Cerca nel blog

domenica 6 marzo 2016

Albania Nota di Studio

I PARTE

                                                    C.V.  Astrit ALIAJ


Capitolo Primo
Una breve storia del Kosovo dalle origini al XIX secolo

1.1       Posizione geografica e caratteristiche demografiche
Il Kosovo è una provincia autonoma indipendentista della Serbia, amministrata dall'ONU, che ha dichiarato la propria indipendenza, unilateralmente, il 17 febbraio 2008. Capoluogo del Kosovo "capitale" è la città di Pristina. Il Kosovo copre un'area di 10.887 km/q con una popolazione di poco più di 2 milioni di abitanti, costituita per il 91% da albanesi, per il 7% da serbi, e per il 2% da turchi, macedoni e rom. In Kosovo ci sono diverse religioni come la religione mussulmana (95%), ( la maggior parte degli albanesi, turchi, bosniaci), la religione cattolica (una parte degli albanesi), e la religione ortodossa (i serbi). Il tasso di natalità e mortalità infantile sono i più elevati d'Europa: più del 50% della popolazione ha meno di 20 anni e l'età media è di 24 anni. Benché il Kosovo abbia svolto un ruolo centrale nella storia dei Balcani, è rimasto, per molta parte di quella storia, misterioso e poco conosciuto al mondo esterno. L’intero territorio è diviso in due metà quasi uguali da una catena di colline più basse che corre da nord a sud passando per il centro del Kosovo: i corsi d’acqua che scendono dalle pendici orientali  di queste due colline confluiscono nell’Ibar e nel Danubio, mente quelli del versamento occidentale finiscono nel Drin Bianco e nell’Adriatico. Le due metà del Kosovo hanno i loro nomi tradizionali, che per diverse ragioni, politiche e geografiche, sono state causa di attriti e confusioni. La metà ovest del Kosovo è nota ai serbi con il nome di Metohija, derivato da metochia, parola greco-bizantina che significa proprietà monastiche e riflette il fatto che qui molti monasteri ortodossi ricevettero ricchi lasciti dai governanti serbi medievali. Gli albanesi del Kosovo, d’altronde, non gradiscono l’uso di questo nome, poiché sembra avallare il fatto che l’identità del territorio stesso sia legata alla proprietà terriera degli ortodossi serbi. Questa parte del Kosovo la chiamano Rrafsh i Dukagjinit, cioè l’altopiano di Dukagjin, nome di una famiglia albanese che governò nel Medioevo e diede il proprio nome anche a una larga fascia di territorio dell’Albania settentrionale. La geografia, o piuttosto la geologia, forniscono una ragione essenziale della perdurante importanza storica del Kosovo – in particolare della sua metà orientale. Quest’ultima contiene infatti la più alta concentrazione di ricchezze minerali nell’Europa sud-orientale. La miniera di Trepça (vicino a Mitrovica, a una cinquantina di chilometri a nord di Prishtina), sfruttata da una società britanica negli anni ’20, divenne nel periodo del dopoguerra una delle maggiori fornitrici europee di piombo e zinco; l’area mineraria, compresa un’altra importante miniera sud-est di Prishtina, negli anni’60 si stimò che contasse il 56% delle riserve jugoslave di quei metalli e il 100% di nichel. Inoltre, fornì metà della produzione del Paese di magnesio (di cui la Jugoslavia era il terzo maggior produttore mondiale). Importanti sono anche i depositi di bauxite e cromo nel Kosovo occidentale; vi sono anche grandi miniere di carbone in entrambe le metà del territorio, oltre a giacimenti di rame e ferro. Ma di tutti i possedimenti minerari del Kosovo, quello più importante per quasi tutto il suo primo periodo fu costituito dalle ricche miniere d’argento. Ve ne erano in questa regione fin dai tempi preromani e durante il periodo romani furono estratti su larga scala sia l’argento sia il piombo (e, forse un po’ d’oro). Le rotte commerciali possono svolgere un notevole ruolo nella storia, ma l’importanza strategica del Kosovo non è solo una questione di strade. Dando un occhiata alla carta dei Balcani si capisce perché il Kosovo ebbe un’importanza cosi cruciale per i sultani ottomani. Chiunque detenesse il Kosovo poteva controllarne l’accesso strategico alla Bosnia e all’Albania settentrionale e avrebbe potuto minacciare di tagliare il collegamento tra la Serbia e la regione macedone-egea.



