APPROFONDIMENTI
La seconda guerra mondiale.
Rapporti tra Italia e Germania
all'indomani della caduta del fascimo
La seconda guerra mondiale.
Rapporti tra Italia e Germania
all'indomani della caduta del fascimo
Giovanni Cecini
La guerra
parallela dell’Italia fascista, divenuta in breve guerra subalterna della
Germania nazista, mostra con particolare drammaticità il perenne e malcelato
senso d’insofferenza e sospetto, che regnava tra i due alleati dell’Asse. Per
questi motivi, al pari del clima di sfiducia regnante tra Vienna e Berlino a
partire dal 1916 per via di una possibile richiesta austriaca di pace, questa
volta nel bel mezzo del Secondo conflitto mondiale Roma veniva tenuta sotto
osservazione dall’Alto comando germanico, dai funzionari e dagli agenti del
servizi segreti nazisti in relazione a un possibile tradimento italiano.
Rispetto agli
anni del massimo consenso, a seguito dell’entrata in guerra e dell’immediata
serie di cocenti sconfitte, a partire dall’autunno del 1940 Mussolini si sentì
franare la terra sotto ai piedi nel gioco dell’autorevolezza interna ed
esterna. In tale logica va intesa quindi la preoccupazione che Hitler e i suoi
generali iniziarono a nutrire nei confronti della sorte dell’imprudente Duce e
del suo regime. Il Führer aveva una fiducia quasi cieca per il vecchio maestro,
ma possibili disgrazie politiche, come una sollevazione popolare o il ripristino
delle prerogative costituzionali da parte del re e imperatore, appoggiato dai
sempre più insofferenti capi militari, rappresentavano una rischiosa incognita
sulla prosecuzione dello sforzo bellico dell’Italia. Alle basi di questi forti
timori vi erano non tanto quindi ragioni tattico-operative, vista la sostanziale
inaffidabilità del contributo militare italiano, quanto motivazioni
strategiche, considerato che uno sganciamento di Roma avrebbe pericolosamente
aperto il fianco mediterraneo a una probabile e rapida avanzata continentale
degli Anglo-americani.
Lo stesso
Mussolini, consapevole che gli equilibri politici interni erano sempre sul
punto di lacerarsi, in un frammisto di autocompatimento e desiderio di rivalsa
continuò a chiedere con insistenza a Hitler truppe e materiali da poter impiegare
sui fronti interessati dalle Regie Forze Armate. Durante l’incontro avvenuto ai
primi di aprile del 1943 nel castello di Klessheim, presso Salisburgo, il Duce
consigliò di giungere ad un armistizio con i sovietici per concentrare tutte le
forze contro le democrazie occidentali. Il Führer non volle sentir ragioni,
convinto che l’avamposto tunisino sarebbe stato un baluardo insormontabile, da
dove l’Asse avrebbe riguadagnato tutti i territori perduti in Africa, tanto da
risollevare le sorti della guerra.
Per tali motivazioni
a partire da quel momento la presenza germanica nella Penisola crebbe a
dismisura, paventando non tanto uno stanziamento difensivo di supporto alle
operazioni oltremare, ma quasi una velata invasione preparatoria di una prossima
occupazione vera e propria.
Infatti sin
dalla primavera del 1943 l’Alto comando tedesco pianificò con precisione varie
azioni, tutte rivolte a trovare il massimo vantaggio dal probabile mutamento di
scenario diplomatico-militare. L’intervento più importante sarebbe stato la
combinazione tra l’operazione “Alarico”, destinata a far affluire «in punta di
piedi» una ventina di divisioni tedesche, e quella denominata “Asse”, rivolta a
mettere fuori combattimento la timida Italia, catturarne gli uomini e i mezzi,
occuparne i presidi e formare un nuovo governo fascista, epurato dei retaggi
monarchici. Per il comando di tutta l’azione fu scelto il feldmaresciallo Erwin
Rommel, che aveva dato ampia prova di ardimento e capacità innovativa e che per
la sua storia personale, seppur comandante effettivo degli italiani in
Tripolitania e in Cirenaica, nutriva nell’animo sfiducia e sospetto per le
Regie Forze Armate.
Ecco perché
all’indomani della caduta del fascismo, per nulla rassicurati dalle ambigue
dichiarazioni del nuovo capo del Governo, il maresciallo Pietro Badoglio, i Tedeschi
si trovarono preparati e pronti ad intervenire, qualsiasi sviluppo potesse
profilarsi all’orizzonte.
