Progetto:
interviste ai Protagonisti della Guerra di Liberazione
La guerra di liberazione ha rappresentato certamente una
fase cruciale nella storia italiana: il nostro intento è quello di vedere
proprio come il singolo si è rapportato con tali vicissitudini. A volte dietro
un piccolo contributo, nelle impressioni e nelle semplici vicende personali si
celano quelle indispensabili sfumature che rendono comprensibile un evento e
tutto ciò che esso ha rappresentato.
In
questa intervista vorrei approfondire alcuni aspetti della sua esperienza
personale soffermandomi in particolare sui suoi ricordi e soprattutto sulle sue
impressioni. Innanzitutto vorrei chiederle quali sono state le direttrici della
sua formazione.
Devo dire che il mio percorso di
formazione è stato contrassegnato da una vivacità culturale che mi ha fornito
strumenti adatti per contestualizzare e interpretare la realtà che ho dovuto
affrontare durante la mia vita. In particolare ricordo con affetto gli
insegnamenti che ho ricevuto alle scuole elementari e al ginnasio. È stata
senza dubbio una fase cruciale per la mia formazione. Presso il liceo che
frequentai, il “Michelangelo “ di Firenze, riscontrai nei miei insegnamenti una
vivacità culturale e un approccio critico alla realtà piuttosto marcati. Ad
esempio ricordo bene come non ci fosse mai un costante incitamento verso i
soldati in guerra. Eppure era vivo e ben presente un forte patriottismo. L’approccio
critico della storia e della filosofia, l’occhio vigile della filosofia
idealista furono senza dubbio aspetti cruciali nella mia formazione.
Quali
sono i suoi ricordi ulteriori durante questa fase della sua vita?
Ricordo il duro addestramento, la grande
disciplina nella mia educazione: devo ammettere che proprio in quel frangente
emerse la mia passione per i cavalli e per le attività sportive.
Cosa
ricorda dell’entrata in Guerra contro l’Etiopia?
È vivo nella mia memoria il ricordo del fervore
popolare dopo la decisione di entrare in guerra, fu un trionfo a livello di
eccitazione generalizzata. Erano grandi le speranze.
Veniamo
a temi certamente più complessi da trattare, cosa può dirci sulla Seconda
Guerra mondiale? Come visse quella fase cruciale?
Ricordo in particolare il rapporto
contraddittorio di odio-amore con la Francia, fu un periodo confuso, dove gli
insegnamenti di mio padre si sarebbero rivelati indispensabili per capire e
interpretare nel modo giusto quegli eventi. D’altro canto ero molto giovane. Seguii
la guerra con interesse, attenzione e speranza. Ricordo in particolare il primo
anno del conflitto, l’attesa e la prima vera delusione per l’immobilità della
campagna di Libia, l’eccessiva prudenza di Graziani. Ad essere sbagliata era
soprattutto la concezione che si aveva della guerra. Anche il Duce in realtà
non aveva capito la nostra inadeguata preparazione al conflitto. Mi spiego
meglio: era una guerra di movimento, una guerra nuova, una guerra industriale
fatta da mezzi meccanici. L’uomo aveva ancora un valore primario ma il
contadino italiano non aveva i mezzi ne gli strumenti per affrontarla da vero
protagonista. Non vi erano soldi: la società rurale italiana era povera, non
aveva mezzi adeguati a disposizione. Ad esempio i mitragliatori Breda avevano
un corto raggio d’azione e dunque un difetto molto significativo. Non vi era
stata una pianificazione e una preparazione alla guerra. Per alcuni aspetti
molto era improvvisato e tutto ciò strideva a confronto della specializzazione
industriale tedesca così razionalizzata, dove ognuno aveva un compito e poteva
raggiungere l’efficienza operativa.
E
sulla campagna di Grecia?
La campagna di Grecia fu una profonda delusione.
Emersero con evidenza l’impreparazione operativa e le carenze strutturali. I
vertici dello Stato rispecchiavano una società incapace di capire l’essenza
della guerra moderna: era piuttosto evidente la mancanza di collaborazione.
Quali
furono le successive evoluzioni?
Devo ammettere che il crollo totale ci fu
con la disfatta in Africa e gli errori strategici successivi. L’invasione della
Sicilia, a torto dipinta come una fuga. Di certo non mancò la confusione, come
a Cefalonia, ma anche le azioni di veri uomini di valore. Le carenze erano in
particolare la mancanza di ordini che provenivano da Roma che non facevano
altro che aumentare un generale clima di disorganizzazione.
Qual
è il suo parere su Badoglio?