1.2       Gli antichi abitanti dei Balcani e l’impero dei Nemanjić ( Il Kosovo medievale serbo)
L’insediamento di albanesi e serbi nella stessa regione avvenne in epoche molto remote ed è un processo la cui ricostruzione è stata negli ultimi anni manipolata e strumentalizzata da storiografie ingaggiate, o almeno succubi, di suggestioni e fantasmi nazionalistici. Per quanto ne sappiamo una grande ondata migratoria di popolazioni slave, che gli storici antichi descrivono organizzate in numerose comunità dedite all’agricoltura e in misura minore alla pastorizia, occupò, in due flussi distinti tra il V e il VI secolo d. C., i territori a sud del Danubio, allora abitati da greci, illiri, dardani e romani. Costantino Porfirogenito, storico di Bisanzio, colloca il successivo processo di infiltrazione di alcune tribù slave entro i confini dell’Impero bizantino, e più precisamente verso l’interno della Penisola balcanica, negli anni di regno dell’imperatore Eraclio (610-40), il quale aveva pensato di stanziarle nei pressi di Salonicco; non mancano d’altronde prove d’insediamenti slavi anche sulle coste adriatiche dell’attuale Albania, su quelle greche e in Macedonia. Nonostante esse rappresentassero una minaccia per l’integrità territoriale dell’Impero, di recente restaurata dall’efficace politica di Giustiniano (527-65), queste tribù slave imposero la loro permanenza sulla riva destra del Danubio agli imperatori bizantini i quali, con ogni probabilità, la ritennero utile al fine di presidiare i loro confini settentrionali minacciati dalle incursioni di altre popolazioni barbare, gli àvari su tutte. Costoro erano una popolazione nomade così militarmente attrezzata da riuscire a mettere sotto assedio nel 626 Bisanzio e a sottomettere tutti gli slavi del Danubio; questi ultimi negli anni ’20 del VII secolo, guidati dal mercante franco Samo, organizzarono un’inserruzione antiavara che li vide prevalere[1]. Gli antenati di croati, bulgari e serbi, non ancora differenziabili, conobbero un periodo di notevole sviluppo economico e di progresso dell’organizzazione sociale e s’insediarono sul territorio così conquistato rispettivamente in prossimità dell’attuale Croazia, in parte dell’odierna Bulgaria, nella zona nota in italiano come Rascia (dal serbo Raška, il territorio controllato dalla fortezza di Raš), nella Serbia meridionale, e in alcune aree della Dalmazia e del Montenegro di oggi, giungendo a spingersi, durante il VII secolo, fino ai litorali albanesi. “Per assicurare il proprio potere sulle regioni riconquistate, ma anche per rinsaldare la sua influenza sui popoli oltre le frontiere statali, il governo bizantino non si limitò alle spedizioni militari ma fece uso anche di altri metodi e il più efficace fu la
cristianizzazione[2] sin dal VII secolo. Sotto l’imperatore Basilio I (867-86) fu avviato dai monaci Cirillo e Metodio un processo di sistematica conversione al cristianesimo dei serbi, seguito dal loro abbandono dell’alfabeto glagolitico in favore di quello cirillico, base della cultura serba a noi pervenuta. A dispetto di una presenza distribuita su una porzione di territorio ampia come quella sopra descritta, i serbi della Rascia non estesero il loro dominio al Kosovo. Anzi, la prima dominazione slava di quella regione sembra essere stata opera dei bulgari e durò dalla metà del IX secolo all’inizio dell’XI, quando l’imperatore Basilio II (976-1025) riconquistò i Balcani, riposizionando così, dopo 300 anni, la frontiera settentrionale dell’Impero romano d’oriente sul Danubio e la Sava; vasti territori abitati dagli slavi furono posti sotto il dominio diretto di Bisanzio, mentre altri, tra cui la Croazia e la Rascia, dovettero accettare di diventarne vassalli[3] e i loro principi ottennero titoli bizantini corrispondenti al rango di governatori imperiali. Molto più incerta e dibattuta è l’origine del popolo albanese. Secondo le tesi più accreditate esso discende dagli illiri o, in subordine, dai traci. Noel Malcom individua la prima apparizione degli albanesi “sul palcoscenico della storia” nel 1043, nei ranghi dell’esercito guidato da un generale bizantino ribelle, e rileva come nei due secoli successivi i riferimenti ad essi aumentino. Lo stesso autore propone una serie d’ipotesi basate sullo studio della lingua albanese per dimostrare la continuità, o almeno la comune origine, tra una popolazione insediata nei pressi di Durazzo, denominata da Tolomeo nel II secolo d. C. “Albanenses” in latino o “Albanoi” in greco bizantino, e gli albanesi medievali, senza però raggiungere conclusioni esaurienti[4]. Durante l’XI secolo i principati bizantini di Zaculmia, Terbunia e Dioclea si allearono per breve tempo, costituendo un unico nucleo territoriale serbo, retto dal 1036 da Stefano Vojislav, il quale ruppe con la tradizione di lealtà nei confronti dell’Impero bizantino e giurò fedeltà a Roma. Tra il 1160 e il 