DIBATTITI
Valentina Trogu
Lo studio dell’identità di un popolo è
determinante nell’ambito della strategia politica e militare al fine di
individuare gli aspetti fondamentali che possano indicare la via per costruire
una relazione con l’altro, un dialogo e una collaborazione oppure per
dichiarare scatto matto all’avversario. Ci troviamo all’interno dei fattori
immateriali della strategia, elementi non misurabili e non quantificabili
perché connessi strettamente al fattore umano e a comportamenti adottati sulla
base delle spinte della propria identità e della propria cultura. Per riuscire
a ipotizzare un attacco o una reazione è fondamentale conoscere l’altro e per
poter risalire all’azione che metterà in atto occorrerà approfondire le
dinamiche sociali e i valori che guidano il suo agire. Tale principio vale in
ogni ambito della vita ma a maggior ragione in un contesto militare dove in
gioco ci sono delle vite e la storia di una nazione. Adottando questa strategia
si potranno compiere le mosse giuste per raggiungere l’obiettivo del momento
limitando al massimo i rischi.
Esempio chiarificatore ha come protagonista
un decision maker militare che deve intervenire in un contesto di disordine e
frammentarietà. Se l’obiettivo è una ricostruzione, occorrerà partire
dall’approfondimento di tutti gli aspetti legati al territorio garantendo
comprensione e rispetto per il patrimonio culturale dell’altro. Un’operazione
italiana in cui si riscontra una strategia di questo tipo accadde in Libano.
Siamo agli inizi degli anni ’80 quando un contingente italiano della Forza di
Interposizione in Libano delle Nazioni Unite viene inviato in quel panorama
complicato e delicato per dare sostegno alla popolazione.
Spirito di sacrificio, altruismo e grande umanità sono le parole corrette per sottolineare il lavoro svolto da giovani militari di leva 40 anni fa. Il sacrificio di affrontare una missione pericolosa senza avere anni di esperienza alle spalle né un’idea chiara di cosa si sarebbe potuto affrontare. L’altruismo di chi mette a repentaglio la propria vita per risolvere una situazione emergenziale in una nazione lontana dalla propria Patria per onorare quei valori che la cultura trasmette di generazione in generazione. L’umanità dimostrata nella volontà di difendere donne e bambini bloccati in un territorio di conflitti che avrebbe dovuto rappresentare un luogo sicuro e che, al contrario, si è rivelato un campo minato tra fuochi nemici.
L’Italia ha scelto di affrontare una
missione di pace diversificando il proprio ruolo rispetto le intenzioni dei
marines americani e dei paracadutisti francesi partendo da un presupposto apparentemente
molto semplice. Per ricostruire è necessario iniziare dall’approfondimento di
tutti gli aspetti più importanti legati al territorio, garantendo rispetto per
il patrimonio culturale e comprensione. L’obiettivo vincente è stato, dunque,
quello di cercare la costruzione di un dialogo proficuo al fine di introdurre
in storie differenti dalla realtà conosciuta degli spiragli di luce insegnando
a percorrere strade nuove dirette verso la pace e la collaborazione.
Una strategia differente, come detto, rispetto
quella attuata dagli altri stranieri sul suolo libanese ma che ha lasciato un
segno indelebile. Il sostegno dato alla popolazione locale in un clima
complicato e delicato ha permesso l’instaurazione di quel dialogo non semplice
da costruire in un territorio caratterizzato da radicalismo, violenza,
conflitti. Il metodo adottato per raggiungere l’intento? Nessun filo spinato
intorno al contingente comandato dal Generale Angioini e l’apertura di un
ospedale senza restrizioni. Il filo spinato, infatti, avrebbe solamente
impedito di superare la divisione tra noi e loro, avrebbe generato diffidenza e
aumentato la lontananza tra la nostra storia e la loro ostacolando il
superamento delle differenze culturali.
La missione in Libano è, in questo,
precursore delle moderne missioni di peacekeeping. Il generale Franco Angioni
fece distribuire oltre agli equipaggiamenti militari dei libri e alcuni dossier
sulla cultura locale. Una scelta vincente. Conoscere e comprendere le cause di
quel conflitto ha permesso ai militari italiani di stabilire rapporti diretti
con le parti coinvolte non apparendo come una minaccia ma come un’autentica
forza d’interposizione. Ascolto e mediazione, gli italiani si sono dimostrati
maestri nell’interpretare questa filosofia ed insegnarla alle altre nazioni.
L’analisi dell’interazione tra identità e cultura è fondamentale nella scelta
di comprensione dell’altro, una strada privilegiata per aiutare le persone a
creare un’interazione costruttiva con chi viene percepito come diverso soprattutto
quando si rientra nell’ambito culturale. Un’efficace strategia militare non può
ignorare l’importanza di conoscere il gruppo etnico con cui si deve interagire
per capire come muoversi rispettando la diversità mentre si lavora per
raggiungere il proprio obiettivo.
La missione in Libano aveva chiari
intenti. Monitorare le ostilità, effettuare operazioni di pattugliamento,
supportare la popolazione locale. Non sarebbe stato possibile senza una
conoscenza approfondita del territorio, della cultura locale e della storia di
quel popolo da aiutare.
