APPROFONDIMENTI
Riprendendo le motivazioni della marcia
su Roma di cui è appena caduto il centenario, e proseguendo nello studio del
significato che l’azione ha avuto, vediamo alcuni pensieri e convinzioni che
hanno portato un’idea politica a governare l’Italia ben presto in modo
dittatoriale. Cerchiamo di entrare nell’atmosfera contingente con scritti del
tempo.
Il fascismo inquadrato nella storia
politica delle origini, veniva pensato come un “movimento romantico”,
allacciato alla tradizione spirituale del Risorgimento italiano; quel
Risorgimento ideale legato alla necessità dell’unità politica del Paese fino ai
moti degli anni Quaranta dell’Ottocento, del quale Giuseppe Mazzini aveva chiara
idea: fare appello alle coscienze degli italiani per ottenere un’unitarietà di
popolo, non un insieme di persone soltanto. Un tentativo fallito a causa del
prevalere dello Stato nazionale come necessario al raggiungimento della libertà
individuale. Pertanto non si creò quel nucleo nazionale di unitarietà di popolo
che avrebbe appieno realizzato l’intento mazziniano e dei padri della patria
unita.
Presero piede i liberali che
consideravano la libertà il fine da raggiungere attraverso il mezzo
dell’indipendenza nazionale. A questo punto, il fascismo considera che,
realizzata l’indipendenza nazionale e la libertà, si doveva agire per creare la
coscienza nazionale senza la quale lo Stato diventava soltanto un esercizio di
governo. Davanti alla mancanza di coscienza nazionale, i problemi non potevano
essere risolti in maniera univoca e giusta, perché lo Stato liberale si era
frantumato in una serie di atteggiamenti di scarso effetto. Ecco dunque che,
davanti agli accadimenti del biennio rosso, si era agito in modo frammentario e
poco coerente, dato che il liberismo era privo di contenuto spirituale. Si era
cercato un argine alla diffusione delle idee socialiste, limitandosi ad una
sorta di buonismo verso le classi più deboli, trasformando lo Stato in una
specie di organo di beneficenza allo scopo di dimostrare una più equa
distribuzione della ricchezza.
Il pacifismo di stampo wilsoniano non
faceva altro che dimostrare il contrario della democrazia mazziniana e
nazionale. La crisi spirituale che si era iniziata a percepire prima della
Grande Guerra andava superata: modernismo, sindacalismo e nazionalismo,
fenomeni idealistici dell’anteguerra, dovevano fondersi in un unico termine,
Nazione, e in questo il fascismo, secondo i suoi adepti, aveva un ruolo
determinante.
Diventando partito, avrebbe riassunto a
sé i principi che avevano dato vita ai tre fenomeni; sarebbe stato il germe del
rinnovamento dello Stato a partire dalle fondamenta, ora che lo Stato non era
più una realtà economica, ma un imperativo morale, un organismo etico, la
coscienza etica e ideale della Nazione.
Proprio la generazione uscita dalla
guerra stava maturando una nuova coscienza spirituale con una formula capace di
appagare la scontentezza degli ultimi periodi.
Il fascismo aveva il compito di risvegliare
il problema spirituale che si era assopito e, se era apparso come un movimento
transitorio e contingente, destinato ad involvere, aveva invece maturato in un
anno di battaglie e di sofferto processo di elaborazione, la potente ideologia
che poteva portare avanti.
Anche le anime inquiete che avevano
trovato nel movimento un significato, adesso avevano un argine, proprio loro
che erano tali perché maggiormente possedevano in sé la religione della
Nazione.
Un processo di elaborazione che non
poteva dirsi concluso, ma che era in atto, perché la rivoluzione fascista
permetteva di ricostruire un domani suo alla Nazione. Il fascismo non asserviva
più le stanche ideologie socialista e liberista, ma assumeva una connotazione
sempre più nazionale nella quale costruire una società nuova. Il fascismo, a
differenza delle altre ideologie, aveva in sé il mito, l’utopia, la coscienza
morale del popolo e non si limitava a risolvere o ad ottenere solo risultati
immediati, contingenti, materiali. Quindi se esso aveva dovuto smantellare “le
rocche d’argilla che impedivano il risorgimento delle sane e vitali forze
nazionali”, ora stava elaborando il metodo per lo Stato futuro. Anche il suo
braccio armato serviva per educare la gioventù non ad una lotta impulsiva e sentimentale,
ma ad una prudente e cosciente azione di governo attraverso il raccoglimento e
lo studio che potevano far seguito alla necessaria azione di mano e bellica da
poco conclusa.