1170, il Veliki župan[5]  Stefano Nemanja, dopo aspre lotte con i fratelli, fu il primo monarca a unificare sotto il proprio dominio tutto il territorio abitato dai serbi. Costui proveniva da una nobile famiglia di Ribnica, nei pressi dell’attuale Podgorica, area rientrante nella diocesi cattolica di Bar, e aveva ricevuto il battesimo con rito romano. Tra il 1172 e 1173 era stato ostaggio dell’Imperatore Manuele a Costantinopoli, esperienza che scatenò in lui un’illimitata ammirazione per la civiltà bizantina. Ne fu a tal punto colpito che, una volta rientrato in patria, chiese di essere ribattezzato secondo il rito ortodosso dal vescovo della Rascia, zona attorno alla quale egli intese, di lì a poco, organizzare il suo rinnovato dominio approfittando degli sconvolgimenti nell’assetto dei territori sotto il controllo di Bisanzio seguiti all’ascesa dell’Impero bulgaro. Con Stefano Nemanja nacque la dinastia dei Nemanjić e il territorio da lui controllato si ingrandì notevolmente a danno del potente stato confinante a sud, fino a spingersi in Macedonia, attraverso parte del Kosovo e a est fino a conquistare l’importante città di Niš. Nonostante un contrattacco bizantino lo obbligasse a rinunciare a buona parte delle sue conquiste, nel 1196 lo stato di Rascia, ormai Serbia, aveva assorbito l’intero Kosovo orientale. Ai fini di questa tesi è utile sottolineare come, sulla base di questa ricostruzione, il dominio – beninteso, non la presenza – dei serbi in Kosovo cominci solo nella seconda metà del XII secolo. Proprio in quell’anno Stefano Nemanja fu persuaso dal figlio minore Rastko – più noto con il nome monastico di Sava – ad abdicare e, dopo avere a sua volta preso i voti, a ritirarsi sul monte Athos, cedendo il potere al secondogenito Stefano. La fase storica in cui il regno si costituì fu dominata dalle conseguenze della caduta di Costantinopoli ad opera degli eserciti aderenti alla quarta crociata e di Venezia e la conseguente divisione dei territori dell’Impero in feudi retti da crociati. La prima difficoltà che Stefano Nemanjić dovette affrontare fu la faida scatenata dal fratello Vukan, insoddisfatto di essersi visto assegnare dal padre solo un ducato periferico. Questi cercò il sostegno del papa e nel 1202 ottenne l’intervento del re cattolico Imre d’Ungheria che invase la Serbia, esiliò Stefano e pose Vukan sul trono; l’anno successivo un vescovo cattolico ungherese fu inviato presso la sua corte per convertire la Serbia alla fedeltà alla Chiesa di Roma. Ma nel 1204 Imre morì, Vukan perdette il suo protettore e Stefano, sostenuto dalla Chiesa ortodossa, si reinsediò al potere. Lo scontro fra i due fratelli fu ricomposto dall’intervento di Sava, di ritorno dal monte Athos per riportare in patria le spoglie del padre, appena deceduto. Questo sarebbe stato venerato come Simeone, primo santo serbo, e sepolto presso Studenica[6]. Entro il 1216 Stefano si impadronì della porzione occidentale del Kosovo e l’anno successivo fu incoronato re di Serbia da un delegato papale inviato da Roma, guadagnandosi così l’appellativo di Prvovenčani (Primo coronato). Non è chiaro il ruolo che le abilità diplomatiche di Sava ricoprirono nel persuadere papa Onorio III a compiere un atto che spalancava le porte della legittimazione internazionale al regno dei Nemanjić. Certo è invece che le stesse furono fondamentali per convincere il patriarca della Chiesa greca ortodossa a Nicea Manuele, superiore gerarchico delle diocesi serbe (subordinate anche all’arcidiocesi di Ohrid, in quella fase in rivolta contro Manuele) a concedere l’autocefalia alla Chiesa serba nel 1219; è evidente l’interesse del patriarca greco a ridimensionare l’area d’influenza del metropolita di Ohrid. Sava tornò quindi trionfante in Serbia per riorganizzare la chiesa locale a partire dal suo vertice e si nominò arcivescovo. Come tale, emanò un codice noto come Nomokanon, d’ispirazione bizantina e teso ad armonizzare le relazioni tra potere temporale e spirituale. Di fatto Sava forgiò le caratteristiche salienti dello Stato serbo medievale e dell’identità nazionale del suo popolo, basate sul legame tra chiesa, dinastia Nemanjić e potere civile. Nel 1236 Sava morì e fu canonizzato insieme al padre, dando così origine al culto della loro famiglia; ciò garantì prestigio ed egemonia incontestabili ai loro eredi. Come rileva Ćirković:

Gli spostamenti dei confini religiosi e l’opera di riorganizzazione avranno conseguenze tanto più importanti, in quanto proprio allora cominciava un’intensa attività ecclesiastica […]; molto più numerosi divennero i monaci nei monasteri i cui fondatori erano magnati laici, dignitari della Chiesa e i sovrani. Una conseguenza naturale di questo fenomeno fu lo spostamento dell’attività verso la periferia dell’area culturale bizantina, sì che i più significativi esempi dell’architettura e della pittura bizantina si trovano in Serbia[7].

