C.V. Astrit ALIAJ
Capitolo Primo
Una breve
storia del Kosovo dalle origini al XIX secolo
1.1 Posizione
geografica e caratteristiche demografiche
Il Kosovo è una provincia
autonoma indipendentista
della Serbia, amministrata dall'ONU,
che ha dichiarato la propria indipendenza, unilateralmente, il 17 febbraio 2008.
Capoluogo del Kosovo "capitale" è
la città di Pristina. Il Kosovo copre un'area di 10.887 km/q con una
popolazione di poco più di 2 milioni di abitanti, costituita per il 91% da
albanesi, per il 7% da serbi, e per il 2% da turchi, macedoni e rom. In Kosovo ci sono diverse religioni come la religione mussulmana (95%), ( la maggior parte degli albanesi, turchi, bosniaci), la religione
cattolica (una parte degli albanesi), e la religione ortodossa (i serbi).
Il tasso di natalità e
mortalità infantile sono i più elevati d'Europa: più del 50% della popolazione
ha meno di 20 anni e l'età media è di 24 anni. Benché il Kosovo abbia svolto un
ruolo centrale nella storia dei Balcani, è rimasto, per molta parte di quella
storia, misterioso e poco conosciuto al mondo esterno. L’intero territorio è
diviso in due metà quasi uguali da una catena di colline più basse che corre da
nord a sud passando per il centro del Kosovo: i corsi d’acqua che scendono
dalle pendici orientali di queste due
colline confluiscono nell’Ibar e nel Danubio, mente quelli del versamento
occidentale finiscono nel Drin Bianco e nell’Adriatico. Le due metà del Kosovo
hanno i loro nomi tradizionali, che per diverse ragioni, politiche e
geografiche, sono state causa di attriti e confusioni. La metà ovest del Kosovo
è nota ai serbi con il nome di Metohija, derivato da metochia, parola
greco-bizantina che significa proprietà monastiche e riflette il fatto che qui
molti monasteri ortodossi ricevettero ricchi lasciti dai governanti serbi
medievali. Gli albanesi del Kosovo, d’altronde, non gradiscono l’uso di questo
nome, poiché sembra avallare il fatto che l’identità del territorio stesso sia
legata alla proprietà terriera degli ortodossi serbi. Questa parte del Kosovo
la chiamano Rrafsh i Dukagjinit, cioè l’altopiano di Dukagjin, nome di una
famiglia albanese che governò nel Medioevo e diede il proprio nome anche a una
larga fascia di territorio dell’Albania settentrionale. La geografia, o
piuttosto la geologia, forniscono una ragione essenziale della perdurante
importanza storica del Kosovo – in particolare della sua metà orientale.
Quest’ultima contiene infatti la più alta concentrazione di ricchezze minerali
nell’Europa sud-orientale. La miniera di Trepça (vicino a Mitrovica, a una
cinquantina di chilometri a nord di Prishtina), sfruttata da una società
britanica negli anni ’20, divenne nel periodo del dopoguerra una delle maggiori
fornitrici europee di piombo e zinco; l’area mineraria, compresa un’altra
importante miniera sud-est di Prishtina, negli anni’60 si stimò che contasse il
56% delle riserve jugoslave di quei metalli e il 100% di nichel. Inoltre, fornì
metà della produzione del Paese di magnesio (di cui la Jugoslavia era il terzo
maggior produttore mondiale). Importanti sono anche i depositi di bauxite e
cromo nel Kosovo occidentale; vi sono anche grandi miniere di carbone in
entrambe le metà del territorio, oltre a giacimenti di rame e ferro. Ma di
tutti i possedimenti minerari del Kosovo, quello più importante per quasi tutto
il suo primo periodo fu costituito dalle ricche miniere d’argento. Ve ne erano
in questa regione fin dai tempi preromani e durante il periodo romani furono
estratti su larga scala sia l’argento sia il piombo (e, forse un po’ d’oro). Le
rotte commerciali possono svolgere un notevole ruolo nella storia, ma l’importanza
strategica del Kosovo non è solo una questione di strade. Dando un occhiata
alla carta dei Balcani si capisce perché il Kosovo ebbe un’importanza cosi
cruciale per i sultani ottomani. Chiunque detenesse il Kosovo poteva
controllarne l’accesso strategico alla Bosnia e all’Albania settentrionale e
avrebbe potuto minacciare di tagliare il collegamento tra la Serbia e la regione
macedone-egea.
1.2 Gli antichi abitanti dei Balcani e
l’impero dei Nemanjić ( Il Kosovo medievale
serbo)
L’insediamento
di albanesi e serbi nella stessa regione avvenne in epoche molto remote ed è un
processo la cui ricostruzione è stata negli ultimi anni manipolata e strumentalizzata
da storiografie ingaggiate, o almeno succubi, di suggestioni e fantasmi nazionalistici.
