APPROFONDIMENTI
di Alessia Biasiolo
Le
statistiche riguardanti il numero di persone rinchiuse nei campi di
concentramento e di sterminio, non sono facilmente stabilibili perché i
registri sono andati perduti oppure sono lacunosi. Non ci sono certezze
riguardanti il numero di persone rinchiuse prima dello scoppio della seconda
guerra mondiale, e nemmeno nel periodo compreso tra il 1933 e il 1939, pertanto
le cifre possono solo essere approssimative. Si conosce il numero totale dei
sopravvissuti, miracolosamente, a quelle detenzioni disumane, e si sa che molte
furono donne, anche se per un lungo periodo i libri sulla Shoa (o Olocausto
come ancora si denominava) erano scritti solo da maschi. Sappiamo anche che
molti sopravvissuti, anche italiani, per molto tempo non riuscirono a
raccontare quello che avevano ancora davanti ai loro occhi, perché la barbarie
senza fine alla quale erano stati sottoposti li aveva condannati a sentirsi in
colpa per essere vivi, oppure a non avere la forza di pensarci davvero,
ricordare compiutamente, parlarne. Molti, poi, rendendosi conto che senza di
loro nessuno avrebbe mai ricordato i morti, oppure avendo vissuto abbastanza
vita per trovare il modo di farlo, hanno iniziato a testimoniare. Preziose
memorie che permettono ai giovani di conoscere e agli storici di coprire molte
zone oscure di una storia per la quale non si scrive mai abbastanza e mai c’è
la frase “Basta” sufficiente.
Ecco,
allora, alcune storie di donne dai campi di concentramento, racconti di una
vita-non vita che purtroppo per molte è finita lì, per altre è continuata ad
essere tale, dato che erano state condannate alla memoria eterna dell’orrore
peggiore. Un orrore che, purtroppo, non si è esaurito con le vicende naziste
degli anni Trenta e Quaranta del Novecento.
Finita
la parentesi della Grande Guerra, le donne in Europa, un po’ dappertutto, per
la crisi e la disoccupazione incipienti, erano tornate ad essere cittadine di
seconda classe. Non era possibile vederle in ruoli dirigenziali ma, se avevano
l’opportunità di lavorare fuori casa, erano insegnanti, soprattutto maestre,
segretarie, commesse o domestiche. Se accedevano al ruolo di attrici o ballerine
erano spesso guardate con sospetto, come se fossero delle poco di buono.
Improvvisamente, dal 1940, nel ghetto ebraico di Lodz si trovarono, invece, ad
assumere ruoli importanti, perché ogni settore della vita del ghetto era
affidato a loro. Nel ghetto ci si trovava di fronte a donne capaci ad
organizzare la vita comune, dovevano ammetterlo anche gli uomini, e che
volevano sopravvivere e vivere. Donne spesso nemiche tra di loro, ma anche
capaci di aiutarsi e di diventare e rimanere amiche. Donne che erano capaci di
organizzare il mercato nero, di denunciare, di tradire.
A
Lodz il controllo tedesco era serrato, ma era chiaro che lo scopo era di fare
morire tutti gli abitanti. Questi lavoravano per i tedeschi e veniva loro
promesso cibo che non arrivava mai, così come le cure mediche. In monolocali
spesso senza acqua e riscaldamento, venivano ammassate una decina di persone,
rendendo la convivenza impossibile, in condizioni igieniche drammatiche. La
morte per dissenteria o tifo era all’ordine del giorno.
Unica
speranza era non essere selezionati alle ispezioni, oppure trovare un lavoro
che servisse ai tedeschi, anche se questo significava camminare per ore per
arrivarvi, in cambio di tanto lavoro e pochissimo cibo.