Con molta intelligenza i bersaglieri
italiani sono riusciti a trasmettere sicurezza e affidabilità, aiutando i
locali a superare le grandi difficoltà scaturite dagli eventi. Il tutto è stato
portato avanti, ribadiamo ancora una volta, da giovani uomini che potevano
contare unicamente su pochi mesi di addestramento, che avevano lasciato in
patria una famiglia e dei compatrioti che molto probabilmente non comprendevano
l’importanza della missione e il valore dimostrato da quei militari di leva in
territorio straniero.
All’improvviso si sono ritrovati ad avere
a che fare con la guerra, quella vera, quella fatta di missili, bombe, suoni
nella notte, fame e paura. E di immagini che rimarranno per sempre impresse
nella memoria e non saranno mai comprese fino in fondo da chi sente i racconti
ma non li ha vissuti realmente.
Dopo Libano 1 e Libano 2 il mondo ha
cominciato a riconoscere i meriti del metodo italiano, l’abilità nel definire
una strategia né di attacco né di difesa ma di collaborazione, comprensione e
intelligenza. Derisi agli esordi, gli italiani sono stati gli unici a contare
un solo caduto nella missione di pace, un giovane diciannovenne morto durante
un’imboscata al mezzo su cui viaggiava, contro le numerose morti registrate
dagli americani e dai francesi – il duplice attentato dinamitardo del 23
ottobre 1983 costò la vita a 241 marines e 56 paracadutisti francesi. E da
allora si è prestato più attenzione al “modello italiano”, utilizzato in
successive missioni di pace. Basti pensare a quanti bambini sono ancora vivi
perché i soldati italiani hanno insegnato loro come riconoscere ed evitare una
mina per capire qual è il retaggio di Libano 1 e Libano 2. Un secondo esempio
di un’operazione in cui l’intento principale è stato puntare ad una
collaborazione che superasse le divisioni etniche è avvenuto in Bosnia
Erzegovina. Le Forze Armate hanno iniziato un dialogo non solo con la
diplomazia e la polizia ma anche con l’università cercando di coinvolgere nel
cambiamento studenti con il sogno della pace. Un impegno che, purtroppo, non è
stato ripagato del tutto. A causa della forte componente etnica presente in
tanti giovani e della mancanza di un intervento deciso a livello di istruzione
l’intervento è risultato fallimentare a dimostrazione di come anche una piccola
falla nella strategia possa rivelarsi sufficiente per interrompere la
ricostruzione e il dialogo duraturo ma è proprio dalle sconfitte che si
apprendono i migliori insegnamenti. L’episodio ha sottolineato come in un
contesto di violenza e conflitti debba risultare primario il tentativo di
coinvolgimento dei più giovani dato che questi sono gli adulti di domani,
coloro che hanno le forze per creare maggiori possibilità di introdurre
cambiamenti volti a migliorare una situazione insoddisfacente, le energie e la
volontà per opporsi ad aspetti della cultura riconosciuti come non più idonei e
discriminanti. Le proteste delle giovani donne iraniane sono un grido di
richiesta di rispetto e libertà ascoltato da tutto il mondo tranne che dal
governo del proprio Paese. Immaginare un cambiamento in situazioni nelle quali
le radici, gli usi e costumi di un popolo hanno portato a condizioni lontane
dai valori e dalle ideologie “occidentali” è complicato se non parte da dentro,
se non si riesce ad estirpare la violenza dalla cultura della società. Gli
aiuti internazionali, le leggi, le convenzioni e gli statuti non sono
sufficienti a porre fine a crimini contro l’umanità, ai soprusi a donne e
bambini e alle guerre in generale. Perché? Forse perché non si riescono a
pianificare interventi efficaci in contesti di difficile comprensione e non si
ha la capacità di delineare quadri precisi in cui agire perché non si è
dedicata attenzione alla conoscenza della cultura del Paese ma si disegnano
strategie partendo da quelli che sono i propri valori,
i propri obiettivi, le proprie radici. E il riferimento non è solamente a
vecchie o giovani questioni, agli accadimenti in Bosnia Erzegovina, in Iran, in
Afghanistan ma anche al conflitto tra Russia e Ucraina.
Dov’è la diplomazia, come sta operando,
quali sono i tentativi di mediazione che si stanno compiendo? Tra i
bombardamenti si intraprendono conversazioni e si punta alla Turchia come
protagonista della mediazione tra Mosca e Kiev. Erdogan si è assunto il compito
di comprendere le richieste di entrambe le parti e trovare una soluzione comoda
a tutti ma dovrà tener conto non solo del riferimento al grano, ai
fertilizzanti, al canale marittimo, alla Siria, alla delicatissima questione
della centrale nucleare di Zaporizhzhia ma anche all’obiettivo principale della
negoziazione, la fine dei combattimenti e delle morti che da dieci mesi si
susseguono. Una matassa da districare prima che la situazione degeneri
ulteriormente con l’avanzata sulla scena di altri protagonisti che
complicherebbero il già precario equilibrio geopolitico internazionale. È il
momento di pianificare la conclusione della guerra e uno sguardo agli
insegnamenti di un passato non troppo lontano potrebbe fornire suggerimenti per
una saggia ed efficace mediazione.
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