Per quanto ne sappiamo una grande ondata migratoria di popolazioni slave, che
gli storici antichi descrivono organizzate in numerose comunità dedite
all’agricoltura e in misura minore alla pastorizia, occupò, in due flussi
distinti tra il V e il VI secolo d. C., i territori a sud del Danubio, allora
abitati da greci, illiri, dardani e romani. Costantino Porfirogenito, storico
di Bisanzio, colloca il successivo processo di infiltrazione di alcune tribù
slave entro i confini dell’Impero bizantino, e più precisamente verso l’interno
della Penisola balcanica, negli anni di regno dell’imperatore Eraclio (610-40),
il quale aveva pensato di stanziarle nei pressi di Salonicco; non mancano
d’altronde prove d’insediamenti slavi anche sulle coste adriatiche dell’attuale
Albania, su quelle greche e in Macedonia. Nonostante esse rappresentassero una
minaccia per l’integrità territoriale dell’Impero, di recente restaurata
dall’efficace politica di Giustiniano (527-65), queste tribù slave imposero la
loro permanenza sulla riva destra del Danubio agli imperatori bizantini i
quali, con ogni probabilità, la ritennero utile al fine di presidiare i loro confini
settentrionali minacciati dalle incursioni di altre popolazioni barbare, gli
àvari su tutte. Costoro erano una popolazione nomade così militarmente
attrezzata da riuscire a mettere sotto assedio nel 626 Bisanzio e a sottomettere
tutti gli slavi del Danubio; questi ultimi negli anni ’20 del VII secolo,
guidati dal mercante franco Samo, organizzarono un’inserruzione antiavara che
li vide prevalere[1]. Gli antenati di croati,
bulgari e serbi, non ancora differenziabili, conobbero un periodo di notevole
sviluppo economico e di progresso dell’organizzazione sociale e s’insediarono
sul territorio così conquistato rispettivamente in prossimità dell’attuale
Croazia, in parte dell’odierna Bulgaria, nella zona nota in italiano come
Rascia (dal serbo Raška, il territorio controllato dalla fortezza di Raš),
nella Serbia meridionale, e in alcune aree della Dalmazia e del Montenegro di
oggi, giungendo a spingersi, durante il VII secolo, fino ai litorali albanesi. “Per
assicurare il proprio potere sulle regioni riconquistate, ma anche per rinsaldare
la sua influenza sui popoli oltre le frontiere statali, il governo bizantino
non si limitò alle spedizioni militari ma fece uso anche di altri metodi
e il più efficace fu la
cristianizzazione”[2] sin dal VII secolo. Sotto
l’imperatore Basilio I (867-86) fu avviato dai monaci Cirillo e Metodio un
processo di sistematica conversione al cristianesimo dei serbi, seguito dal
loro abbandono dell’alfabeto glagolitico in favore di quello cirillico, base
della cultura serba a noi pervenuta. A dispetto di una presenza distribuita su
una porzione di territorio ampia come quella sopra descritta, i serbi della
Rascia non estesero il loro dominio al Kosovo. Anzi, la prima dominazione slava
di quella regione sembra essere stata opera dei bulgari e durò dalla metà del
IX secolo all’inizio dell’XI, quando l’imperatore Basilio II (976-1025)
riconquistò i Balcani, riposizionando così, dopo 300 anni, la frontiera settentrionale
dell’Impero romano d’oriente sul Danubio e la Sava; vasti territori abitati
dagli slavi furono posti sotto il dominio diretto di Bisanzio, mentre altri,
tra cui la Croazia e la Rascia, dovettero accettare di diventarne vassalli[3] e
i loro principi ottennero titoli bizantini corrispondenti al rango di
governatori imperiali. Molto più incerta e dibattuta è l’origine del popolo
albanese. Secondo le tesi più accreditate esso discende dagli illiri o, in
subordine, dai traci. Noel Malcom individua la prima apparizione degli albanesi
“sul palcoscenico della storia” nel 1043, nei ranghi dell’esercito
guidato da un generale bizantino ribelle, e rileva come nei due secoli successivi
i riferimenti ad essi aumentino. Lo stesso autore propone una serie d’ipotesi basate
sullo studio della lingua albanese per dimostrare la continuità, o almeno la
comune origine, tra una popolazione insediata nei pressi di Durazzo, denominata
da Tolomeo nel II secolo d. C. “Albanenses” in latino o “Albanoi”
in greco bizantino, e gli albanesi medievali, senza però raggiungere
conclusioni esaurienti[4]. Durante
l’XI secolo i principati bizantini di Zaculmia, Terbunia e Dioclea si allearono
per breve tempo, costituendo un unico nucleo territoriale serbo, retto dal 1036
da Stefano Vojislav, il quale ruppe con la tradizione di lealtà nei confronti
dell’Impero bizantino e giurò fedeltà a Roma. Tra il 1160 e il 1170, il Veliki
župan[5] Stefano Nemanja, dopo aspre lotte con i
fratelli, fu il primo monarca a unificare sotto il proprio dominio tutto il territorio