Italo Balbo, nel suo Diario del 1922,
alla data del 25 febbraio scriverà: “Oggi si è chiusa la crisi ministeriale che
è durata quasi un mese. Ogni giorno i giornali ci portavano la notizia di una
nuova combinazione: e il giorno dopo immancabilmente ne registravano il
fallimento. Son passati sullo schermo tutti i personaggi del momento: Giolitti,
De Nicola, Orlando, Bonomi, isolati e a coppie, in palamidone e in negligé, a
volontà. Campioni senza valore. Il naso di don Sturzo mira a prendere la
funzione del naso di Cleopatra. Devia la storia, facendo saltare uno dopo
l’altro tutti i ministeri, combinati nei corridoi del parlamento. I giornali
liberali piangono come vigne tagliate. Non hanno torto. Il regime attuale si
sfascia. Non resta che una collezione di statisti decrepiti che comunicano la
loro paralisi al Parlamento e a tutti gli organi dello Stato. I prefetti non
hanno più la bussola. Che spettacolo! Noi fascisti ce ne curiamo poco. È
straordinario come i miei squadristi ignorino persino il nome dei ministri
dimissionari e di quelli in carica. Una volta la politica era tutta concentrata
sui cataclismi di Montecitorio. Oggi soltanto qualche centinaio di
professionisti delle crisi parlamentari se ne occupa. Noi continuiamo a
perlustrare le campagne, a combattere contro i nemici che non hanno perso
l’abitudine di ammazzare i nostri migliori, a occuparci di dar lavoro e
disciplina agli operai. Faccia Roma quel che le piace. Qui comandiamo noi”.
E l’annotazione continua con evidenti
sottolineature di come la bassezza dei “nemici” politici potrebbe indurre anche
i fascisti ad abbassarsi al loro livello.
Sempre Balbo il 30 luglio scriverà nel
suo Diario, a proposito dell’assassinio del fascista ferrarese Aldino Grossi e
del ferimento di altri, sia di Ferrara che di Bologna in quel di Ravenna, che
stavano già smobilitando dopo la firma del patto di pacificazione. L’atto
violento era quanto mai grave, proprio perché aveva preso i fascisti alla
sprovvista, a colpi di rivoltella, poi fuggendo.
All’arrivo di Balbo alcune squadre
fasciste avevano già distrutto il circolo comunista e quello anarchico, mentre
altre irrompevano in quello socialista. “L’impeto dei fascisti travolge ogni
resistenza” che si aveva anche dalle finestre con il lancio di ogni tipo di
oggetti.
Altri circoli vennero incendiati in
varie parti della città, secondo i ricordi di Italo Balbo che decide per una
più vasta azione. Si reca infatti dal questore, mentre Dino Grandi trattiene i
fascisti da altre azioni violente, minacciando di incendiare tutta Ravenna se
non avesse avuto i mezzi necessari per portare i fascisti in salvo altrove. In
mezz’ora, nella concitazione generale, verranno trovati i camion con il pieno
di benzina, molti dei quali della questura stessa. Balbo ammette che si
trattava di un pretesto: era riuscito ad organizzare la “colonna di fuoco” che,
dirigendosi verso la provincia, si vendicava con una rappresaglia.
In ventiquattr’ore di viaggio
ininterrotto, senza soste di nessun tipo, passando per Rimini, Sant’Arcangelo,
Savignano, Cesena, Bertinoro e altri luoghi della provincia di Forlì e di
Ravenna, vennero incendiate “tutte le case rosse, sedi di organizzazioni
socialiste e comuniste. È stata una notte terribile. Il nostro passaggio era
segnato da alte colonne di fuoco e fumo. Tutta la pianura di Romagna fino ai
colli è stata sottoposta alla esasperata rappresaglia dei fascisti, decisi a
finirla per sempre col terrore rosso”. Nessuno scontro con la “teppaglia
bolscevica” dato che, secondo Balbo, i capi erano tutti fuggiti. Una certa
opposizione c’era stata da parte della Regia Guardia, ma “Non è stato sparato
un colpo”.