Furono gli eredi dei Nemanjić ad attuare un grandioso programma di costruzione di monasteri in tutte le regioni sotto il proprio dominio, tra i quali i principali sono: Žiča, presso Kraljevo, scelto dallo stesso Sava come sede della Chiesa autocefala; Studenica, nelle vicinanze di Raš, voluto da suo padre Stefano Nemanja; Mileševa, in prossimità del confine con la Bosnia; Sopočani, costruito da Uroš I presso Novi Pazar. Come si può notare risalendo alla posizione geografica di queste località, “la culla del monachesimo serbo nelle prime due o tre generazioni di dominio dei Nemanjić fu situata dove era stata la culla dello stato serbo: non all’interno del Kosovo ma più a nord e a ovest[8]. Le fondazioni di monasteri all’interno dei domini kosovari avvennero soltanto in una fase successiva. La canonizzazione dei Nemanjić non fu importante solo per la diffusione di centri spirituali di tale rilievo, veri e propri capisaldi dell’Ortodossia, ma soprattutto perché “diede al popolo serbo santi provenienti dalle proprie fila e che dal paradiso sarebbero stati infaticabili protettori dello Stato serbo, dei Re serbi, del popolo serbo e di tutto il loro lascito[9]. La canonizzazione rappresentava un passo essenziale nell’edificazione del potere dei Nemanjić. Stefano Nemanja cominciò così ad essere descritto come la “santa radice”, immagine rafforzata dalla diffusione nei luoghi sacri di affreschi dell’albero genealogico della famiglia posto sotto la figura di Gesù Crsito, tutt’oggi ben visibili nel patriarcato di Pejë/Peć e nel monastero di Gračanica. Gli scrittori dei periodi successivi mutuarono da alcune opere di Sava dedicate al padre l’uso di descriverlo utilizzando riferimenti ad Abramo e all’Antico testamento; i suoi discendenti ed il suo popolo diventarono allora il “nuovo Israele” e il “popolo eletto”[10].
Nel frattempo, nel 1199 si teneva il Concilio di Dioclea (l’attuale Podgorica, già Titograd), a cui pare non prendesse parte nessun vescovo slavo e fossero presenti solo prelati d’origine albanese. Tale avvenimento segnò la separazione tra la Chiesa di Albania, rimasta fedele a Roma, e le province slave di Serbia e Montenegro, che invece si posero stabilmente sotto l’influenza del Patriarcato di Costantinopoli. Secondo Aurel Plasari, Dioclea “segna anche l’arrestarsi del processo di slavizzazione delle genti albanesi, legate fin dal VII secolo ai gruppi etnici serbi dalla condivisione di alcune regioni e dalla comune obbedienza alla Chiesa di Roma[11]. Nel 1261 Bisanzio conobbe un ultimo tentativo di rinascita allorquando l’imperatore Michele VIII Paleologo riconquistò Costantinopoli, strappandola di mano ai crociati, e reinsediò il patriarca. Nelle province bizantine si scatenarono numerose guerricciole, scosse d’assestamento conseguenti a sessant’anni di fragili esperimenti politici locali. Una delle più intense si combatté nell’entroterra di Durazzo, dove gli Angioini dell’Italia meridionale avevano insediato il regnum Albaniae, continuazione di un precedente “principato degli Arbani”. L’area rientrò rapidamente sotto il controllo bizantino, ma gli scontri diedero la possibilità ai guerrieri albanesi di distinguersi su entrambi i fronti e guadagnarsi alti titoli e terre; a lavorare su questi latifondi in mano al nuovo ceto dei possidenti albanesi,
appartenenti a famiglie legate tra loro da vincoli di sangue, rimase la popolazione slava già presente[12]. Re Milutin, nipote di Stefano Prvovenčani, conquistò pochi anni dopo la sua incoronazione nel 1282 la grande città di Skopje, facendone la capitale del regno. Dieci anni dopo, sposandosi con una figlia dell’imperatore bizantino, ricevette in dote gran parte della Macedonia che aveva da poco invaso. All’inizio del XIII secolo, spinti i confini del suo dominio fino alle coste adriatiche, Milutin era uno dei monarchi più potenti dei Balcani e inaugurò un’ulteriore ondata di costruzione di monasteri, non solo all’interno del suo regno, ed in Kosovo in particolare, ma anche sul monte Athos, a Salonicco, Costantinopoli e Gerusalemme. Suo figlio Stefano Dečanski, fatto accecare dal padre come punizione per aver guidato una rivolta in gioventù, subì a sua volta la rivolta del proprio primogenito Dušan, il quale sconfisse l’esercito paterno (Dečanski fu strangolato due mesi dopo) e fu incoronato re nel 1331. Dušan guidò lo Stato medievale serbo al suo apogeo, inglobando entro i propri confini – in una fase di guerra civile all’interno dell’Impero bizantino della quale seppe approfittare con grande abilità – l’intera Macedonia