abitato dai serbi. Costui proveniva da una nobile famiglia di Ribnica, nei
pressi dell’attuale Podgorica, area rientrante nella diocesi cattolica di Bar,
e aveva ricevuto il battesimo con rito romano. Tra il 1172 e 1173 era stato
ostaggio dell’Imperatore Manuele a Costantinopoli, esperienza che scatenò in
lui un’illimitata ammirazione per la civiltà bizantina. Ne fu a tal punto
colpito che, una volta rientrato in patria, chiese di essere ribattezzato secondo
il rito ortodosso dal vescovo della Rascia, zona attorno alla quale egli intese,
di lì a poco, organizzare il suo rinnovato dominio approfittando degli
sconvolgimenti nell’assetto dei territori sotto il controllo di Bisanzio
seguiti all’ascesa dell’Impero bulgaro. Con Stefano Nemanja nacque la dinastia
dei Nemanjić e il territorio da lui controllato si ingrandì notevolmente a
danno del potente stato confinante a sud, fino a spingersi in Macedonia,
attraverso parte del Kosovo e a est fino a conquistare l’importante città di
Niš. Nonostante un contrattacco bizantino lo obbligasse a rinunciare a buona
parte delle sue conquiste, nel 1196 lo stato di Rascia, ormai Serbia, aveva
assorbito l’intero Kosovo orientale. Ai fini di questa tesi è utile
sottolineare come, sulla base di questa ricostruzione, il dominio – beninteso,
non la presenza – dei serbi in Kosovo cominci solo nella seconda metà del XII
secolo. Proprio in quell’anno Stefano Nemanja fu persuaso dal figlio minore
Rastko – più noto con il nome monastico di Sava – ad abdicare e, dopo avere a
sua volta preso i voti, a ritirarsi sul monte Athos, cedendo il potere al
secondogenito Stefano. La fase storica in cui il regno si costituì fu dominata
dalle conseguenze della caduta di Costantinopoli ad opera degli eserciti aderenti
alla quarta crociata e di Venezia e la conseguente divisione dei territori
dell’Impero in feudi retti da crociati. La prima difficoltà che Stefano Nemanjić
dovette affrontare fu la faida scatenata dal fratello Vukan, insoddisfatto di
essersi visto assegnare dal padre solo un ducato periferico. Questi cercò il sostegno
del papa e nel 1202 ottenne l’intervento del re cattolico Imre d’Ungheria che
invase la Serbia, esiliò Stefano e pose Vukan sul trono; l’anno successivo un
vescovo cattolico ungherese fu inviato presso la sua corte per convertire la
Serbia alla fedeltà alla Chiesa di Roma. Ma nel 1204 Imre morì, Vukan perdette
il suo protettore e Stefano, sostenuto dalla Chiesa ortodossa, si reinsediò al
potere. Lo scontro fra i due fratelli fu ricomposto dall’intervento di Sava, di
ritorno dal monte Athos per riportare in patria le spoglie del padre, appena
deceduto. Questo sarebbe stato venerato come Simeone, primo santo serbo, e
sepolto presso Studenica[6]. Entro
il 1216 Stefano si impadronì della porzione occidentale del Kosovo e l’anno successivo
fu incoronato re di Serbia da un delegato papale inviato da Roma, guadagnandosi
così l’appellativo di Prvovenčani (Primo coronato). Non è chiaro il
ruolo che le abilità diplomatiche di Sava ricoprirono nel persuadere papa
Onorio III a compiere un atto che spalancava le porte della legittimazione
internazionale al regno dei Nemanjić. Certo è invece che le stesse furono fondamentali
per convincere il patriarca della Chiesa greca ortodossa a Nicea Manuele,
superiore gerarchico delle diocesi serbe (subordinate anche all’arcidiocesi di Ohrid,
in quella fase in rivolta contro Manuele) a concedere l’autocefalia alla Chiesa
serba nel 1219; è evidente l’interesse del patriarca greco a ridimensionare
l’area d’influenza del metropolita di Ohrid. Sava tornò quindi trionfante in
Serbia per riorganizzare la chiesa locale a partire dal suo vertice e si nominò
arcivescovo. Come tale, emanò un codice noto come Nomokanon,
d’ispirazione bizantina e teso ad armonizzare le relazioni tra potere temporale
e spirituale. Di fatto Sava forgiò le caratteristiche salienti dello Stato
serbo medievale e dell’identità nazionale del suo popolo, basate sul legame tra
chiesa, dinastia Nemanjić e potere civile. Nel 1236 Sava morì e fu canonizzato
insieme al padre, dando così origine al culto della loro famiglia; ciò garantì
prestigio ed egemonia incontestabili ai loro eredi. Come rileva Ćirković:
Gli
spostamenti dei confini religiosi e l’opera di riorganizzazione avranno conseguenze
tanto più importanti, in quanto proprio allora cominciava un’intensa attività
ecclesiastica […]; molto più numerosi divennero i monaci nei monasteri i cui fondatori
erano magnati laici, dignitari della Chiesa e i sovrani. Una conseguenza naturale
di questo fenomeno fu lo spostamento dell’attività verso la periferia dell’area
culturale bizantina, sì che i più significativi esempi dell’architettura e
della pittura bizantina si trovano in Serbia[7].
