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sabato 28 ottobre 2023

Alessia Biasiolo: La dimensione romantica del fascismo

 APPROFONDIMENTI



Riprendendo le motivazioni della marcia su Roma di cui è appena caduto il centenario, e proseguendo nello studio del significato che l’azione ha avuto, vediamo alcuni pensieri e convinzioni che hanno portato un’idea politica a governare l’Italia ben presto in modo dittatoriale. Cerchiamo di entrare nell’atmosfera contingente con scritti del tempo.

 

Il fascismo inquadrato nella storia politica delle origini, veniva pensato come un “movimento romantico”, allacciato alla tradizione spirituale del Risorgimento italiano; quel Risorgimento ideale legato alla necessità dell’unità politica del Paese fino ai moti degli anni Quaranta dell’Ottocento, del quale Giuseppe Mazzini aveva chiara idea: fare appello alle coscienze degli italiani per ottenere un’unitarietà di popolo, non un insieme di persone soltanto. Un tentativo fallito a causa del prevalere dello Stato nazionale come necessario al raggiungimento della libertà individuale. Pertanto non si creò quel nucleo nazionale di unitarietà di popolo che avrebbe appieno realizzato l’intento mazziniano e dei padri della patria unita.

Presero piede i liberali che consideravano la libertà il fine da raggiungere attraverso il mezzo dell’indipendenza nazionale. A questo punto, il fascismo considera che, realizzata l’indipendenza nazionale e la libertà, si doveva agire per creare la coscienza nazionale senza la quale lo Stato diventava soltanto un esercizio di governo. Davanti alla mancanza di coscienza nazionale, i problemi non potevano essere risolti in maniera univoca e giusta, perché lo Stato liberale si era frantumato in una serie di atteggiamenti di scarso effetto. Ecco dunque che, davanti agli accadimenti del biennio rosso, si era agito in modo frammentario e poco coerente, dato che il liberismo era privo di contenuto spirituale. Si era cercato un argine alla diffusione delle idee socialiste, limitandosi ad una sorta di buonismo verso le classi più deboli, trasformando lo Stato in una specie di organo di beneficenza allo scopo di dimostrare una più equa distribuzione della ricchezza.

Il pacifismo di stampo wilsoniano non faceva altro che dimostrare il contrario della democrazia mazziniana e nazionale. La crisi spirituale che si era iniziata a percepire prima della Grande Guerra andava superata: modernismo, sindacalismo e nazionalismo, fenomeni idealistici dell’anteguerra, dovevano fondersi in un unico termine, Nazione, e in questo il fascismo, secondo i suoi adepti, aveva un ruolo determinante.

Diventando partito, avrebbe riassunto a sé i principi che avevano dato vita ai tre fenomeni; sarebbe stato il germe del rinnovamento dello Stato a partire dalle fondamenta, ora che lo Stato non era più una realtà economica, ma un imperativo morale, un organismo etico, la coscienza etica e ideale della Nazione.

Proprio la generazione uscita dalla guerra stava maturando una nuova coscienza spirituale con una formula capace di appagare la scontentezza degli ultimi periodi.

Il fascismo aveva il compito di risvegliare il problema spirituale che si era assopito e, se era apparso come un movimento transitorio e contingente, destinato ad involvere, aveva invece maturato in un anno di battaglie e di sofferto processo di elaborazione, la potente ideologia che poteva portare avanti.

Anche le anime inquiete che avevano trovato nel movimento un significato, adesso avevano un argine, proprio loro che erano tali perché maggiormente possedevano in sé la religione della Nazione.

Un processo di elaborazione che non poteva dirsi concluso, ma che era in atto, perché la rivoluzione fascista permetteva di ricostruire un domani suo alla Nazione. Il fascismo non asserviva più le stanche ideologie socialista e liberista, ma assumeva una connotazione sempre più nazionale nella quale costruire una società nuova. Il fascismo, a differenza delle altre ideologie, aveva in sé il mito, l’utopia, la coscienza morale del popolo e non si limitava a risolvere o ad ottenere solo risultati immediati, contingenti, materiali. Quindi se esso aveva dovuto smantellare “le rocche d’argilla che impedivano il risorgimento delle sane e vitali forze nazionali”, ora stava elaborando il metodo per lo Stato futuro. Anche il suo braccio armato serviva per educare la gioventù non ad una lotta impulsiva e sentimentale, ma ad una prudente e cosciente azione di governo attraverso il raccoglimento e lo studio che potevano far seguito alla necessaria azione di mano e bellica da poco conclusa.