Nei
lager, le donne ebree al comando erano membri della polizia del campo o kapò,
ed obbedivano direttamente ai tedeschi: alcune erano giuste, altre godevano
nell’infliggere alle loro simili tormenti, soprusi, violenze fisiche o
psicologiche di ogni sorta. Molte di queste, dopo la guerra, vennero uccise o
si suicidarono prima di essere arrestate; altre vennero arrestate e condannate.
Le donne prigioniere erano costrette a lavorare come schiave, spesso picchiate,
con poco cibo a disposizione, cattiva igiene, prigioniere della fame e delle
malattie, come tubercolosi, tifo. Era alto il rischio di venire violentate da
dei maschi tedeschi e spesso non esisteva nessuna pietà o nessuna compassione
nemmeno da parte delle donne dei soldati tedeschi.
Le
donne, all’arrivo ad Auschwitz-Birkenau, venivano separate dai figli che,
spesso, venivano immediatamente inviati alle camere a gas. Talvolta anche le
donne, emaciate, deboli, venivano inviate subito alla morte. Per chi era stata
selezionata per la sopravvivenza, dopo l’ispezione toccavano le docce e il taglio
dei capelli, veniva dato l’abito da lavoro, spesso usato, e quasi mai scarpe da
mettere ai piedi. Raramente a qualcuna venivano consegnati degli zoccoli di
legno. La sera veniva consegnata alle baracche la zuppa che serviva da cena: in
latte di metallo come i contenitori per il trasporto del latte, la zuppa
consisteva in acqua sporca con qualche pezzo di rapa. Nessun piatto o
recipiente per versarvela dentro, quindi molte donne usavano le mani a coppa
per averne un po’.
Come
racconta Lucille Eichengreen, sopravvissuta, un gruppo di 497 donne venne
selezionato da Mengele, nell’autunno del 1944, per essere inviato da Auschwitz
ai magazzini-campo di concentramento di Neuengamme-Dessauer Ufer e
Neuengamme-Dessauer Sasel di Amburgo. Quotidianamente raggiungevano i cantieri
navali Blom&Foss, Deutsche Werft e altri, dove lavoravano
ininterrottamente, a mani nude, sotto l’occhio vigile e crudele delle guardie
tedesche che inventavano ogni nuovo modo per vessarle.
Il
campo di lavoro di Sasel, satellite del campo di Neuengamme, consisteva in
baracche senza alcun tipo di riscaldamento. Le 497 donne erano sorvegliate da
42 guardie SS di cui 14 erano donne, alcune delle quali ebree. Alla fine della
guerra, alcune di loro vennero processate e colei che si era comportata con
maggiore crudeltà contro le donne prigioniere, ottenne il massimo della pena:
otto anni di reclusione.
In
quel campo operava la dottoressa Gisa, già utilizzata come assistente di
Mengele ad Auschwitz. Gisa, ebrea ungherese, era ginecologa e, dopo avere
assistito ad ogni genere di orrore, aveva deciso che avrebbe aiutato ogni donna
che avesse potuto a non restare a lungo incinta dopo essere stata costretta a
rapporti sessuali da guardie tedesche. Infatti, Gisa aveva visto quali pratiche
disumane aveva messo in atto Mengele per i suoi esperimenti sia su donne
incinte che su feti, neonati, gemelli. Pertanto si impegnò a praticare aborti
non appena fosse stato possibile.
Questo permetteva spesso di salvare la vita
alla donna che, senza cibo, non sarebbe sopravvissuta alla gravidanza e, allo
stesso tempo, la metteva al riparo dagli esperimenti. La degenza anche solo di
alcune ore in infermeria poteva determinare la differenza tra la vita e la
morte. Il campo di Sasel venne smantellato nel 1945 e le detenute trasportate a
Bergen-Belsen in camion o in treno. Affetti da tifo, molti detenuti del campo
morirono. Alle detenute, che si trascinavano a malapena sulle gambe, non venne
dato nemmeno qualcosa da mangiare. Le baracche erano piccole e sovraffollate,
dalla puzza insopportabile. I tedeschi non vi entravano, rinunciando anche ai
controlli, per timore di contagiarsi con le malattie che circolavano. Al campo
erano arrivate persone da molti altri campi di lavoro che venivano via via
smantellati.