La formula romantica cozza quindi contro
episodi come quelli esposti, che originano anche, per esempio, per come
relazionano Massimo Rocca e Ottavio Corgini, dallo sciopero generale che aveva
distolto “le forze fasciste in una difesa immediata del loro diritto
all’esistenza e dell’economia nazionale”, impegnati com’erano al risanamento
della finanza pubblica che doveva passare per la riforma della burocrazia,
dalla cessione all’industria privata delle aziende industriali di Stato, dall’abolizione
degli organi statali inutili, allo stesso tempo sopprimendo i sussidi e i
favori a funzionari, privati, cooperative, enti locali. Sono solo alcuni esempi
del programma politico che si andava delineando per il partito che si voleva e
si vedeva al governo.
Benito Mussolini terrà un discorso a
Udine il 20 settembre 1922, in cui la visione romantica del fascismo come
realizzatore ultimo del Risorgimento italiano restante, si materializza
considerando che l’unità territoriale italiana non era completa perché mancante
di Fiume, della Dalmazia e delle altre terre che non erano tornate italiane,
“compiendosi con ciò quel sogno orgoglioso che fermenta nei nostri spiriti”.
Mussolini parla di Roma come cuore di
un’Italia nuova, che deve nascere dalla fusione delle forze sabaude e
piemontesi un po’ statiche e le forze più degne della popolazione, quelle
fresche e insurrezionali. Ammette che la debole accoglienza del suo movimento,
almeno dell’anno prima, la si dovette al cattivo comportamento di alcuni fascisti
stessi. Ora: “Eleviamo, dunque, con animo puro e sgombro da rancori il nostro
pensiero a Roma, che è una delle poche città dello spirito che ci siano nel
mondo, perché a Roma, tra quei sette colli così carichi di storia, si è operato
uno dei più grandi prodigi spirituali che la storia ricordi”.
Il lungo discorso non è scevro di
ulteriori riferimenti e altisonanti memorie, ma si chiude con la certezza, per
il capo del fascismo, che sia i capi del partito che i gregari faranno il loro
dovere. “Prima di procedere ai grandi compiti, procediamo ad una selezione
inesorabile delle nostre file. Non possiamo portarci le impedimenta; siamo un
esercito di veliti, con qualche retrogardia di bravi, solidi territoriali. Ma
non vogliamo che vi siano in mezzo a noi elementi infidi”. Ricordando l’Isonzo
e i cimiteri sacri di guerra, il saluto a Udine è di fare dello spirito degli
indimenticati morti della prima guerra mondiale, lo spirito ardente della
Patria immortale.
A questo punto, il fascismo si prepara
ad andare a manifestare per ottenere quel potere che in effetti otterrà, non
senza però dimostrare varie anime, anche una volta raggiunta quella Roma che
doveva essere faro di innovazione e di vivacità, e ottenuto quel potere che
aveva unito tutti in uno sforzo comune.
Ciascuno aveva motivazioni diverse per
aggregarsi al Partito Nazionale Fascista, sia che fossero fascisti della prima
ora, sia che ci si fossero aggregati dopo la sua stessa nascita, e prima o
immediatamente dopo la marcia su Roma.
Ciascuno poteva considerare volontà
politiche, psicologiche, territoriali o morali, ma di certo non si possono
raggruppare tutti i fascisti sotto la stessa motivazione e tendenza di
realizzazione politica. Si trattava di un movimento, di un partito, variegato
che presentava anche valori e aspetti difficilmente conciliabili. Sarà
Mussolini, dopo la marcia su Roma, a cercare di omogeneizzarli, per ottenere
una stabilità di numeri e di intenti; sostanzialmente cercherà di rendere
innocue le varie frange, ma le lascerà in vita, in modo da non avere nemici
esterni, ma potesse controllare al suo interno le varie voci, spesso snaturate
da contenuti politici realizzabili.
Interessante sarà poi la posizione di
Giuseppe Bottai all’indomani dell’omicidio Matteotti, quando scriverà che la parola
che risuonava più forte era revisionismo.