Furono
gli eredi dei Nemanjić ad attuare un grandioso programma di costruzione di monasteri
in tutte le regioni sotto il proprio dominio, tra i quali i principali sono:
Žiča, presso Kraljevo, scelto dallo stesso Sava come sede della Chiesa
autocefala; Studenica, nelle vicinanze di Raš, voluto da suo padre Stefano
Nemanja; Mileševa, in prossimità del confine con la Bosnia; Sopočani, costruito
da Uroš I presso Novi Pazar. Come si può notare risalendo alla posizione
geografica di queste località, “la culla del monachesimo serbo nelle prime
due o tre generazioni di dominio dei Nemanjić fu situata dove era stata la
culla dello stato serbo: non all’interno del Kosovo ma più a nord e a
ovest”[8].
Le fondazioni di monasteri all’interno dei domini kosovari avvennero soltanto
in una fase successiva. La canonizzazione dei Nemanjić non fu importante solo
per la diffusione di centri spirituali di tale rilievo, veri e propri capisaldi
dell’Ortodossia, ma soprattutto perché “diede al popolo serbo santi
provenienti dalle proprie fila e che dal paradiso sarebbero stati infaticabili
protettori dello Stato serbo, dei Re serbi, del popolo serbo e di tutto il loro
lascito”[9]. La canonizzazione
rappresentava un passo essenziale nell’edificazione del potere dei Nemanjić.
Stefano Nemanja cominciò così ad essere descritto come la “santa radice”, immagine
rafforzata dalla diffusione nei luoghi sacri di affreschi dell’albero
genealogico della famiglia posto sotto la figura di Gesù Crsito, tutt’oggi ben
visibili nel patriarcato di Pejë/Peć e nel monastero di Gračanica. Gli
scrittori dei periodi successivi mutuarono da alcune opere di Sava dedicate al
padre l’uso di descriverlo utilizzando riferimenti ad Abramo e all’Antico
testamento; i suoi discendenti ed il suo popolo diventarono allora il “nuovo Israele”
e il “popolo eletto”[10].
Nel
frattempo, nel 1199 si teneva il Concilio di Dioclea (l’attuale Podgorica, già Titograd),
a cui pare non prendesse parte nessun vescovo slavo e fossero presenti solo
prelati d’origine albanese. Tale avvenimento segnò la separazione tra la Chiesa
di Albania, rimasta fedele a Roma, e le province slave di Serbia e Montenegro,
che invece si posero stabilmente sotto l’influenza del Patriarcato di
Costantinopoli. Secondo Aurel Plasari, Dioclea “segna anche
l’arrestarsi del processo di slavizzazione delle genti albanesi, legate fin dal
VII secolo ai gruppi etnici serbi dalla condivisione di alcune regioni e
dalla comune obbedienza alla Chiesa di Roma”[11]. Nel
1261 Bisanzio conobbe un ultimo tentativo di rinascita allorquando l’imperatore
Michele VIII Paleologo riconquistò Costantinopoli, strappandola di mano ai
crociati, e reinsediò il patriarca. Nelle province bizantine si scatenarono
numerose guerricciole, scosse d’assestamento conseguenti a sessant’anni di
fragili esperimenti politici locali. Una delle più intense si combatté
nell’entroterra di Durazzo, dove gli Angioini dell’Italia meridionale avevano
insediato il regnum Albaniae, continuazione di un precedente “principato degli Arbani”. L’area rientrò
rapidamente sotto il controllo bizantino, ma gli scontri diedero la possibilità
ai guerrieri albanesi di distinguersi su entrambi i fronti e guadagnarsi alti
titoli e terre; a lavorare su questi latifondi in mano al nuovo ceto dei
possidenti albanesi,
appartenenti
a famiglie legate tra loro da vincoli di sangue, rimase la popolazione slava
già presente[12]. Re Milutin, nipote di
Stefano Prvovenčani, conquistò pochi anni dopo la sua incoronazione nel
1282 la grande città di Skopje, facendone la capitale del regno. Dieci anni dopo,
sposandosi con una figlia dell’imperatore bizantino, ricevette in dote gran
parte della Macedonia che aveva da poco invaso. All’inizio del XIII secolo,
spinti i confini del suo dominio fino alle coste adriatiche, Milutin era uno
dei monarchi più potenti dei Balcani e inaugurò un’ulteriore ondata di
costruzione di monasteri, non solo all’interno del suo regno, ed in Kosovo in
particolare, ma anche sul monte Athos, a Salonicco, Costantinopoli e Gerusalemme.