Fortunatamente,
in pochi giorni, il 15 aprile 1945, nel campo di Bergen-Belsen entrò l’esercito
inglese. Trovarono cadaveri a migliaia e migliaia e altrettante persone
morirono nelle settimane immediatamente dopo la liberazione. Anche lì dovettero
usare le ruspe per spostare e seppellire i morti nelle fosse comuni.
Le
SS si arresero apponendo una fascia bianca al braccio, oppure alcuni scapparono
cercando di salvarsi la vita. Alcune donne delle SS cercarono di mimetizzarsi
vestendo un abito da lavoro a righe, ma vennero arrestate e processate. Molti
dei sopravvissuti rimasero a Bergen-Belsen che venne trasformato in un campo
profughi dal quale partirono a trance verso la fine dell’anno per rientrare in
Germania o andare a Parigi o verso altre destinazioni.
Molte
donne sopravvissero, alcune per dimenticare quell’inferno, altre per
tramandarlo ai posteri. Alcune si trasferirono negli Stati Uniti per obbedire a
matrimoni combinati e continuare la loro vita di prigioniere, altre riuscirono
a seguire il proprio cammino.
La
dottoressa Gisa sopravvisse e dedicò il suo tempo nel reparto maternità di un
ospedale di New York. Una volta andata in pensione, si trasferì nei pressi di
Tel Aviv.
Lucille
fu l’unica della famiglia a sopravvivere: il padre morì a Dachau, la madre nel
ghetto di Lodz, la sorella a Chelmno.
Ma
le storie si moltiplicano. Stanislawa Leszczyńska era nata proprio a Lodz, in Polonia, nel 1896; imparò il
tedesco a Rio de Janeiro, dove i genitori si trasferirono. Tornò in Europa, a
Varsavia, nel 1920, dopo essersi sposata con Bronislaw, e a Varsavia divenne
ostetrica. Cattolica devotamente credente e praticante, allo scoppio della
seconda guerra mondiale si adoperò per aiutare molti ebrei e per questo venne
arrestata. Il marito morì nella rivolta di Varsavia; due dei quattro figli
vennero mandati nei campi di concentramento di Mauthausen, lei e la figlia ad Auschwitz-Birkenau.
Arrivata al campo, riuscendo a portare con sé, ben nascosti, i suoi documenti
di ostetrica, si propose al dottor Mengele come assistente al parto delle donne
lì rinchiuse.
Riuscì
così ad opporsi all’uccisione di molti bambini, dato che una volta nati
avrebbero dovuti essere trattati come se fossero morti, oppure dovevano essere
uccisi, annegati in barili d’acqua, o semplicemente lasciati mangiare dai topi.
I bimbi, che nascevano sani e anche robusti contro ogni previsione, morivano di
fame o di freddo, oppure venivano uccisi da alcune infermiere. Stanislawa
cercava di procurarsi acqua per lavare le partorienti, cercando di evitare il
più possibile le infezioni e l’accanimento delle bestie che riuscivano a
cibarsene perché erano impossibilitate a muoversi.
Sopravvissuta al campo di sterminio, morì nel
1974 di cancro e nel 1992 venne avviato il processo di beatificazione.
Sopravvisse anche alla crudele marcia della
morte, organizzata dai nazisti quando ormai per loro non c’era più scampo, la
donna tatuata sul braccio con il numero 75190, Liliana Segre. Una ragazzina che
si era vista rifiutare l’ingresso in Svizzera, era stata arrestata e inviata al
campo della morte di Auschwitz-Birkenau, dove delle altre ragazzine francesi le
spiegarono subito cos’era quell’odore di bruciato che si sentiva nell’aria.