 

Italo Balbo, nel suo Diario del 1922, alla data del 25 febbraio scriverà: “Oggi si è chiusa la crisi ministeriale che è durata quasi un mese. Ogni giorno i giornali ci portavano la notizia di una nuova combinazione: e il giorno dopo immancabilmente ne registravano il fallimento. Son passati sullo schermo tutti i personaggi del momento: Giolitti, De Nicola, Orlando, Bonomi, isolati e a coppie, in palamidone e in negligé, a volontà. Campioni senza valore. Il naso di don Sturzo mira a prendere la funzione del naso di Cleopatra. Devia la storia, facendo saltare uno dopo l’altro tutti i ministeri, combinati nei corridoi del parlamento. I giornali liberali piangono come vigne tagliate. Non hanno torto. Il regime attuale si sfascia. Non resta che una collezione di statisti decrepiti che comunicano la loro paralisi al Parlamento e a tutti gli organi dello Stato. I prefetti non hanno più la bussola. Che spettacolo! Noi fascisti ce ne curiamo poco. È straordinario come i miei squadristi ignorino persino il nome dei ministri dimissionari e di quelli in carica. Una volta la politica era tutta concentrata sui cataclismi di Montecitorio. Oggi soltanto qualche centinaio di professionisti delle crisi parlamentari se ne occupa. Noi continuiamo a perlustrare le campagne, a combattere contro i nemici che non hanno perso l’abitudine di ammazzare i nostri migliori, a occuparci di dar lavoro e disciplina agli operai. Faccia Roma quel che le piace. Qui comandiamo noi”.

E l’annotazione continua con evidenti sottolineature di come la bassezza dei “nemici” politici potrebbe indurre anche i fascisti ad abbassarsi al loro livello.

Sempre Balbo il 30 luglio scriverà nel suo Diario, a proposito dell’assassinio del fascista ferrarese Aldino Grossi e del ferimento di altri, sia di Ferrara che di Bologna in quel di Ravenna, che stavano già smobilitando dopo la firma del patto di pacificazione. L’atto violento era quanto mai grave, proprio perché aveva preso i fascisti alla sprovvista, a colpi di rivoltella, poi fuggendo.

All’arrivo di Balbo alcune squadre fasciste avevano già distrutto il circolo comunista e quello anarchico, mentre altre irrompevano in quello socialista. “L’impeto dei fascisti travolge ogni resistenza” che si aveva anche dalle finestre con il lancio di ogni tipo di oggetti.

Altri circoli vennero incendiati in varie parti della città, secondo i ricordi di Italo Balbo che decide per una più vasta azione. Si reca infatti dal questore, mentre Dino Grandi trattiene i fascisti da altre azioni violente, minacciando di incendiare tutta Ravenna se non avesse avuto i mezzi necessari per portare i fascisti in salvo altrove. In mezz’ora, nella concitazione generale, verranno trovati i camion con il pieno di benzina, molti dei quali della questura stessa. Balbo ammette che si trattava di un pretesto: era riuscito ad organizzare la “colonna di fuoco” che, dirigendosi verso la provincia, si vendicava con una rappresaglia.

In ventiquattr’ore di viaggio ininterrotto, senza soste di nessun tipo, passando per Rimini, Sant’Arcangelo, Savignano, Cesena, Bertinoro e altri luoghi della provincia di Forlì e di Ravenna, vennero incendiate “tutte le case rosse, sedi di organizzazioni socialiste e comuniste. È stata una notte terribile. Il nostro passaggio era segnato da alte colonne di fuoco e fumo. Tutta la pianura di Romagna fino ai colli è stata sottoposta alla esasperata rappresaglia dei fascisti, decisi a finirla per sempre col terrore rosso”. Nessuno scontro con la “teppaglia bolscevica” dato che, secondo Balbo, i capi erano tutti fuggiti. Una certa opposizione c’era stata da parte della Regia Guardia, ma “Non è stato sparato un colpo”.