eccetto Salonicco, l’Albania, l’Epiro e la Tessaglia, ponendosi così a capo di un enorme territorio che correva dal Danubio al golfo di Corinto. In questa fase fu convocato un concilio di rappresentanti serbi e bulgari della Chiesa ortodossa che decise di elevare l’arcivescovo autocefalo al rango di patriarca, sancendo così lo scisma e la completa indipendenza della Chiesa serba. Proprio il primo patriarca serbo Joanikije (le cui spoglie mortali sono conservate presso il patriarcato di Pejë/Peć) incoronò Dušan “zar dei serbi e dei greci” nel 1346; successivamente il titolo sarebbe stato completato con la dizione “degli albanesi e dei bulgari”. Nonostante Dušan abbia portato lo Stato serbo medievale a simili risultati, egli non fu canonizzato: il probabile parricidio non gli venne perdonato. Nel 1343 Dušan appoggiò Giovanni Cantacuzeno nella rivendicazione al trono bizantino, attorno alla cui assegnazione si stava combattendo l’ennesima guerra civile. La figlia di Cantacuzeno era però già stata data in sposa a Orhan, capostipite dei turchi ottomani, approdati alla fine del secolo XI nel Vicino oriente dopo una secolare migrazione dalla Mongolia e diventati, dopo la conversione all’Islam nel X secolo, egemoni nel mondo islamico e dal 1352, data dell’attraversamento dei Dardanelli, presenti nel Continente europeo. Quando le mire espansionistiche di Dušan cominciarono a rappresentare una minaccia troppo rilevante per ciò che rimaneva dell’impero bizantino, Cantacuzeno chiamò in soccorso il genero musulmano, inaugurando così l’ultima stagione d’agonia dell’impero romano d’oriente.

1.2 Il crollo dello stato medievale serbo
Il crollo dell'Impero serbo-greco sotto zar Uroš V (noto anche come Nejaki, “il Debole”), figlio di Dušan, fu molto rapido e avvenne per disgregazione del potere centrale. Già nei primi anni del suo dominio si era registrata la perdita di ampie porzioni di territorio in Grecia e nel nord della Serbia ad opera dei regni confinanti. Quando si dovette affrontare la successione di Uroš, il fatto che egli non avesse figli causò lo scoppio di una violenta guerra civile nelle fila dell'aristocrazia serba. Già dal 1365 egli governava solo nominalmente, mentre il potere reale era saldamente nelle mani di Vukašin Mrnjavčević, da lui stesso nominato kralj (re). Ma Vukašin perì nella battaglia di Morica del 1371, il primo grande scontro tra l'esercito serbo e quello ottomano; poco dopo morì anche Uroš. È importante segnalare come, per tutta la storiografia moderna, la vittoria turca sul fiume Morica fu di gran lunga più rilevante e gravida di conseguenze in termini strategici e politici della successiva battaglia di Kosovo. Con l'uscita di scena del vecchio zar, si concluse anche la parabola della dinastia Nemanjić, la cui vicenda ed eredità culturale furono prese in consegna e mantenute in vita dalla Chiesa ortodossa, la quale “come istituzione nazionale era essenzialmente una creazione di quella dinastia. Sotto i turchi fu anche l'unica istituzione serba e così, insieme alla poesia epica popolare, finì per celebrare ed adorare la memoria dei Nemanjić[13]. Alla fine del XIV secolo lo Stato serbo era ormai frazionato in un mosaico di domini personali retti da principi locali. Nella strisciante guerra civile tra nobili per la spartizione dell'Impero avrebbe prevalso, in termini di estensione del territorio sotto il proprio controllo, il principe Lazar Hrebeljanović, di stanza presso la città di Kruševac, mentre il principe Vuk Branković si impadronì della Macedonia settentrionale e di buona parte del Kosovo, conquistandone le principali città. A est del suo territorio si estendevano le terre di Lazar il quale, a sua volta, manteneva il controllo di tutta la Serbia centro-settentrionale e del Kosovo orientale, comprese le miniere di Novo Brdo, garanzia di ricchezza illimitata e dunque di potere, nelle cui vicinanze erano stati di recente insediati abili minatori tedeschi provenienti dalla Sassonia. Il più potente signore cristiano dell'aerea era però Tvrtko I, ban di Bosnia, sodale di Lazar nel 1373 nella spartizione dei domini dei Nemanjić nella Serbia occidentale, il quale, nel 1377, facendo leva sulla propria discendenza da un ramo collaterale della dinastia imperiale, si fece incoronare re di Serbia e di Bosnia. Lazar, delle cui origini poco si sa, fu senz'altro un abile tessitore di alleanze; aveva infatti sposato Milica, principessa discendente da un ramo cadetto della famiglia Nemanjić e aveva dato la figlia in moglie a Vuk Branković al fine di evitare che