Quando ancora
la linea tra l’Asse e gli Alleati era rappresentata dal canale di Sicilia, venne
predisposto l’invio di nove divisioni tedesche per quest’opera di contenimento;
intervento aggiuntivo avvenne a partire dal 26 luglio 1943, quando
attraversando le Alpi un’altra decina di divisioni venne trasferita dalla
Francia meridionale, dalla Carinzia e dal Tirolo. Notevole importanza
rivestirono le unità dislocate nella zona di Roma (circa 30 mila uomini),
coordinate da una fitta rete informativa e politica, e da quelle operanti in
Sardegna e in Corsica, predisposte a una decisa difesa costiera.
Berlino si
trovò però nella situazione che alcuni generali di stanza in Italia, come il feldmaresciallo
Albert Kesselring e il generale Enno von Rintelen, nonché l’ammiraglio Wilhelm Canaris,
comandante dello spionaggio militare germanico, avevano una profonda simpatia e
fiducia negli italiani, fattore che avrebbe impedito un’azione preventiva
adeguata e efficace. Lo stesso Canaris, tra i promotori del successivo fallito
attentato al dittatore austriaco del 20 luglio 1944, a latere
dell’incontro dei primi di agosto a Venezia, espresse all’omologo generale
Cesare Amé la sua approvazione per il cambio istituzionale, ma anche molta
preoccupazione per gli inevitabili interventi che il Führer avrebbe prima o poi
realizzato, per evitare che la situazione italiana gli sfuggisse di mano.
Per tutti questi
motivi, anteponendo le ragioni politiche a quelle militari, Hitler nello
scenario futuro della Penisola preferì assecondare il pessimismo dello stimato Rommel,
piuttosto che l’eccentrico ottimismo di Kesselring, ritenuto per questo
manovrabile dagli italiani. L’impostazione del Führer fu quella di far
concentrare sull’Appennino settentrionale il Gruppo d’Armate “B” assegnate alla
“Volpe del deserto”, che ebbe il suo comando prima in Baviera e poi sul lago di
Garda, relegando Kesselring dalla sua sede operativa di Frascati a un’azione
frenante nel Mezzogiorno, poco più che temporanea in vista della resa dei conti
al nord. Azione primaria del piano sarebbe stata poi quella assegnata al fidato
generale dei paracadutisti Kurt Student: l’occupazione preventiva di Roma con
la messa a tacere del sovrano, dei vertici militari e del Vaticano.
Di fronte a un
tradimento, la reazione germanica sarebbe stata quindi: il presidio armato di
tutti i territori precedentemente difesi dagli Italiani e il disarmo o la
cattura di questi ultimi, qualora non avessero espresso la loro chiara e
fattiva intenzione di collaborare con la politica del Reich. Pur tuttavia una
volta ottenuti questi successi, la linea da presidiare doveva essere arretrata tanto
da mantenere il possesso della sola pianura Padana e dell’arco alpino, augurando
di ottenere successo partendo dalla corta linea dei rifornimenti.
Sperando nel
fanatismo di molti fascisti e pronta ad utilizzare l’inganno e l’intimidazione,
Berlino creò ogni presupposto per recuperare ogni energia e risorsa alla causa
dell’Asse. In effetti questo fu quel che avvenne, secondo un canovaccio già
recitato, dove gli Italiani svolsero il ruolo di ipocriti infedeli e i Tedeschi
quelli di insofferenti traditi e desiderosi di un’atroce vendetta.
In tutto ciò
emerse una perfida approssimazione e un spirito malizioso delle istituzioni
politiche e militari italiane. La defenestrazione di Mussolini avvenne secondo
una procedura “regolare”, secondo i dettami elastici delle consuetudini
costituzionali del Regno, e senza grossi contraccolpi nazionali. Non si può
dire lo stesso della gestione diplomatica e militare del periodo successivo,
che portò i Tedeschi ad avallare le proprie convinzioni che la caduta del
fascismo avrebbe rappresentato la fine dell’inscindibile Patto d’acciaio. La
commedia degli inganni, che intercorse tra governo Badoglio, comando Ambrosio e
vertici germanici, evidenziò non solo la malafede esistente tra tutti i
soggetti interessati, ma la cauta meticolosità di strategia dei tedeschi contrapposta
alla politica disorganica delle
istituzioni italiane, incapaci di pianificare in modo univoco i possibili ed
eventuali sviluppi di una situazione così delicata e pericolosa.
(continua)
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