Suo figlio Stefano Dečanski, fatto accecare dal padre come punizione per aver
guidato una rivolta in gioventù, subì a sua volta la rivolta del proprio
primogenito Dušan, il quale sconfisse l’esercito paterno (Dečanski fu
strangolato due mesi dopo) e fu incoronato re nel 1331. Dušan guidò lo Stato
medievale serbo al suo apogeo, inglobando entro i propri confini – in una fase
di guerra civile all’interno dell’Impero bizantino della quale seppe
approfittare con grande abilità – l’intera Macedonia eccetto Salonicco, l’Albania,
l’Epiro e la Tessaglia, ponendosi così a capo di un enorme territorio che
correva dal Danubio al golfo di Corinto. In questa fase fu convocato un
concilio di rappresentanti serbi e bulgari della Chiesa ortodossa che decise di
elevare l’arcivescovo autocefalo al rango di patriarca, sancendo così lo scisma
e la completa indipendenza della Chiesa serba. Proprio il primo patriarca serbo
Joanikije (le cui spoglie mortali sono conservate presso il patriarcato di
Pejë/Peć) incoronò Dušan “zar dei serbi e dei greci” nel 1346; successivamente
il titolo sarebbe stato completato con la dizione “degli albanesi e dei
bulgari”. Nonostante Dušan abbia portato lo Stato serbo medievale a simili
risultati, egli non fu canonizzato: il probabile parricidio non gli venne
perdonato. Nel 1343 Dušan appoggiò Giovanni Cantacuzeno nella rivendicazione al
trono bizantino, attorno alla cui assegnazione si stava combattendo l’ennesima
guerra civile. La figlia di Cantacuzeno era però già stata data in sposa a
Orhan, capostipite dei turchi ottomani, approdati alla fine del secolo XI nel
Vicino oriente dopo una secolare migrazione dalla Mongolia e diventati, dopo la
conversione all’Islam nel X secolo, egemoni nel mondo islamico e dal 1352, data
dell’attraversamento dei Dardanelli, presenti nel Continente europeo. Quando le
mire espansionistiche di Dušan cominciarono a rappresentare una minaccia troppo
rilevante per ciò che rimaneva dell’impero bizantino, Cantacuzeno chiamò in
soccorso il genero musulmano, inaugurando così l’ultima stagione d’agonia
dell’impero romano d’oriente.
1.2 Il crollo dello stato medievale serbo
Il
crollo dell'Impero serbo-greco sotto zar Uroš V (noto anche come Nejaki,
“il Debole”), figlio di Dušan, fu molto rapido e avvenne per disgregazione del
potere centrale. Già nei primi anni del suo dominio si era registrata la
perdita di ampie porzioni di territorio in Grecia e nel nord della Serbia ad
opera dei regni confinanti. Quando si dovette affrontare la successione di
Uroš, il fatto che egli non avesse figli causò lo scoppio di una violenta guerra
civile nelle fila dell'aristocrazia serba. Già dal 1365 egli governava solo nominalmente,
mentre il potere reale era saldamente nelle mani di Vukašin Mrnjavčević, da lui
stesso nominato kralj (re). Ma Vukašin perì nella battaglia di Morica
del 1371, il primo grande scontro tra l'esercito serbo e quello ottomano; poco
dopo morì anche Uroš. È importante segnalare come, per tutta la storiografia
moderna, la vittoria turca sul fiume Morica fu di gran lunga più rilevante e
gravida di conseguenze in termini strategici e politici della successiva
battaglia di Kosovo. Con l'uscita di scena del vecchio zar, si concluse anche la
parabola della dinastia Nemanjić, la cui vicenda ed eredità culturale furono
prese in consegna e mantenute in vita dalla Chiesa ortodossa, la quale “come
istituzione nazionale era essenzialmente una creazione di quella
dinastia. Sotto i turchi fu anche l'unica istituzione serba e così, insieme
alla poesia epica popolare, finì per celebrare ed adorare la memoria dei
Nemanjić”[13]. Alla fine del XIV secolo
lo Stato serbo era ormai frazionato in un mosaico di domini personali retti da
principi locali. Nella strisciante guerra civile tra nobili per la spartizione dell'Impero
avrebbe prevalso, in termini di estensione del territorio sotto il proprio
controllo, il principe Lazar Hrebeljanović, di stanza presso la città di
Kruševac, mentre il principe Vuk Branković si impadronì della Macedonia
settentrionale e di buona parte del Kosovo, conquistandone le principali città.