le frequenti lotte intestine facessero il gioco della potenza in ascesa in quegli anni, l'Impero ottomano del giovane Murat I. Questi era dal 1361 impegnato in una campagna d'espansione verso nord le cui tappe fondamentali erano state la presa di Adrianopoli, l'intromissione nelle lotte intestine tra nobili in Albania e quindi la decisiva vittoria sul fiume Morica con cui, nel 1371, i turchi strapparono il controllo della Macedonia ai serbi. In quest'ultima occasione i nuovi padroni di quella regione resero il locale signore serbo Marko Kraljević vassallo tributario, accontentandosi di fatto del versamento annuale di un ingente contributo piuttosto che dell'imposizione di una vera e
propria occupazione. Si era intanto cominciata a diffondere la voce che la morte di Vukašin, principale condottiero dello schieramento serbo sul Morica, fosse dovuta al fatto che egli fosse stato nominato re senza discendere in alcun modo dalla “santa radice” dei Nemanjić. La mossa successiva di Murat fu l'attacco al territorio di Lazar, con la presa di Niš nel 1386. Alcune fonti antiche sostengono che a quel punto lo stesso Lazar optasse per il vassallaggio nei confronti dei turchi, salvo ribellarsi dopo pochi anni, ma la questione rimane incerta. Certo è che Murat marciò sul Kosovo nel 1389; Lazar a quel punto chiese aiuto al bosniaco re Tvrtko che gli inviò un grosso contingente al comando del suo migliore generale, Vlatko Vuković. A sua volta, Vuk Branković si unì all'esercito radunato dal suocero; tra le fila serbe si registrava la presenza di contingenti albanesi provenienti dalle regioni limitrofe e mercenari dalle svariate provenienze, e le stesse caratteristiche multinazionali doveva avere lo spiegamento di forze agli ordini del sultano. Le truppe di questi tre condottieri si radunarono sotto il comando di Lazar a Fushë Kosovë/Kosovo Polje la mattina del 15 giugno (per il calendario giuliano, 28 secondo quello gregoriano) 1389, giorno di San Vito, e si scontrarono con l'esercito di Murat. I turchi prevalsero; entrambi i comandanti supremi, Lazar e Murat, furono uccisi. Al sultanato ascese così il figlio di Murat Bâyazîd, che, dopo aver ucciso il fratello Yakub, riportò in gran fretta l'esercito vittorioso in patria per difendere la propria successione. Stefano Lazarević, figlio di Lazar, alla morte del padre era ancora minorenne. La reggenza toccò quindi a sua madre Milica, la quale dovette affrontare a pochi mesi dalla morte del marito l'invasione della parte settentrionale del territorio serbo ad opera del re d'Ungheria Sigismondo. Constatata la non disponibilità di Ragusa a fornirle aiuto, Milica non poté che accettare la proposta pervenutale nel frattempo da Bâyazîd: in cambio dell'accettazione del vassallaggio in nome del figlio, che comportava di fatto solo il versamento di un tributo annuo e l'invio di truppe in caso di guerra, avrebbe ricevuto l'appoggio militare ottomano. L'accordo ottenne l'avallo della Chiesa ortodossa serba e fu stipulato - ad un solo anno di distanza dalla battaglia di Kosovo - mediante l'atto formale di sottomissione di Stefano Lazarević al sultano. Un passaggio dell'accordo prevedeva che la figlia di Lazar e Milica Olivera si unisse in matrimonio a Bâyazîd (o perlomeno entrasse nel suo harem), cosa che avvenne di lì a poco. Inoltre “nel tentativo di ancorare la sua base di potere contro la potenziale minaccia degli altri signori serbi, Milica mise gli scriba della chiesa al lavoro per santificare Lazar, in modo da rafforzare la rivendicazione di Stefano al potere[14]. Stefano Lazarević acquisì il controllo del suo regno nel 1393 e due anni dopo partecipò con i suoi uomini ad una campagna ottomana ai danni del valacchi. Insomma, il figlio di san Lazar, da allora venerato dalla Chiesa ortodossa serba come il santo martire per eccellenza della barbarie islamica, non ebbe alcun imbarazzo a diventare, per ragioni di asciutta realpolitik, uno dei vassalli del sultano più assidui nell'affiancarlo in battaglia, tanto da risultare essenziale nel respingere la crociata del 1396. Quando però nel 1402, in occasione della guerra contro i mongoli, Bâyazîd morì durante un attacco dell'esercito di Tamerlano presso Ankara, Stefano Lazarević riuscì a portare in salvo i propri uomini, rapire la sorella Olivera e mettersi a disposizione dell'Imperatore bizantino Manuele II Paleologo, il quale gli conferì il titolo di “despota”. Ma quando la guerra civile tra i figli del sultano vide prevalere nel 1413 Maometto I, il figlio di Lazar si sottomise nuovamente agli ottomani, e