomie che chiedono più spazi e riconoscimenti.
Successivamente, in data 21 febbraio 2008, il Governo italiano ha riconosciuto ufficialmente
l'indipendenza del Kosovo, e ha risposto affermativamente alla richiesta di
stabilire relazioni diplomatiche. In campo extraeuropeo, fortemente contrari
sono Russia e Cina, entrambe con potere di veto al Consiglio di Sicurezza dell'ONU che non si è pronunciato a favore
dell'indipendenza, ribadendo che resta valida la propria Risoluzione n. 1244.
Ufficialmente,
secondo il diritto internazionale e l'ONU, in Kosovo vige ancora la Risoluzione numero
1244 che definisce il territorio kosovaro sotto sovranità serba.
Sembra
inoltre profilarsi il rischio di una nuova separazione territoriale, ad opera
della comunità serba che risiede nella parte nord del Kosovo confinante con la Serbia (a nord del fiume
Ibar), tuttora in una situazione caotica dal punto di vista istituzionale. La
comunità serba, maggioranza in questa zona, minaccia infatti a sua volta la
separazione dal Kosovo e il ricongiungimento con la Serbia. Questo
provocherebbe di fatto la divisione della città di Kosovska Mitrovica, attraversata essa stessa dal fiume e
abitata dai serbi sul lato nord e dagli albanesi sul lato sud.
La situazione in Kosovo dopo il conflitto del 1999
Secondo
quanto stabilito dalla “Risoluzione 1244” approvata delle
Nazioni Unite nel giugno 1999, il Kosovo deve considerarsi un territorio
formalmente facente parte della Repubblica Federale di Jugoslavia ma sottoposto
ad un regime di amministrazione civile e militare internazionale provvisoria[i]. Questa è stata affidata
alla “United Nations Mission in Kosovo”
( UNMIK ), il cui compito è di favorire il raggiungimento dell’auto – governo
nella regione trasferendo gradualmente le sue competenze alle autorità locali
democraticamente elette. La missione è guidata dal “Rappresentante Speciale del Segretario Generale”
delle Nazioni Unite, incaricato tra l’altro di dirigere e coordinare l’attività
delle altre istituzioni presenti in Kosovo, quali l’Unione Europea e l’OSCE,
nonché di assicurare l’ordine e la sicurezza nel territorio, funzione questa
svolta dalla KFOR, il contingente militare internazionale forte di 17.000
effettivi – dei quali 1.700 statunitensi – dispiegato in quattro aree della
regione ognuna delle quali è posta sotto il comando di un diverso Paese.
Tra le tante questioni che l’UNMIK si è trovata ad
affrontare nel dopoguerra, quelle riguardanti le competenze da attribuire alla
nuova amministrazione autonoma locale e la definizione del futuro status della
regione si sono dimostrate fin dall’inizio le più difficili da gestire.
Come primo passo verso la formazione di un esecutivo
kosovaro, nel 2001 veniva varata una “Carta
Costituzionale per l’Autogoverno Provvisorio del Kosovo” che istituiva
un’Assemblea legislativa composta di 120 membri – dei quali 20 riservati alle
minoranze etniche – incaricata di eleggere il Presidente ed il Primo Ministro
del governo regionale. Formalmente autonome, le nuove istituzioni disponevano
di una serie di competenze che a partire dal 2003 sono state progressivamente
ampliate fino ad includere anche dei dicasteri responsabili per la giustizia,
gli affari interni e l’energia, pur restando all’UNMIK il controllo sulla
politica monetaria e fiscale, le relazioni esterne e la sicurezza nonché il
diritto di porre il veto sui provvedimenti approvati dall’Assemblea legislativa
locale che risultavano in contrasto con le disposizioni contenute nella “Risoluzione 1244” . Tenute
nell’autunno del 2001 le prime consultazioni per l’elezione dei membri
dell’Assemblea legislativa, pochi mesi dopo l’allora “Rappresentante Speciale del Segretario Generale” Michael Steiner
dichiarava come nessun negoziato sul futuro status della regione sarebbe stato
avviato dalle Nazioni Unite prima che le autorità kosovare avessero adempiuto
ad alcuni standard fissati dalla comunità internazionale, quali il rispetto
delle minoranze, la costituzione di uno Stato di diritto e di istituzioni
democratiche e l’adozione di un’economia basata sui principi del libero
mercato. Alla fine del 2003 il governo kosovaro e l’UNMIK si accordavano quindi
per istituire cinque gruppi di lavoro, ai quali però non parteciparono
rappresentanti serbi, allo scopo di implementare le condizioni fissate dalle
Nazioni Unite. Tuttavia, l’esplosione dei nuovi disordini interetnici che nella
primavera del 2004 provocarono 19 vittime e 900 feriti tra popolazione insieme
all’esodo di almeno 4.000 persone, nella gran maggioranza serbi, dalle loro
abitazioni, convinse la comunità internazionale che i negoziati per definire il
futuro status del Kosovo dovessero essere accelerati e possibilmente portati a
termini per la fine del 2006.