A est del suo territorio si estendevano le terre di Lazar il quale, a sua
volta, manteneva il controllo di tutta la Serbia centro-settentrionale e del
Kosovo orientale, comprese le miniere di Novo Brdo, garanzia di ricchezza
illimitata e dunque di potere, nelle cui vicinanze erano stati di recente
insediati abili minatori tedeschi provenienti dalla Sassonia. Il più potente
signore cristiano dell'aerea era però Tvrtko I, ban di Bosnia, sodale di
Lazar nel 1373 nella spartizione dei domini dei Nemanjić nella Serbia
occidentale, il quale, nel 1377, facendo leva sulla propria discendenza da un
ramo collaterale della dinastia imperiale, si fece incoronare re di Serbia e di
Bosnia. Lazar, delle cui origini poco si sa, fu senz'altro un abile tessitore
di alleanze; aveva infatti sposato Milica, principessa discendente da un ramo
cadetto della famiglia Nemanjić e aveva dato la figlia in moglie a Vuk
Branković al fine di evitare che le frequenti lotte intestine facessero il
gioco della potenza in ascesa in quegli anni, l'Impero ottomano del giovane
Murat I. Questi era dal 1361 impegnato in una campagna d'espansione verso nord
le cui tappe fondamentali erano state la presa di Adrianopoli, l'intromissione
nelle lotte intestine tra nobili in Albania e quindi la decisiva vittoria sul
fiume Morica con cui, nel 1371, i turchi strapparono il controllo della Macedonia
ai serbi. In quest'ultima occasione i nuovi padroni di quella regione resero il
locale signore serbo Marko Kraljević vassallo tributario, accontentandosi di
fatto del versamento annuale di un ingente contributo piuttosto che
dell'imposizione di una vera e
propria
occupazione. Si era intanto cominciata a diffondere la voce che la morte di Vukašin,
principale condottiero dello schieramento serbo sul Morica, fosse dovuta al
fatto che egli fosse stato nominato re senza discendere in alcun modo dalla
“santa radice” dei Nemanjić. La mossa successiva di Murat fu l'attacco al
territorio di Lazar, con la presa di Niš nel 1386. Alcune fonti antiche
sostengono che a quel punto lo stesso Lazar optasse per il vassallaggio nei
confronti dei turchi, salvo ribellarsi dopo pochi anni, ma la questione rimane incerta.
Certo è che Murat marciò sul Kosovo nel 1389; Lazar a quel punto chiese aiuto
al bosniaco re Tvrtko che gli inviò un grosso contingente al comando del suo
migliore generale, Vlatko Vuković. A sua volta, Vuk Branković si unì
all'esercito radunato dal suocero; tra le fila serbe si registrava la presenza
di contingenti albanesi provenienti dalle regioni limitrofe e mercenari dalle
svariate provenienze, e le stesse caratteristiche multinazionali doveva avere
lo spiegamento di forze agli ordini del sultano. Le truppe di questi tre
condottieri si radunarono sotto il comando di Lazar a Fushë Kosovë/Kosovo Polje
la mattina del 15 giugno (per il calendario giuliano, 28 secondo quello
gregoriano) 1389, giorno di San Vito, e si scontrarono con l'esercito di Murat.
I turchi prevalsero; entrambi i comandanti supremi, Lazar e Murat, furono
uccisi. Al sultanato ascese così il figlio di Murat Bâyazîd, che, dopo aver
ucciso il fratello Yakub, riportò in gran fretta l'esercito vittorioso in patria
per difendere la propria successione. Stefano Lazarević, figlio di Lazar, alla
morte del padre era ancora minorenne. La reggenza toccò quindi a sua madre
Milica, la quale dovette affrontare a pochi mesi dalla morte del marito
l'invasione della parte settentrionale del territorio serbo ad opera del re d'Ungheria
Sigismondo. Constatata la non disponibilità di Ragusa a fornirle aiuto, Milica non
poté che accettare la proposta pervenutale nel frattempo da Bâyazîd: in cambio dell'accettazione
del vassallaggio in nome del figlio, che comportava di fatto solo il versamento
di un tributo annuo e l'invio di truppe in caso di guerra, avrebbe ricevuto l'appoggio
militare ottomano. L'accordo ottenne l'avallo della Chiesa ortodossa serba e fu
stipulato - ad un solo anno di distanza dalla battaglia di Kosovo - mediante
l'atto formale di sottomissione di Stefano Lazarević al sultano. Un passaggio
dell'accordo prevedeva che la figlia di Lazar e Milica Olivera si unisse in
matrimonio a Bâyazîd (o perlomeno entrasse nel suo harem), cosa che avvenne di
lì a poco. Inoltre “nel tentativo di ancorare la sua base di potere
contro la potenziale minaccia degli altri signori serbi, Milica mise gli scriba
della chiesa al lavoro per santificare Lazar, in modo da rafforzare la
rivendicazione di Stefano al potere”[14]. Stefano
Lazarević acquisì il controllo del suo regno nel 1393 e due anni dopo partecipò
con i suoi uomini ad una campagna ottomana ai danni del valacchi. Insomma, il figlio
di san Lazar, da allora venerato dalla Chiesa ortodossa serba come il santo
martire per eccellenza della barbarie islamica, non ebbe alcun imbarazzo a
diventare, per ragioni di asciutta realpolitik, uno dei vassalli del
sultano più assidui nell'affiancarlo in battaglia, tanto da risultare
essenziale nel respingere la crociata del 1396. Quando però nel 1402, in occasione