La formula romantica cozza quindi contro episodi come quelli esposti, che originano anche, per esempio, per come relazionano Massimo Rocca e Ottavio Corgini, dallo sciopero generale che aveva distolto “le forze fasciste in una difesa immediata del loro diritto all’esistenza e dell’economia nazionale”, impegnati com’erano al risanamento della finanza pubblica che doveva passare per la riforma della burocrazia, dalla cessione all’industria privata delle aziende industriali di Stato, dall’abolizione degli organi statali inutili, allo stesso tempo sopprimendo i sussidi e i favori a funzionari, privati, cooperative, enti locali. Sono solo alcuni esempi del programma politico che si andava delineando per il partito che si voleva e si vedeva al governo.

Benito Mussolini terrà un discorso a Udine il 20 settembre 1922, in cui la visione romantica del fascismo come realizzatore ultimo del Risorgimento italiano restante, si materializza considerando che l’unità territoriale italiana non era completa perché mancante di Fiume, della Dalmazia e delle altre terre che non erano tornate italiane, “compiendosi con ciò quel sogno orgoglioso che fermenta nei nostri spiriti”.

Mussolini parla di Roma come cuore di un’Italia nuova, che deve nascere dalla fusione delle forze sabaude e piemontesi un po’ statiche e le forze più degne della popolazione, quelle fresche e insurrezionali. Ammette che la debole accoglienza del suo movimento, almeno dell’anno prima, la si dovette al cattivo comportamento di alcuni fascisti stessi. Ora: “Eleviamo, dunque, con animo puro e sgombro da rancori il nostro pensiero a Roma, che è una delle poche città dello spirito che ci siano nel mondo, perché a Roma, tra quei sette colli così carichi di storia, si è operato uno dei più grandi prodigi spirituali che la storia ricordi”.

Il lungo discorso non è scevro di ulteriori riferimenti e altisonanti memorie, ma si chiude con la certezza, per il capo del fascismo, che sia i capi del partito che i gregari faranno il loro dovere. “Prima di procedere ai grandi compiti, procediamo ad una selezione inesorabile delle nostre file. Non possiamo portarci le impedimenta; siamo un esercito di veliti, con qualche retrogardia di bravi, solidi territoriali. Ma non vogliamo che vi siano in mezzo a noi elementi infidi”. Ricordando l’Isonzo e i cimiteri sacri di guerra, il saluto a Udine è di fare dello spirito degli indimenticati morti della prima guerra mondiale, lo spirito ardente della Patria immortale.

A questo punto, il fascismo si prepara ad andare a manifestare per ottenere quel potere che in effetti otterrà, non senza però dimostrare varie anime, anche una volta raggiunta quella Roma che doveva essere faro di innovazione e di vivacità, e ottenuto quel potere che aveva unito tutti in uno sforzo comune.

Ciascuno aveva motivazioni diverse per aggregarsi al Partito Nazionale Fascista, sia che fossero fascisti della prima ora, sia che ci si fossero aggregati dopo la sua stessa nascita, e prima o immediatamente dopo la marcia su Roma.

Ciascuno poteva considerare volontà politiche, psicologiche, territoriali o morali, ma di certo non si possono raggruppare tutti i fascisti sotto la stessa motivazione e tendenza di realizzazione politica. Si trattava di un movimento, di un partito, variegato che presentava anche valori e aspetti difficilmente conciliabili. Sarà Mussolini, dopo la marcia su Roma, a cercare di omogeneizzarli, per ottenere una stabilità di numeri e di intenti; sostanzialmente cercherà di rendere innocue le varie frange, ma le lascerà in vita, in modo da non avere nemici esterni, ma potesse controllare al suo interno le varie voci, spesso snaturate da contenuti politici realizzabili.

Interessante sarà poi la posizione di Giuseppe Bottai all’indomani dell’omicidio Matteotti, quando scriverà che la parola che risuonava più forte era revisionismo.

