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lunedì 13 gennaio 2020

Testimonianze. 20 Luglio 1944.


DIBATTITI
 Corpo Italiano di Liberazione
II Corpo Polacco
 L'attacco per Manovra

Compito del C.I.L. era quello di dare copertura alla colonna centrale polacca (3 Divisione) mentre la 5 Divisione svolgeva l'azione di fissaggio sulla vi di facilitazione principale (Baraccola e fascia costiera)

L’occupazione di Jesi

Sergio Pivetta, nel suo diario, sotto la data del 20 luglio riporta poche ma significative annotazioni di quei momenti:

La notte passa tranquilla. E’ l’alba. Attacchiamo. Superata d’assalto la villa dove ieri sera si erano barricati, hanno dovuto abbandonarla precipitosamente. Tela di gran galoppo… Stamani siamo entrati in Jesi. La popolazione ci ha ricordato quella di Rapino: brava gente ..e che vino… Poi, i soli tristi spettacoli. Vendette, bastonate, i fazzoletti rossi si danno da fare. E’ disgustoso!”[1]
La conquista di Jesi la mattina del 20 luglio rappresenta il momento finale dell’azione del Corpo Italiano di Liberazione nell’azione per la conquista di Ancona. Occupare Jesi significò chiudere ogni azione tedesca che poteva essere portato sul fianco delle forze alleate attaccanti. Il Comando del 3° Reggimento alpini, col. Maggiorino Anfosso, così comunica al Comando della I Brigata la situazione:
“Fonogramma in partenza. Dal Comando 3° Alpini At Comando I Brigata. N. 100/Op. Alt. 20 luglio 1944 = ore 8,30 Alt At ore 7 “Piemonte” entrato in Jesi da margini occidentali alt gruppo someggiato zona casa Fronti (41-35) alt batteria controcarri sta assumendo schieramento margini ovest et nord ovest Jesi alt io procedo su Jesi alt oltre ai due prigionieri catturati nell’azione di ieri sono state catturate 3 mitragliatrici – i lanciabombe et materiale vario. Alt. Firmato Maggiorino”[2]
     
Fra le tante testimonianze del battaglione “Piemonte”, quella del s. ten. medico Augusto Giammiro, è interessante. Dopo aver ricordato che il piano di attacco del battaglione non prevedeva un attacco frontale alla città di Jesi ma ai fianchi per evitare distruzioni inutili, con la possibilità di chiudere in una sacca le unità e reparti Tedeschi che difendevano Jesi, rileva che i Tedeschi stessi, accortesi di questi piano, si ritirano con ordine ma non ebbero il tempo di attuare quelle distruzioni che erano soliti fare al momento di lasciare un abitato o una città, anche se il s. ten. Giammiro ricorda la periferia nord di Jesi disseminata di incendi e coperta di fumo.
Il plotone sanitario, al comando di Giammiro, composto da lui come tenente medico e da quattro alpini “portaferiti”.

“Al momento della partenza dei reparti, il Colonnello Comandante mi comunicò che dovevo rimanere fermo almeno per due ore dopo di che il piccolo plotone sanitario doveva indirizzarsi dritto verso una casa da lì distante circa due chilometri. Quello era il punto di soccorso medico. Successivamente, sulla base di eventuali scontri di fucileria, dovevo raggiungere la sottostante città recuperare l’ospedale civile ed issare sul balcone la bandiera tricolore quale segnale di occupazione avvenuta. Raggiunta la casa, sotto il pericolo dei cecchini, trovammo tutto in ordine, senza segni di abbandono fu così che chiamammo a voce alta dicendo di essere alpini in aiuto, nella speranza di far “uscire” eventuali cittadini nascosti ed allora sentii una voce che chiedeva: chi siete? Alla mia risposta siamo amici alpini Italiani, vedemmo aprirsi una botola dal pavimento è fuoriuscire impressionati grida di gioia e di evviva “siamo salvi, sono alpini”. Usciti dallo scantinato raccomandavo il massimo silenzio, cosa non facile data la presenza di molti bambini. Si trattava di oltre cento persone rifugiatesi nei sotterranei. Erano ancora terrorizzati e nel vedere noi alpini non credevano ancora ai loro occhi perché i Tedeschi erano andati via, affermando prossimo l’arrivo delle truppe marocchine. Ristabilita la calma e rifocillatici con anche del gradito buon verdicchio, il rumore di alcuni spari ci ricordava di raggiungere l’ospedale. Ivi giunti, non incontrammo problemi, , tranne la difficoltà di trovare il tricolore da esporre; gli alpini di guardia alle finestre. Dopo di che, finalmente l’arrivo della pattuglia del ten. Corvino grazie al quale la popolazione scese festosa per le strade dando alimenti e buon vino agli alpini che ne avevano veramente bisogno. Il giorno dopo, per normale avvicendamento la prima linea era presidiata dai paracadutisti della Nembo. Ci furono violenti combattimenti e ricordo, con molta tristezza, il corridoio dell’ospedale pieno di cadaveri di paracadutisti, oltre ai feriti in corsia.”[3]


[1] Pivetta S., Tutto per l’Italia. Diario di un alpino del battaglione “Piemonte”, cit, pag. 77
[2] Archivio Sergio Pivetta, Allegato 61, Copia.
[3] Giammiro Augusto, Il 20 luglio 1944 a Jesi rivissuto dall’Ufficiale Medico del Battaglione Alpini Piemonte in l’Alpino, novembre 1944.

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