Mi limito a dire che non lo reputai un
uomo dal carisma necessario per la fase storica che l’Italia stava
attraversando. Non era un de Gaulle, non vedevo in lui un uomo dalla visione
politica di ampio respiro.
Cosa
può dirci sulla repentina caduta di un regime come quello fascista che aveva
cercato in tutti i modi di mettere radici profonde nella società italiana?
Furono il sollievo, il senso di
liberazione dalla guerra ad essere più forti del fascismo. Il fascismo ha
formato molti uomini nel rispetto della Patria, nel servizio dello Stato. Da
Moro a Fanfani, tutti in un certo senso erano stati formati dal fascismo nella
dignità e nella lealtà. Sia chiaro per formazione non intendo dire adesione a
quel tipo di ideologia, parlo piuttosto di un “sottofondo culturale”. Riguardo
alle cause, anzi a quelle dinamiche che portarono alla repentina caduta del
fascismo i movimenti culturali furono senza dubbio elementi che vanno
necessariamente tenuti in considerazione. Mi riferisco in particolare ai
socialisti e alla loro preparazione che emerse con evidenza nel dopoguerra e
allo stesso tempo a tutti i movimenti legati alla Chiesa cattolica.
Quale
fu la reazione del popolo italiano in questa delicata fase storica?
In quei momenti così difficili, dove regnava
sovrana la totale confusione, il popolo italiano mostrò una grandissima dote:
quella di riuscire a contenersi e a salvarsi. Diverse forze politiche
riuscivano con strumenti diversi a dare uno stimolo concreto alla vita politica
del paese. Non bisogna mai dimenticare l’imperante fanatismo presente nel XX
secolo.
Quale
è il suo parere sulla Repubblica di Salò, come può contestualizzarla con ciò
che ha appena affermato?
Le adesioni alla repubblica di Salò
furono ad ogni modo significative: molti credevano che sarebbe stato possibile
conciliare un regime autoritario con una maggiore libertà. La realtà poi diede
risposte diverse e anche chi aveva iniziato a simpatizzare per la Repubblica
dovette ricredersi. Ben presto con la Repubblica Sociale nacque in tutti noi un
forte senso di rivolta per tali forme di fanatismo, si capiva la pesante mano
tedesca.
Personalmente
come passò quei momenti così delicati?
Ricordo la mia esperienza personale: per
riuscire ad uscire da una situazione così intricata trovai rifugio in un ospedale.
Grazie ad un amico di mio padre, il prof. Valdoni, riuscii ad ottenere un
certificato medico per un ricovero d’urgenza in quanto ero stato richiamato.
Passavo le mie giornate osservando le diverse attività dell’ospedale, uno sorta
di infermiere non qualificato. Nonostante i controlli dell’ospedale militare ottenni,
sempre grazie a Valdoni, sei mesi di licenza. Tuttavia ci fu un imprevisto,
dovuto ad una mia leggerezza: una domenica pomeriggio uscii scioccamente
dall’ospedale e fui catturato in una retata. Solo il decisivo intervento di mio
padre mi permise di tornare all’ospedale, mi salvai di nuovo.
Quale
fu il suo primo contatto con gli alleati?
Incontrai per primi i francesi, ricordo
bene quella scena. Tuttavia i miei pensieri vanno soprattutto alla forte
differenza tra la situazione in cui versava l’esercito italiano e la grande
efficienza alleata. Dopo l’8 settembre l’esercito italiano visse in un contesto di marcata confusione, era
lampante la superiorità militare degli alleati e l’impreparazione dei vertici
nel cercare di mantenere la situazione in ordine. Tuttavia non bisogna
dimenticare anche i tedeschi: sarebbe un errore dare un resoconto di totale
efficienza da parte della Wehrmacht. Mi spiego meglio: era molto alta
l’efficienza e il senso del dovere, eppure era palpabili anche alcune carenze
strutturali e soprattutto le voci discordanti rispetto alle volontà del fuhrer. Una voce critica interna era ben
presente, il problema era la rete di informatori così capillare da rendere
pressoché impossibile la possibilità di parlare liberamente. Ad ogni modo la loro efficienza non venne mai
meno, riuscirono a resistere a lungo e a difendersi nonostante le significative
differenze numeriche e logistiche tra i loro reparti e quelli degli alleati. Tornando
al mio primo impatto con gli alleati i le truppe francesi in particolare
ricordo i reparti marocchini, non posso scendere nei particolari ma il loro
comportamento non fu certamente privo di macchie. Molte violenze,
disorganizzazione, caos. Anche gli ufficiali francesi non avevano una buona
opinione del loro comportamento.
