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lunedì 23 ottobre 2023

Riflessioni sugli interventi militari, un aspetto sociologico

 DIBATTITI


Valentina Trogu

 

Lo studio dell’identità di un popolo è determinante nell’ambito della strategia politica e militare al fine di individuare gli aspetti fondamentali che possano indicare la via per costruire una relazione con l’altro, un dialogo e una collaborazione oppure per dichiarare scatto matto all’avversario. Ci troviamo all’interno dei fattori immateriali della strategia, elementi non misurabili e non quantificabili perché connessi strettamente al fattore umano e a comportamenti adottati sulla base delle spinte della propria identità e della propria cultura. Per riuscire a ipotizzare un attacco o una reazione è fondamentale conoscere l’altro e per poter risalire all’azione che metterà in atto occorrerà approfondire le dinamiche sociali e i valori che guidano il suo agire. Tale principio vale in ogni ambito della vita ma a maggior ragione in un contesto militare dove in gioco ci sono delle vite e la storia di una nazione. Adottando questa strategia si potranno compiere le mosse giuste per raggiungere l’obiettivo del momento limitando al massimo i rischi.

Esempio chiarificatore ha come protagonista un decision maker militare che deve intervenire in un contesto di disordine e frammentarietà. Se l’obiettivo è una ricostruzione, occorrerà partire dall’approfondimento di tutti gli aspetti legati al territorio garantendo comprensione e rispetto per il patrimonio culturale dell’altro. Un’operazione italiana in cui si riscontra una strategia di questo tipo accadde in Libano. Siamo agli inizi degli anni ’80 quando un contingente italiano della Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite viene inviato in quel panorama complicato e delicato per dare sostegno alla popolazione.

Spirito di sacrificio, altruismo e grande umanità sono le parole corrette per sottolineare il lavoro svolto da giovani militari di leva 40 anni fa. Il sacrificio di affrontare una missione pericolosa senza avere anni di esperienza alle spalle né un’idea chiara di cosa si sarebbe potuto affrontare. L’altruismo di chi mette a repentaglio la propria vita per risolvere una situazione emergenziale in una nazione lontana dalla propria Patria per onorare quei valori che la cultura trasmette di generazione in generazione. L’umanità dimostrata nella volontà di difendere donne e bambini bloccati in un territorio di conflitti che avrebbe dovuto rappresentare un luogo sicuro e che, al contrario, si è rivelato un campo minato tra fuochi nemici.

L’Italia ha scelto di affrontare una missione di pace diversificando il proprio ruolo rispetto le intenzioni dei marines americani e dei paracadutisti francesi partendo da un presupposto apparentemente molto semplice. Per ricostruire è necessario iniziare dall’approfondimento di tutti gli aspetti più importanti legati al territorio, garantendo rispetto per il patrimonio culturale e comprensione. L’obiettivo vincente è stato, dunque, quello di cercare la costruzione di un dialogo proficuo al fine di introdurre in storie differenti dalla realtà conosciuta degli spiragli di luce insegnando a percorrere strade nuove dirette verso la pace e la collaborazione.

Una strategia differente, come detto, rispetto quella attuata dagli altri stranieri sul suolo libanese ma che ha lasciato un segno indelebile. Il sostegno dato alla popolazione locale in un clima complicato e delicato ha permesso l’instaurazione di quel dialogo non semplice da costruire in un territorio caratterizzato da radicalismo, violenza, conflitti. Il metodo adottato per raggiungere l’intento? Nessun filo spinato intorno al contingente comandato dal Generale Angioini e l’apertura di un ospedale senza restrizioni. Il filo spinato, infatti, avrebbe solamente impedito di superare la divisione tra noi e loro, avrebbe generato diffidenza e aumentato la lontananza tra la nostra storia e la loro ostacolando il superamento delle differenze culturali.

La missione in Libano è, in questo, precursore delle moderne missioni di peacekeeping. Il generale Franco Angioni fece distribuire oltre agli equipaggiamenti militari dei libri e alcuni dossier sulla cultura locale. Una scelta vincente. Conoscere e comprendere le cause di quel conflitto ha permesso ai militari italiani di stabilire rapporti diretti con le parti coinvolte non apparendo come una minaccia ma come un’autentica forza d’interposizione. Ascolto e mediazione, gli italiani si sono dimostrati maestri nell’interpretare questa filosofia ed insegnarla alle altre nazioni. L’analisi dell’interazione tra identità e cultura è fondamentale nella scelta di comprensione dell’altro, una strada privilegiata per aiutare le persone a creare un’interazione costruttiva con chi viene percepito come diverso soprattutto quando si rientra nell’ambito culturale. Un’efficace strategia militare non può ignorare l’importanza di conoscere il gruppo etnico con cui si deve interagire per capire come muoversi rispettando la diversità mentre si lavora per raggiungere il proprio obiettivo.

La missione in Libano aveva chiari intenti. Monitorare le ostilità, effettuare operazioni di pattugliamento, supportare la popolazione locale. Non sarebbe stato possibile senza una conoscenza approfondita del territorio, della cultura locale e della storia di quel popolo da aiutare.

