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lunedì 7 maggio 2018

Un prologo per avviare un dibattito


DIBATTITI
la scorsa settimana, durante la consueta riunione del Giovedi del CESVAM, è stato sottoposto alla attenzione di tutti un articolo  di Alessandro Barbano apparso giorni fa sull'Osservatore  Romano (lunedi-martedi 16-17 aprile 2018) che riporta integralmente il prologo al volume "Troppi diritti. L'Italia tradita dalla libertà" Milano, Mondadori, 2018 pagine 181 euro 18.

Il dibattito che ne è seguito, al vero molto acceso, ha messo in luce che  il prologo è prettamente di stampo democraticocristiano, e che omette in modo molto evidente quanto la Democrazia Cristiana e con essa il mondo cattolico ha fatto nei oltre 60 anni di governo e cogoverno consegnando una Italia al Governo Monti che non è proprio un bel riferire.

Sottrarsi a questa premessa e partire con una analisi senza tenere conto del precedente è riduttivo se non addirittura fuorviante, scendendo quindi nella propaganda o nle volersi sottrarsi alle proprie responsabilità.
Il dibattito è ora allargato a tutti coloro soci dell'Istituto che vogliono intervenire secondo i dettami del CESVAM



CAMBIA TUTTO MA NIENTE SI MUOVE

"Una malattia dei diritti spiega il declino italiano. È un virus che ha infiltrato il discorso pubblico e bloccato ogni tentativo della politica e della società di riscattarsi. Gli ultimi sette anni di storia nazionale si raccontano come un circolo chiuso, in cui si avvitano e naufragano le migliori intenzioni. Cambia tutto e in fretta, ma niente in realtà si muove. Prima arriva Monti a salvare l’Italia, poi Monti esce di scena e l’Italia si accorge di essere indietreggiata. Subentra allora Renzi a rinnovarla una volta per tutte, ma quando Renzi cade, il processo trasformativo si sfalda e scivola sul corpo rigido del paese. Così si scopre che la transizione è apparente, fatta di continue accelerazioni in folle, mentre la società arretra su un piano inclinato.
Con Gentiloni la ripresina muove il pil dopo gli anni bui della grande crisi, ma il paese resta immobile. Davanti allo sportello di un ufficio pubblico disorganizzato o nell’astanteria di un pronto soccorso soffocato dalle barelle o, ancora, tra la folla dei giovani che escono dei test di ammissione all’università, l’Italia di oggi non appare diversa da quella di tre, cinque o sette anni fa. Come se certe attese fossero andate deluse, certe promesse non mantenute, certe paure non fugate. In questi luoghi è possibile riconnettersi con la società e la sua voglia di cambiamento e vedere tutti interi, oltre i freddi indicatori macroeconomici, il ritardo e le aspettative tradite.
L’Italia fa ancora fatica a spostare la responsabilità dai vecchi ai giovani, restando il paese dove, per tutelare i primi, si ruba il futuro dei secondi. Mostra di non aver compreso e accettato che, per riavvicinare le generazioni, non serve pretendere nuove garanzie, ma bisogna mettere in discussione quelle già acquisite. Non ha ancora, a dispetto delle migliori intenzioni, un’idea di merito condivisa da tutti e regole che consentono a chiunque, poveri e immigrati compresi, di competere per accedere ai livelli più alti. Non protegge il capitale umano e non inverte il saldo dei cosiddetti cervelli, quei migliori che fuggono e che restano per il paese una perdita secca. Ignora il valore della famiglia, amnesia di tutte le politiche pubbliche di qualunque colore. Manca di ridefinire il senso della solidarietà sociale, indirizzandola non più alle appartenenze e ai cartelli di macro e microinteressi, ma alla povertà, all’esclusione e alla fragilità effettive. Offre il fianco ai corporativismi che soffocano la libertà e l’intrapresa. Non riesce a cambiare per davvero la pubblica amministrazione e la qualità dei suoi servizi al cittadino. Persevera in una politica che allontana il Sud dal Nord. E, da ultimo, rinuncia a rinnovare il lessico del discorso pubblico, l’organizzazione e il funzionamento della democrazia e dei partiti, la qualità, l’affidabilità e l’autorevolezza della classe dirigente.
Le ragioni politiche in cui si impegna la migliore intellighenzia non spiegano questa coalizione a ripetere verso il fallimento. Perché ormai essa sta nel pensiero civile. Attraversa e infiltra tutte le culture e le stratificazioni sociali. Consiste in una ipertrofia maligna dei diritti, che si nutre, ubriacandosene, dell’innovazione con la vita di un bimbo al seno materno. La malattia del paese è un matrimonio a perdere tra i diritti e la cultura tecnologica. Possibile, ma non necessario. Preventivabile, ma non preventivato. Evitabile, ma non scongiurato. Questo libro è scritto per dimostrarlo.
Il futuro di una nazione è aperto. Ma l’Italia ha da tempo imboccato una strada cieca. Un errore di calcolo, un maneggio sbagliato, un’imperizia democratica, una negligenza civile, una temerarietà sociale sono le ragioni della colpa italiana. Colpa del pensiero. Che ha piegato i diritti e la tecnica a una sorte avversa: da carburante della democrazia ne ha fatto fucili puntati contro di essa. Con pallottole speciali: la retorica politica e le pretese dei singoli e dei gruppi di una comunità divisa. Le parole che vanno dalla politica alla piazza, e dalla piazza alla politica, sono ormai la pietra di inciampo sul cammino del riformismo italiano. Dove cadono i progetti di respiro, si frantuma una visione nazionale, si perde di vista l’Europa, e la fascinazione della democrazia diretta e del populismo resta una minaccia incombente che rimbalza tra i talk show e le urne.
La cieca sventagliata di fuoco della retorica pubblica e chiamata da qualche tempo <<postverità>>. È Il riverbero della verità quando perde il suo contatto con il reale. Verosomigliante, perciò bugiarda. Ha imbavagliato l’Italia e la tiene in ostaggio. Ma è solo un effetto, non la causa dei mali del paese. Non serve ripararsi da essa, se non si disarma il dito sul grilletto dei diritti e della tecnica.
Spiegare come ciò sia accaduto, e come uscirne, è quanto ci proponiamo di fare nelle pagine che seguono. Per riavvolgere verso il futuro la storia del paese e ridare al suo movimento il senso di un cambiamento consapevole. Non di un processo ineluttabile, che ricatta la società con i luoghi comuni. E in nome dei diritti e della tecnica le sottrae quel poco di libertà che le resta.

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