“Dalla morte di Matteotti in poi la
parola è di moda. Dichiariamo che è una parola di moda che ci fa schifo, perché
cotesto, revisionismo di dopo il fattaccio assomiglia alla paura o,
almeno, alla preoccupazione personale. I revisionisti dell’ultim’ora son
fatti della medesima vilissima pasta dei fascisti dell’ultim’ora: gente ch’ama
la retroguardia per essere all’avanguardia in caso di rovesciamento di fronte”.
A Bottai sta bene che si parli di
pulizia sulla scia dell’omicidio accaduto, “ma non troviamo che per sentire il
bisogno di vivere più sul pulito ci volessero un cadavere e una parola nuova di
zecca”. Per Bottai revisionismo era eguale ad epurazione, e si vanta di averla
chiesta dalle colonne di “Critica Fascista” sin dal 1922, ma più fortemente
nell’ottobre del 1923, quando il revisionismo interno al fascismo doveva
servire da pulizia e polizia interna al partito, sotto forma di “esame di
coscienza” non tanto in senso moralistico “ma morale, con la pia speranza
che ognuno vi scorgesse un problema intimo del Partito, che deve trovare
le vie della risoluzione attraverso un più raffinato e vigile senso storico e
un più fine intuito psicologico”. Intento era creare una corrente “più limpida
e serena” interna al Partito in modo da non perdere la sua funzione demiurga e
demagogica, ma farla in modo oculato, e in fondo scevro di quella folle
violenza che l’aveva caratterizzato all’inizio, come abbiamo esemplificato.
Giuseppe Bottai pensa che, dopo la
marcia su Roma, ci fosse nel Partito Fascista “una crisi di abbandono e di
rilassamento” e, mentre alcuni pensavano che l’unico modo per salvare il
fascismo fosse fare diventare tutto e tutti fascisti, lui pensa che una delle
cause della crisi interna al movimento fosse non aver fatto una cernita tra i
suoi adepti mano a mano che si iscrivevano o aderivano al partito stesso: “Per
dare al Fascismo significato e funzione universali, come noi vogliamo, non è di
mestieri che tutti ci si ficchin dentro”. Quindi non tanto la lotta ad oltranza
o una nuova marcia su Roma doveva essere la norma del Partito in quell’estate
1924, non doveva basarsi sempre e soltanto su azioni violente e incendiarie
degli animi, quanto la marcia oppure la conquista del potere doveva essere
soltanto un momento dell’esistere del Partito Fascista.
E a lettere cubitali scrive: “Noi non
abbiamo il potere perché abbiamo fatta la rivoluzione, ma abbiamo il potere
perché dobbiamo fare la rivoluzione”, e la rivoluzione la si doveva organizzare
non tanto con le sollevazioni e le armi, quanto con la ricerca di nuovi
equilibri delle attività e delle funzioni dello Stato, “rielaborandone i
principi e consolidandone gli istituti”. Chi non si fosse reso conto di quello,
si metteva pericolosamente in disequilibrio tra il Partito e la Nazione. E
chiaramente contesta le modalità dei ras quando sono basate solo ed
esclusivamente sulla violenza, senza portare al radicale impegno fascista di
modernizzare (secondo la loro visione) lo Stato liberale senza tornare sulle
orme giolittiane o di altre figure politiche italiane incapaci, sempre secondo
il pensiero fascista, di governare a dovere quel nuovo momento storico.
Certo non ora, al potere nel delicato
momento del 1924 che aveva visto l’assassinio del deputato socialista
Matteotti, si andava a prendere lezioni di fascismo da chi ne era fuori o da
chi lo aveva contestato, ma si spendeva nel dare illuminazioni e consigli di
governo: “Noi difendiamo il Fascismo nella sua essenza spirituale e morale,
così come ci apparve nella tormentata vigilia: eroico senza jattanza, costruttivo
senza retorica, severo, umano e italiano!”, scriveva Giuseppe Bottai. Una forma
forte che manteneva quella valenza romantica così profonda per chi credeva
fermamente nella positiva realizzazione di un’idea. Vedremo come altre voci si
esprimeranno e come affronteranno il percorso politico italiano.
Alessia Biasiolo
Nessun commento:
Posta un commento