“Dalla morte di Matteotti in poi la parola è di moda. Dichiariamo che è una parola di moda che ci fa schifo, perché cotesto, revisionismo di dopo il fattaccio assomiglia alla paura o, almeno, alla preoccupazione personale. I revisionisti dell’ultim’ora son fatti della medesima vilissima pasta dei fascisti dell’ultim’ora: gente ch’ama la retroguardia per essere all’avanguardia in caso di rovesciamento di fronte”.

A Bottai sta bene che si parli di pulizia sulla scia dell’omicidio accaduto, “ma non troviamo che per sentire il bisogno di vivere più sul pulito ci volessero un cadavere e una parola nuova di zecca”. Per Bottai revisionismo era eguale ad epurazione, e si vanta di averla chiesta dalle colonne di “Critica Fascista” sin dal 1922, ma più fortemente nell’ottobre del 1923, quando il revisionismo interno al fascismo doveva servire da pulizia e polizia interna al partito, sotto forma di “esame di coscienza” non tanto in senso moralistico “ma morale, con la pia speranza che ognuno vi scorgesse un problema intimo del Partito, che deve trovare le vie della risoluzione attraverso un più raffinato e vigile senso storico e un più fine intuito psicologico”. Intento era creare una corrente “più limpida e serena” interna al Partito in modo da non perdere la sua funzione demiurga e demagogica, ma farla in modo oculato, e in fondo scevro di quella folle violenza che l’aveva caratterizzato all’inizio, come abbiamo esemplificato.

Giuseppe Bottai pensa che, dopo la marcia su Roma, ci fosse nel Partito Fascista “una crisi di abbandono e di rilassamento” e, mentre alcuni pensavano che l’unico modo per salvare il fascismo fosse fare diventare tutto e tutti fascisti, lui pensa che una delle cause della crisi interna al movimento fosse non aver fatto una cernita tra i suoi adepti mano a mano che si iscrivevano o aderivano al partito stesso: “Per dare al Fascismo significato e funzione universali, come noi vogliamo, non è di mestieri che tutti ci si ficchin dentro”. Quindi non tanto la lotta ad oltranza o una nuova marcia su Roma doveva essere la norma del Partito in quell’estate 1924, non doveva basarsi sempre e soltanto su azioni violente e incendiarie degli animi, quanto la marcia oppure la conquista del potere doveva essere soltanto un momento dell’esistere del Partito Fascista.

E a lettere cubitali scrive: “Noi non abbiamo il potere perché abbiamo fatta la rivoluzione, ma abbiamo il potere perché dobbiamo fare la rivoluzione”, e la rivoluzione la si doveva organizzare non tanto con le sollevazioni e le armi, quanto con la ricerca di nuovi equilibri delle attività e delle funzioni dello Stato, “rielaborandone i principi e consolidandone gli istituti”. Chi non si fosse reso conto di quello, si metteva pericolosamente in disequilibrio tra il Partito e la Nazione. E chiaramente contesta le modalità dei ras quando sono basate solo ed esclusivamente sulla violenza, senza portare al radicale impegno fascista di modernizzare (secondo la loro visione) lo Stato liberale senza tornare sulle orme giolittiane o di altre figure politiche italiane incapaci, sempre secondo il pensiero fascista, di governare a dovere quel nuovo momento storico.

Certo non ora, al potere nel delicato momento del 1924 che aveva visto l’assassinio del deputato socialista Matteotti, si andava a prendere lezioni di fascismo da chi ne era fuori o da chi lo aveva contestato, ma si spendeva nel dare illuminazioni e consigli di governo: “Noi difendiamo il Fascismo nella sua essenza spirituale e morale, così come ci apparve nella tormentata vigilia: eroico senza jattanza, costruttivo senza retorica, severo, umano e italiano!”, scriveva Giuseppe Bottai. Una forma forte che manteneva quella valenza romantica così profonda per chi credeva fermamente nella positiva realizzazione di un’idea. Vedremo come altre voci si esprimeranno e come affronteranno il percorso politico italiano.

 

Alessia Biasiolo

 


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