Quale
fu il suo ruolo in una fase così delicata?
Agli alleati servivano dei riferimenti,
persone in grado di tradurre e avere in tal modo la possibilità di un contatto
con i partigiani. Personalmente sapevo sia l’inglese che il francese, non
potevo nascondermi in una fase così importante. Fui destinato alla 19° Brigata,
8° divisione indiana. Ricordo alcuni miei colleghi come Rufo Ruffo e Ugo
Contini presenti nella mia stessa divisione.
La mia prima esperienza al fronte fu a
Camaiore, mi fu impartito l’ordine di accompagnare sulla cima della montagna un
reparto scozzese. Rimanemmo per due giorni. Con i colleghi inglesi il rapporti
erano molto cordiali, c’era una stima e un rispetto reciproco. In particolare
il generale Doply si dimostrò un uomo di grande intelligenza, con lui ho
mantenuti i contatti anche dopo la fine della guerra. Le operazioni belliche mi
portarono poi sul Senio. In questa fase ricordo un simpatico aneddoto: a Cervia
il generale scoprì di aver preso il suo gatto, così mi mobilitai per cercarlo.
Alla fine ne recuperai uno simile.. il generale si accorse della differenza, ma
mi ringraziò ugualmente. Tornando invece alle vicende belliche devo dire che
l’inverno sul Senio fu caratterizzato da una relativa calma. Mi furono affidati
venti partigiani per proteggere alcuni ponti e alcune strade, controllare i
partigiani spesso non era semplice. Inoltre spesso mi trovai ad accompagnare
alcuni reparti che avevano il compito di monitorare i movimenti delle truppe tedesche
in alcuni avamposti: venivamo periodicamente fatti bersaglio di cannonate e
raffiche di mitragliatrice.
Una
curiosità, ha detto precedentemente che era stato incluso in un reparto
indiano, che rapporto intercorreva tra britannici e indiani?
Ricordo in particolare un maggiore sikh.
Era un uomo curioso, con cui mi trovai bene, simpatico a molti perché leggeva
la mano. Ma a parte queste piccole curiosità devo dire che godeva di grande
considerazione e rispetto.
I
tedeschi in quella fase cercavano di avanzare?
Non ne erano in grado, come ho detto
precedentemente l’inverno sul Senio fu relativamente tranquillo, permise ad
esempio anche dei piccoli scambi con i nostri nemici, sigarette, whisky ecc..
Ben presto gli alleati furono pronti
all’offensiva, ricordo a riguardo di essere invitato ad assistere alle
operazioni, fu un gesto di grande cortesia. La concentrazione di cannoni era
enorme, così come il numero dei colpi sparati. I colpi di mortaio erano
praticamente costanti, come le numerose
incursioni delle fortezze volanti. L’avanzata fu grandiosa, erano così
numerosi i mezzi che si congestionarono creando perfino una certa confusione.
Il fronte era stato aperto e le difese tedesche ormai scalzate, superato il Po
fu la volta di liberare Venezia.
Logisticamente
come erano organizzate le truppe?
Vi era una grande organizzazione, grandi
mezzi, tutto era curato nei minimi particolari, certo non era semplice
garantire rifornimenti ad un numero così cospicui di uomini e mezzi. Per i sikh
e i loro lunghi capelli ad esempio l’acqua era una priorità. La disciplina
militare inglese era straordinaria.
In
precedenza ha parlato dei sui contatti con i partigiani, può approfondire
maggiormente questo aspetto?
Il ruolo dei partigiani fu senza dubbio
significativo, ma sarebbe improprio definirli un movimento monolitico, al
contrario erano molto frammentati e politicamente diversificati. Non mi mescolo
volentieri con i partigiani per una semplice ragione, è vero alcuni
combatterono per liberare l’Italia, ma numerosi gruppi inquadrati politicamente
furono protagonisti di episodi di violenza, delitti e uccisioni sommarie che
non posso condividere.
L’Intervista
è stata raccolta tre anni fa da Stefano Valente per un progetto dedicato ai
protagonisti della Guerra di Liberazione voluto dal gen. Luigi Poli, che non si
è potuto realizzare per la scomparsa del Senatore nel febbraio 2013. Come
contributo alla conoscenza riportiamo questa intervista nell’azione volta alla
pubblicazione di inediti posseduti per il non realizzarsi di progetti avviati e
mai completati per dare possibilità a coloro che vi erano impegnati di vedere
pubblicata l’opera loro.
Nessun commento:
Posta un commento