della guerra contro i mongoli, Bâyazîd morì durante un attacco dell'esercito di
Tamerlano presso Ankara, Stefano Lazarević riuscì a portare in salvo i propri
uomini, rapire la sorella Olivera e mettersi a disposizione dell'Imperatore
bizantino Manuele II Paleologo, il quale gli conferì il titolo di “despota”. Ma
quando la guerra civile tra i figli del sultano vide prevalere nel 1413
Maometto I, il figlio di Lazar si sottomise nuovamente agli ottomani, e la sua
spregiudicatezza politica lo portò di lì a qualche anno ad accettare anche il
vassallaggio per il re d'Ungheria, scelta utile a rafforzare il proprio dominio
sul fianco settentrionale del regno. Questa decisione gli costò però l'ostilità
turca: nel 1425 il nuovo sultano Murat II invase la Serbia. Diverso
atteggiamento assunse Vuk Branković, il quale non prese parte alle campagne
ottomane (pur essendosi probabilmente sottomesso alla Sublime porta) e fu per questo
punito da Bâyazîd nel 1395 o 1396 con una spedizione militare che lo privò del controllo
sul Kosovo. L'area fu rapidamente assegnata ai figli di Branković che
accettarono il vassallaggio e i turchi vi lasciarono almeno due consistenti
guarnigioni a presidio. Nel 1427 Đurađ Branković, figlio di Vuk e nipote di
Stefano Lazarević, ereditò i possedimenti di quest'ultimo. Per allentare la
crescente pressione ottomana sul confine meridionale, diede in sposa una figlia
al sultano; ciò non bastò però a contenere l'azione espansiva dei turchi che acquisirono
il controllo diretto di numerose città e distretti serbi sui quali negli anni successivi
imposero il sistema amministrativo e feudale ottomano. Murat II assestò un
colpo terribile a Đurađ nel 1441 allorquando, dopo averlo fatto accecare perché
sospettato di congiura, conquistò la città di Novo Brdo dalle cui ricchezze
minerarie dipendeva la stabilità stessa di quel poco che ormai rimaneva dello
Stato serbo. L'occasione per la riscossa arrivò nel 1443, quando il re
d'Ungheria Ladislao lanciò una crociata per cacciare i turchi dall'Europa.
Đurađ vi prese parte con un contingente e, insieme all'esercito comandato dal
leggendario condottiero Jànos Hunyadi, rientrò in Serbia, spingendosi fino a
Niš che fu conquistata. Il sultano gli propose allora di riottenere tutto il suo
territorio in cambio della sua uscita dalla coalizione crociata. Il primo
periodo di diretto 24 dominio turco sulla Serbia durò dunque solo dal 1439 al
1444. Quando Đurađ, reinsediato nel suo ruolo di fedele vassallo ottomano, negò
all'esercito ungherese ormai abbandonato da numerosi reparti non magiari il
passaggio sul suo territorio, Hunyadì decise di entrare in Bulgaria e a Varna
nel 1444 subì una pesante sconfitta ad opera degli ottomani. Questo fu il
contesto in cui si sviluppò uno degli episodi decisivi della storia nazionale
albanese, la rivolta di Skenderbeg. Originario del Kosovo occidentale, costui
(il cui vero nome era Gjergj Kastrioti) era il figlio di un nobile albanese
vassallo degli ottomani e pare, ma su questo punto non c'è chiarezza, di una
donna serba. La tradizione popolare vuole che egli fosse stato chiamato nel
1443 alla difesa di Niš dal sultano, ma che avesse disertato gli obblighi
feudali ritirando i suoi uomini. Rifugiatosi nella fortezza albanese di Kruja
si dichiarò cristiano e diede inizio ad una rivolta antiottomana che sarebbe
durata 25 anni, segnata da spavalde incursioni in territorio nemico. Nonostante
il coraggio così dimostrato, l'impresa più ardita non gli riuscì: nel 1448 egli
non fu in grado di congiungersi alle truppe di Hunyadi, in marcia verso il
Kosovo come reggente d'Ungheria e desideroso di sfruttare a suo vantaggio il
fatto che l'esercito ottomano fosse impegnato a reprimere la rivolta di
Skenderbeg. Sembra che Murat II, informato delle mosse di Hunyadi proprio da quel
Đurađ Branković di recente riabilitato, ritirò le proprie truppe dall'assedio
di Kruja per intercettare i nemici. Fu così che il 17 ottobre 1448 l'esercito
ungherese affrontò quello ottomano presso il campo di battaglia per eccellenza
della regione, Fushë Kosovë/Kosovo Polje. A differenza di Lazar, Hunyadi poteva
contare su un elemento di forza: stava aspettando che Skenderbeg con i suoi
ribelli si unisse alle sue truppe per attaccare i turchi su un fianco. Ma il
condottiero albanese era rimasto impegnato in una disputa con i veneziani per
il controllo di alcune zone costiere e ciò causò un ritardo fatale alle
operazioni. Gli ungheresi andarono così di fronte al disastro. Prima della
vicenda di Skenderbeg, nelle guerre combattute contro popoli provenienti dall'Europa
orientale o occidentale, la nobiltà albanese non aveva dimostrato alcun senso
di identità nazionale. Tali lotte rientravano infatti in vicende più ampie al
cui vertice si trovavano Bisanzio, la Serbia, la Grecia e infine l'Impero
ottomano; soltanto con la rivolta di Kastrioti e la sua ventennale resistenza
ai turchi, i signori albanesi si ritagliarono, per la prima volta, un ruolo
autonomo nella storia d'Europa[15].