Il compito di valutare se gli standard precedentemente
fissati fossero stati rispettati dal governo di Pristina veniva affidato al
norvegese Kai Eide, designato dalle Nazioni Unite nell’estate del 2005, il quale
nell’autunno dello stesso anno redigeva un rapporto, riconosciuto come
realistico e veritiero da entrambe le parti, in cui risultava che anche se
erano stati compiuti progressi significativi, la situazione economica restava
negativa, l’apparato di polizia ed il sistema giudiziario continuavano ad
essere deboli e le prospettive per la ricostruzione di una società multi –
etnica quanto mai remote, ribadendo inoltre come fosse auspicabile avviare al
più presto i negoziati per definire lo status della regione. Nel documento si
affermava poi come l’autorità delle Nazioni Unite in Kosovo stesse
progressivamente riducendosi a causa anche di alcuni scandali nei quali erano
rimasti coinvolti esponenti dell’UNMIK.
In seguito il Segretario Generale delle Nazioni Unite
Kofi Annan nominava il diplomatico finlandese Marti Ahtisaari quale inviato
speciale incaricato di coordinare i colloqui dai quali si sarebbe dovuto
stabilire il futuro status del Kosovo, mentre i sei Paesi del “Gruppo di Contatto” – Stati Uniti, Russia,
Francia, Italia, Regno Unito e Germania – in un documento indicavano quali
sarebbero state le linee – guida della comunità internazionale nelle
trattative, ovvero la conformità ai principi ed ai valori democratici europei,
il rispetto dei diritti per le minoranze insieme alla protezione dei luoghi
santi serbi, la decentralizzazione e l’autonomia per le amministrazione locali
unitamente alla conservazione dell’integrità territoriale della regione.
[1]La loro testimonianza, per esempio, valeva meno di quella di un
musulmano e non potevano portare armi; ma la discriminazione poteva anche avere
effetti pratici non del tutto negativi: l'entità delle multe comminate agli
infedeli era la metà di quella prevista dalla legge islamica.
agli infedeli era la metà di quella
prevista dalla legge islamica.
[2]G. Veinstein, L'Islam
ottomano nei Balcani e nel Mediterraneo, in Storia d'Europa (Vol.
IV), Torino,
Einaudi, 1995, p. 68.
[3] Enrico Bartok, Kosovo:Le
ragioni di una tragedia, Milano, Nuove Edizioni Swan, 1999, p. 19.
[4] Jože Pirjevec, Serbi,
Croati, Sloveni di tre nazioni, Bologna, Mulino, 2002, pp. 16-17.
[5] Malkolm Noel, Storia del
Kosovo: dalle origine ai giorni nostri, Milano, Paperback, 1999, p. 23.
[6] Enrico Bartok, Kosovo:Le
ragioni di una tragedia, Milano, Nuove Edizioni Swan, 1999, p. 22.
[7] Lega di Prizren – Lidhja e
Prizrenit
[8] Malkolm Noel, Storia del
Kosovo: dalle origine ai giorni nostri, Milano, Paperback, 1999, p. 259.
[9] Armando Pitassio, La lunga
tragedia del Kosovo, “ Europa/Europe”, VIII, 1999/3, p. 11.
[10] Antonello Biagini, Storia
dell΄Albaniadalle origini ai giorni nostri, Milano, Bompiani, 1998, p. 97.
[11]Thomas Benedikter, Il
dramma del Kosovo: dall΄origine del conflitto fra serbi e albanesi agli scontri
di oggi. Roma, Datanews Editrice, 1998, cit., p.32.
[12]
http://www.volint.it/areavolint/educazione/aereetematiche/schede/paesi/kossovo.htm
[13]Thomas Benedikter, Il
dramma del Kosovo..., cit., p.42
[14] Roberto Morozzo Della
Rocca, Kosovo; le ragioni di una crisi, “ Limes ” , Vl, 1998/3, p.90
Nessun commento:
Posta un commento