Con molta intelligenza i bersaglieri italiani sono riusciti a trasmettere sicurezza e affidabilità, aiutando i locali a superare le grandi difficoltà scaturite dagli eventi. Il tutto è stato portato avanti, ribadiamo ancora una volta, da giovani uomini che potevano contare unicamente su pochi mesi di addestramento, che avevano lasciato in patria una famiglia e dei compatrioti che molto probabilmente non comprendevano l’importanza della missione e il valore dimostrato da quei militari di leva in territorio straniero.

All’improvviso si sono ritrovati ad avere a che fare con la guerra, quella vera, quella fatta di missili, bombe, suoni nella notte, fame e paura. E di immagini che rimarranno per sempre impresse nella memoria e non saranno mai comprese fino in fondo da chi sente i racconti ma non li ha vissuti realmente.

Dopo Libano 1 e Libano 2 il mondo ha cominciato a riconoscere i meriti del metodo italiano, l’abilità nel definire una strategia né di attacco né di difesa ma di collaborazione, comprensione e intelligenza. Derisi agli esordi, gli italiani sono stati gli unici a contare un solo caduto nella missione di pace, un giovane diciannovenne morto durante un’imboscata al mezzo su cui viaggiava, contro le numerose morti registrate dagli americani e dai francesi – il duplice attentato dinamitardo del 23 ottobre 1983 costò la vita a 241 marines e 56 paracadutisti francesi. E da allora si è prestato più attenzione al “modello italiano”, utilizzato in successive missioni di pace. Basti pensare a quanti bambini sono ancora vivi perché i soldati italiani hanno insegnato loro come riconoscere ed evitare una mina per capire qual è il retaggio di Libano 1 e Libano 2. Un secondo esempio di un’operazione in cui l’intento principale è stato puntare ad una collaborazione che superasse le divisioni etniche è avvenuto in Bosnia Erzegovina. Le Forze Armate hanno iniziato un dialogo non solo con la diplomazia e la polizia ma anche con l’università cercando di coinvolgere nel cambiamento studenti con il sogno della pace. Un impegno che, purtroppo, non è stato ripagato del tutto. A causa della forte componente etnica presente in tanti giovani e della mancanza di un intervento deciso a livello di istruzione l’intervento è risultato fallimentare a dimostrazione di come anche una piccola falla nella strategia possa rivelarsi sufficiente per interrompere la ricostruzione e il dialogo duraturo ma è proprio dalle sconfitte che si apprendono i migliori insegnamenti. L’episodio ha sottolineato come in un contesto di violenza e conflitti debba risultare primario il tentativo di coinvolgimento dei più giovani dato che questi sono gli adulti di domani, coloro che hanno le forze per creare maggiori possibilità di introdurre cambiamenti volti a migliorare una situazione insoddisfacente, le energie e la volontà per opporsi ad aspetti della cultura riconosciuti come non più idonei e discriminanti. Le proteste delle giovani donne iraniane sono un grido di richiesta di rispetto e libertà ascoltato da tutto il mondo tranne che dal governo del proprio Paese. Immaginare un cambiamento in situazioni nelle quali le radici, gli usi e costumi di un popolo hanno portato a condizioni lontane dai valori e dalle ideologie “occidentali” è complicato se non parte da dentro, se non si riesce ad estirpare la violenza dalla cultura della società. Gli aiuti internazionali, le leggi, le convenzioni e gli statuti non sono sufficienti a porre fine a crimini contro l’umanità, ai soprusi a donne e bambini e alle guerre in generale. Perché? Forse perché non si riescono a pianificare interventi efficaci in contesti di difficile comprensione e non si ha la capacità di delineare quadri precisi in cui agire perché non si è dedicata attenzione alla conoscenza della cultura del Paese ma si disegnano strategie partendo da quelli che sono i propri valori, i propri obiettivi, le proprie radici. E il riferimento non è solamente a vecchie o giovani questioni, agli accadimenti in Bosnia Erzegovina, in Iran, in Afghanistan ma anche al conflitto tra Russia e Ucraina.

Dov’è la diplomazia, come sta operando, quali sono i tentativi di mediazione che si stanno compiendo? Tra i bombardamenti si intraprendono conversazioni e si punta alla Turchia come protagonista della mediazione tra Mosca e Kiev. Erdogan si è assunto il compito di comprendere le richieste di entrambe le parti e trovare una soluzione comoda a tutti ma dovrà tener conto non solo del riferimento al grano, ai fertilizzanti, al canale marittimo, alla Siria, alla delicatissima questione della centrale nucleare di Zaporizhzhia ma anche all’obiettivo principale della negoziazione, la fine dei combattimenti e delle morti che da dieci mesi si susseguono. Una matassa da districare prima che la situazione degeneri ulteriormente con l’avanzata sulla scena di altri protagonisti che complicherebbero il già precario equilibrio geopolitico internazionale. È il momento di pianificare la conclusione della guerra e uno sguardo agli insegnamenti di un passato non troppo lontano potrebbe fornire suggerimenti per una saggia ed efficace mediazione.


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