Liliana e le colleghe appena arrivate pensavano fossero pazze, per ricredersi
purtroppo molto in fretta. Tutto quello che sembrava inaudito fu. Il papà era
rimasto con lei per qualche tempo, durante la detenzione in Italia, a Varese e
poi a San Vittore, fino a quando non furono caricati con altri 604 ebrei su un
carro in partenza dal Binario 21 di Milano. Il papà continuerà a trasmetterle
tutto il suo bene, fino alla separazione, una volta arrivati al campo: lei da
una parte e papà dall’altra, avviato subito alla fucilazione.
A Birkenau ottenne la baracca 30 il dottor
Clauberg, classe 1898, medico specializzato in ostetricia e ginecologia nel
1925. Aderente al partito nazista dal 1933, ottenne una sfolgorante carriera
fino a diventare tenente generale della riserva delle SS e professore di
Ginecologia all’università. Si occuperà soprattutto di sterilità, mettendo a
punto dei preparati per cercare di combatterla. Himmler gli chiese, però, nel
1941, di cominciare a risolvere il problema di tutte quelle persone che, per la
legge del luglio 1933, sarebbe stato meglio non si riproducessero, cercando una
tecnica di sterilizzazione permanente e rapida. Dopo la baracca 30, venne
assegnata al dottor Clauberg parte della baracca, o blocco, 10. Inizialmente le
donne trasferite al blocco 10 furono 264, soprattutto ebree e rom francesi,
olandesi, greche e belghe tra i 20 e i 40 anni. Gli esperimenti messi
in atto avevano lo scopo di trovare un metodo di sterilizzazione efficace,
ottenuto con metodi disumani e il più delle volte letali per le donne cavie
degli esperimenti. Margita Neumann e Chopfenberg Chana hanno testimoniato che
venivano praticate loro delle iniezioni nella pancia o nel basso ventre con
siringhe dai lunghi aghi. Dopo l’iniezione venivano colte da dolori lancinanti
che le facevano urlare, mentre qualcuno le teneva ferme e cercava di tappare
loro la bocca. Dopo un anno, era stata trovata la giusta soluzione di farmaci
per ottenere la sterilizzazione delle donne ritenuta efficace. All’avvicinarsi
dell’Armata Rossa, Clauberg scappò nel campo di Ravensbrück per continuare i
suoi esperimenti, poi si diede definitivamente alla fuga con la rotta
dell’esercito tedesco. Mentre tentava di raggiungere Himmler, venne catturato
dall’esercito alleato ai confini della Danimarca; consegnato ai sovietici,
venne processato e condannato a 25 anni in un gulag. Tuttavia, nel settembre
1955, beneficiò dell’accordo Adenaur-Bulganin che stabiliva anche il rimpatrio
degli ultimi prigionieri di guerra ancora reclusi nei campi di lavoro
sovietici. Venne pertanto trasferito nel campo di Friedland da dove divenne poi
un uomo libero. In tutta la vicenda non aveva mai utilizzato il suo vero nome e
questo gli permise di credere di avere ormai lasciato alle spalle il suo
passato di crudele sperimentatore di dolore e morte. Nel preparare i documenti
per aprire un proprio centro clinico, Clauberg utilizzò il suo vero nome per
ritornare a praticare come ginecologo. Nel novembre 1955, il Consiglio Centrale
Ebraico lo denunciò alle autorità tedesche per crimini di guerra. Di nuovo
arrestato, poco prima dell’inizio del processo, nell’agosto del 1957, Clauberg
morì per un attacco cardiaco. Solo nel 2010, in una casa vicina al campo di Auschwitz, sono stati ritrovati oltre cento ferri
chirurgici e ginecologici, forse proprio quelli utilizzati nel campo di
sterminio da Clauberg per i suoi inenarrabili esperimenti sulle donne.
Comm.
Alessia Biasiolo
Collegio degli Scrittori della Rivista "Quaderni del nastro Azzurro"
Col
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