la sua spregiudicatezza politica lo portò di lì a qualche anno ad accettare anche il vassallaggio per il re d'Ungheria, scelta utile a rafforzare il proprio dominio sul fianco settentrionale del regno. Questa decisione gli costò però l'ostilità turca: nel 1425 il nuovo sultano Murat II invase la Serbia. Diverso atteggiamento assunse Vuk Branković, il quale non prese parte alle campagne ottomane (pur essendosi probabilmente sottomesso alla Sublime porta) e fu per questo punito da Bâyazîd nel 1395 o 1396 con una spedizione militare che lo privò del controllo sul Kosovo. L'area fu rapidamente assegnata ai figli di Branković che accettarono il vassallaggio e i turchi vi lasciarono almeno due consistenti guarnigioni a presidio. Nel 1427 Đurađ Branković, figlio di Vuk e nipote di Stefano Lazarević, ereditò i possedimenti di quest'ultimo. Per allentare la crescente pressione ottomana sul confine meridionale, diede in sposa una figlia al sultano; ciò non bastò però a contenere l'azione espansiva dei turchi che acquisirono il controllo diretto di numerose città e distretti serbi sui quali negli anni successivi imposero il sistema amministrativo e feudale ottomano. Murat II assestò un colpo terribile a Đurađ nel 1441 allorquando, dopo averlo fatto accecare perché sospettato di congiura, conquistò la città di Novo Brdo dalle cui ricchezze minerarie dipendeva la stabilità stessa di quel poco che ormai rimaneva dello Stato serbo. L'occasione per la riscossa arrivò nel 1443, quando il re d'Ungheria Ladislao lanciò una crociata per cacciare i turchi dall'Europa. Đurađ vi prese parte con un contingente e, insieme all'esercito comandato dal leggendario condottiero Jànos Hunyadi, rientrò in Serbia, spingendosi fino a Niš che fu conquistata. Il sultano gli propose allora di riottenere tutto il suo territorio in cambio della sua uscita dalla coalizione crociata. Il primo periodo di diretto 24 dominio turco sulla Serbia durò dunque solo dal 1439 al 1444. Quando Đurađ, reinsediato nel suo ruolo di fedele vassallo ottomano, negò all'esercito ungherese ormai abbandonato da numerosi reparti non magiari il passaggio sul suo territorio, Hunyadì decise di entrare in Bulgaria e a Varna nel 1444 subì una pesante sconfitta ad opera degli ottomani. Questo fu il contesto in cui si sviluppò uno degli episodi decisivi della storia nazionale albanese, la rivolta di Skenderbeg. Originario del Kosovo occidentale, costui (il cui vero nome era Gjergj Kastrioti) era il figlio di un nobile albanese vassallo degli ottomani e pare, ma su questo punto non c'è chiarezza, di una donna serba. La tradizione popolare vuole che egli fosse stato chiamato nel 1443 alla difesa di Niš dal sultano, ma che avesse disertato gli obblighi feudali ritirando i suoi uomini. Rifugiatosi nella fortezza albanese di Kruja si dichiarò cristiano e diede inizio ad una rivolta antiottomana che sarebbe durata 25 anni, segnata da spavalde incursioni in territorio nemico. Nonostante il coraggio così dimostrato, l'impresa più ardita non gli riuscì: nel 1448 egli non fu in grado di congiungersi alle truppe di Hunyadi, in marcia verso il Kosovo come reggente d'Ungheria e desideroso di sfruttare a suo vantaggio il fatto che l'esercito ottomano fosse impegnato a reprimere la rivolta di Skenderbeg. Sembra che Murat II, informato delle mosse di Hunyadi proprio da quel Đurađ Branković di recente riabilitato, ritirò le proprie truppe dall'assedio di Kruja per intercettare i nemici. Fu così che il 17 ottobre 1448 l'esercito ungherese affrontò quello ottomano presso il campo di battaglia per eccellenza della regione, Fushë Kosovë/Kosovo Polje. A differenza di Lazar, Hunyadi poteva contare su un elemento di forza: stava aspettando che Skenderbeg con i suoi ribelli si unisse alle sue truppe per attaccare i turchi su un fianco. Ma il condottiero albanese era rimasto impegnato in una disputa con i veneziani per il controllo di alcune zone costiere e ciò causò un ritardo fatale alle operazioni. Gli ungheresi andarono così di fronte al disastro. Prima della vicenda di Skenderbeg, nelle guerre combattute contro popoli provenienti dall'Europa orientale o occidentale, la nobiltà albanese non aveva dimostrato alcun senso di identità nazionale. Tali lotte rientravano infatti in vicende più ampie al cui vertice si trovavano Bisanzio, la Serbia, la Grecia e infine l'Impero ottomano; soltanto con la rivolta di Kastrioti e la sua ventennale resistenza ai turchi, i signori albanesi si ritagliarono, per la prima volta, un ruolo autonomo nella storia d'Europa[15].