Il
nuovo sultano Maometto II, noto come “il Conquistatore”, salì al trono nel
1451; due anni dopo guidò il suo esercito alla presa di Costantinopoli. Egli
aveva ormai, di fatto, inglobato ciò che rimaneva dell'Impero romano d'oriente;
decise allora di superare l'obsoleta prassi dell'amministrazione indiretta dei
territori controllati per mezzo di vassalli, sostituendola con una gestione
centralizzata dell'intero territorio a lui sottoposto. Il primo a fare le spese
di questo cambiamento radicale di strategia fu proprio Đurađ Branković il quale,
fedele al patto stipulato con il sultano, aveva appena contribuito con un
contingente all'assedio di Costantinopoli. Nel 1454 Maometto II entrò in Serbia
e costrinse l'anziano despota locale a rivolgersi a Hunyadi per ottenere aiuto.
L'anno successivo i turchi misero sotto assedio Novo Brdo e costrinsero i serbi
alla resa, ponendo il Kosovo sotto il loro controllo diretto. Nel 1456 Belgrado
resistette ad un lungo assedio turco grazie all'energica difesa organizzata da
Hunyadi, il quale però morì di peste, seguito dopo poco da Branković. I figli
di quest'ultimo non trovarono un accordo sulla successione e divennero facile
preda dei turchi. Nonostante Belgrado rimanesse in mani ungheresi per ancora
più di mezzo secolo, Smederevo, l'ultima fortezza controllata dai serbi, si
arrese a Maometto nel 1459, ponendo così fine allo Stato medievale serbo[16].
Un trattamento speciale fu però riservato a quegli insediamenti serbi posti
lungo il confine naturale rappresentato dal corso del Danubio e della Sava, ai
cui abitanti furono garantiti privilegi, in primo luogo d'ordine fiscale, in cambio
di un servizio di guardia dei confini. E in queste vesti molti serbi,
ingaggiati dai
turchi,
fronteggiarono connazionali che presidiavano le sponde opposte del fiume su
incarico degli Asburgo, pronti a garantire a loro volta autogoverno e privilegi[17]. Ultimo
atto dell'espansione turca guidata da Maometto II fu l'annessione dell'Albania,
alla fine di una lunga campagna durata dal 1468 al 1479, benché qui il potere
ottomano fosse destinato a rimanere precario. Oltre alla precedente lunga
insurrezione di Skenderbeg, il normale regime amministrativo facente capo alla
Sublime Porta fu applicato solo alle popolazioni tosche delle pianure
meridionali. Gli appartenenti al gruppo Geg, stanziati a
nord,
conservarono invece un'ampia autonomia nel quadro della loro organizzazione tribale
tradizionale. I tributi furono sempre versati in modo discontinuo e irregolare
e non si riuscì mai a disarmare la popolazione; d'altro canto, a partire dalla
fine del XVI secolo questi luoghi divennero uno dei principali distretti
d'arruolamento per gli eserciti del sultano.
[5] Titolo tribale
serbo intraducibile.
University Press, 2000, p. 19.
[7] S. Ćirković, Gli
slavi occidentali e meridionali dell’area balcanica, in Storia d’Europa (vol. III), op. cit., p. 588.
[11] A. Pasari, La
linea di Teodosio. Alle origini della Questione albanese,
Nardò (Le), Besa editrice, 1992, p. 18.
[17] Cfr. T. Judah, The Serbs…, cit., p. 13. Per una panoramica delle origini della Vojna Krajina (“Frontiera
Militare”) in Slavonia e della compresenza
di serbi (e valacchi) e croati in quell'area cfr. le pagine seguenti.
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