Il nuovo sultano Maometto II, noto come “il Conquistatore”, salì al trono nel 1451; due anni dopo guidò il suo esercito alla presa di Costantinopoli. Egli aveva ormai, di fatto, inglobato ciò che rimaneva dell'Impero romano d'oriente; decise allora di superare l'obsoleta prassi dell'amministrazione indiretta dei territori controllati per mezzo di vassalli, sostituendola con una gestione centralizzata dell'intero territorio a lui sottoposto. Il primo a fare le spese di questo cambiamento radicale di strategia fu proprio Đurađ Branković il quale, fedele al patto stipulato con il sultano, aveva appena contribuito con un contingente all'assedio di Costantinopoli. Nel 1454 Maometto II entrò in Serbia e costrinse l'anziano despota locale a rivolgersi a Hunyadi per ottenere aiuto. L'anno successivo i turchi misero sotto assedio Novo Brdo e costrinsero i serbi alla resa, ponendo il Kosovo sotto il loro controllo diretto. Nel 1456 Belgrado resistette ad un lungo assedio turco grazie all'energica difesa organizzata da Hunyadi, il quale però morì di peste, seguito dopo poco da Branković. I figli di quest'ultimo non trovarono un accordo sulla successione e divennero facile preda dei turchi. Nonostante Belgrado rimanesse in mani ungheresi per ancora più di mezzo secolo, Smederevo, l'ultima fortezza controllata dai serbi, si arrese a Maometto nel 1459, ponendo così fine allo Stato medievale serbo[16]. Un trattamento speciale fu però riservato a quegli insediamenti serbi posti lungo il confine naturale rappresentato dal corso del Danubio e della Sava, ai cui abitanti furono garantiti privilegi, in primo luogo d'ordine fiscale, in cambio di un servizio di guardia dei confini. E in queste vesti molti serbi, ingaggiati dai
turchi, fronteggiarono connazionali che presidiavano le sponde opposte del fiume su incarico degli Asburgo, pronti a garantire a loro volta autogoverno e privilegi[17]. Ultimo atto dell'espansione turca guidata da Maometto II fu l'annessione dell'Albania, alla fine di una lunga campagna durata dal 1468 al 1479, benché qui il potere ottomano fosse destinato a rimanere precario. Oltre alla precedente lunga insurrezione di Skenderbeg, il normale regime amministrativo facente capo alla Sublime Porta fu applicato solo alle popolazioni tosche delle pianure meridionali. Gli appartenenti al gruppo Geg, stanziati a
nord, conservarono invece un'ampia autonomia nel quadro della loro organizzazione tribale tradizionale. I tributi furono sempre versati in modo discontinuo e irregolare e non si riuscì mai a disarmare la popolazione; d'altro canto, a partire dalla fine del XVI secolo questi luoghi divennero uno dei principali distretti d'arruolamento per gli eserciti del sultano.



[1] J. Ferluga, Bisanzio in Storia d’Europa (vol. III), op. cit., p. 249.
[2] Cfr. ibid., p. 258.
[3] Cfr. ibid., p. 258.
[4] Cfr. N. Malcom, op. cit., pp. 59 e seguenti.
[5] Titolo tribale serbo intraducibile.
[6] Cfr. T. Judah, The Serbs. History, Myth & the Destruction of Yugoslavia, New Haven-London, Yale
   University Press, 2000, p. 19.
[7] S. Ćirković, Gli slavi occidentali e meridionali dell’area balcanica, in Storia d’Europa (vol. III), op. cit., p. 588.

[8]   N. Malcom, op. cit., p. 78.
[9]  M. Blagojević, cit. in T. Judah, The Serbs…, cit., p. 20.
[10]  Ibid., p. 21.
[11] A. Pasari, La linea di Teodosio. Alle origini della Questione albanese, Nardò (Le), Besa editrice, 1992, p. 18.
[12] Cfr. S Ćirković, op. cit., p. 589.
[13] T. Judah, The Serbs…, cit., p.17.
[14] Ibid., p. 33.
[15]Cfr. A. Plasari, op. cit., p. 20.
[16] Cfr. N. Malcom, op. cit., pp.121-125.
[17] Cfr. T. Judah, The Serbs…, cit., p. 13. Per una panoramica delle origini della Vojna Krajina (“Frontiera
Militare”) in Slavonia e della compresenza di serbi (e valacchi) e croati in quell'area cfr. le pagine seguenti.

Nessun commento:

Posta un commento