di Alberto Maspero*
Il porto di Quarto è circondato da bettole malfamate
frequentate da avventori di ogni genere, grossi, alti e dalla spiccata
pronuncia ligure. Scaricatori di porto e marinai, durante i brevi congedi o le
meritate domeniche di riposo, affollano i “cafè” come si suole da qualche anno
chiamarli in Francia, i quali si riempiono di fumo e odore di alcolici. Ma quel
giorno, nella “Locanda del Gatto Rosso”,
spiccavano due o tre figure con
la camicia rossa e la baionetta arrugginita a tracolla. Io ero dietro al
bancone e servivo questi giovani. Alla fine non si finì che parlare, tra un
boccale di birra e l’altro di chi fossero questi qui. Alcuni dicevano soldati
francesi della legione straniera, altri che fossero poliziotti svizzeri. Ma
parlare tra di noi non serviva a nulla dovevamo chiederlo a loro, ma per quanto
le mie domande fossero assidue, a quelle camicie rosse non riuscii che a
strappare un “non siamo tenuti a rispondere”, in un aspro dialetto lombardo
trasformato a denti stretti in un italiano a mala pena comprensibile.
Stavo chiudendo, erano pressappoco le 10 di sera,
fuori incontrai un cantastorie, che ripeteva il “Cinque Maggio”. Gli lasciai
qualche spicciolo un po’ per solidarietà e un po’ per avermi ricordato che era
l’anniversario di morte di Bonaparte. Tornavo così a casa, fischiettando e
facendo girare intorno all’indice il mazzo di chiavi, quando notai in
prossimità del porto, alcune luci e rumori metallici di fucili, lasciati
pesantemente cadere sulle stive di due o tre navi. L’oscurità non mi permetteva
di determinare con precisione quante realmente fossero. Mentre i miei occhi si
abituavano all’oscurità, mi resi conto che la terza barca era un peschereccio
ormeggiato casualmente nei paraggi. La cosa che mi stupì è che vidi centinaia
di uomini abbigliati come quelli in
locanda in procinto di imbarcarsi. Che i francesi avessero deciso
nell’anniversario della morte del loro eroe di conquistare la bella Italia? No,
non stavano scendendo, si imbarcavano. Allora notai che, prima di salire,
venivano chiamati per nome da un uomo robusto con una folta barba. Io da dietro
una cassa che odorava di pesce, provai a trovare un nesso logico. All’inizio
credevo di sognare, poi capii. Era il mitico Garibaldi che partiva coi suoi
uomini per “fare l’Italia”! Se ne parlava in locanda qualche settimana fa; i
marinai provenienti da Nizza parlavano di una grande impresa. L’elenco era agli
sgoccioli, sulla banchina non rimanevano che pochi uomini e sul ponte di uno
dei piroscafi alcuni marinai, issavano un tricolore con cucita sopra una croce sabauda.
La rumorosa accensione dei motori a carbone, mi diede
qualche minuto per riflettere… partire con gli eroi e rischiare la vita o
restare qui nella tranquilla e monotona vita della locanda? Il rumore dei motori
aumentava, l’odore di pesce diveniva insopportabile. Mi alzai e mi misi a
correre, come quando da ragazzo io e i miei amici facevamo le gare dal porto
alla quercia nel campo del signor Zalini. Garibaldi tornava indietro a chiamare
i soldati che non si erano presentati…<<Andrea d’Avetrana!>> e io d’istinto risposi: <<Signore,
presente signore>> avevo imparato quella formula dai gendarmi che di
tanto in tanto venivano in visita al mio cafè con la scusa di controllare gli
elementi più irrequieti. Il colloquio tra me e il generale Garibaldi fu rapido
poiché la torcia che reggeva nella mano sinistra insieme alla lista tutta
cancellata era quasi esaurita. Non ricordo bene il nostro discorso, tanto ero
preso dall’emozione, ma si concluse che a Talomone mi sarei munito di
fucile; la camicia rossa e la bandana
bianca me la sarei cucita durante il viaggio. Mi unii agli altri combattenti
sul ponte del piroscafo, e lì dormii, con la coperta che mi spartivo con un
genovese che avevo battuto a dadi… Mirco Vuono non ce l’avrebbe mai fatta ma
ero Andrea D’Avetrana ora! Mi offrii per tenere la cambusa della nave, poiché
avevo una discreta esperienza in cucina. Dopo lo sbarco a Talomone sembravo un
vero garibaldino, anche se la vera avventura, doveva ancora iniziare.
A Marsala fronteggiammo l’esercito borbone e come si
sa gli sbaragliammo, anche se perdetti un amico conosciuto sul Piroscafo
Piemonte. Era finita la spensieratezza
della partenza e mentre alla sera si contavano i morti e si decideva in base al
loro testamento se seppellirli qui in Sicilia o mandare la salma a casa a farli
piangere alla famiglia, mi resi conto di un serio problema: anche se quel
giorno avevo combattuto nelle linee arretrate e non avevo corso rischi, domani
una pallottola avrebbe potuto colpirmi in pieno petto, ma in quel caso non
sarebbe morto Mirco Vuono, ma bensì Andrea d’Avetrana. Quando alla famiglia
sarebbe arrivata la notizia, probabilmente, avrebbero riso tutti in faccia ai
soldati…chi sono io? Mi rendevo conto che sarebbe stato indispensabile rivelare
il mio segreto e tutta la mia storia.
Man mano che l’esercito borbone scappava verso Napoli,
molti nomi venivano cancellati dalla lista di Garibaldi e non sarebbero più
tornati dalle loro famiglie.
In quelle settimane di eroismo vidi anche azioni vili
contro prigionieri borboni e contadini che insorgevano contro i latifondisti.
Gli accordi tra questi ultimi ed il generale per finanziare la campagna
militare ci costringevano infatti a soffocare nel sangue queste rivolte.
Arrivammo nei pressi di Palermo in poche settimane.
Dopo la battaglia di Calatafimi mi sembrava di aver visto tutto, ma la
resistenza a Palermo fu molto più dura, sia negli avamposti che sulle alte mura
della città. Il frastuono era assordante, colpi di cannone, mortai, baionette,
urli di battaglia, suicidi di chi si butta all’attacco senza colpi in canna.
L’odore della carne straziata si univa a quello di uva e mosto poiché era già
iniziata la vendemmia qui in meridione.
Sentii un colpo da un cespuglio vicino. Vidi tutta la mia vita in un
lampo, avevo un proiettile infilato nella coscia e perdevo molto sangue.
Sentivo le forze venir meno ed i rumori intorno si affievolivano, mi sdraiai
aspettando soccorsi, ma i miei compagni avevano già espugnato la città. Perdevo
coscienza e d’un tratto non vidi più nulla… troppo tardi pensai.
Sentivo forti schiaffi sulle guance, mi stavo
svegliando. Il dolore alla coscia era insopportabile, me lo immaginavo diverso
il paradiso. <<Sei Garibbaldo?>> un po’ per la stanchezza un po’
per lo strano accento non colsi la domanda, così un altro, che mi pareva di
aver già visto mi tirò un altro schiaffo <<questo è l’oste de Quarto. Che
bella sorpresa!>> soggiunse, aspirando le C come fanno i pisani, gli
altri sembrarono un po’ delusi che non fossi “Garibbaldo”, ma mi chiesero lo
stesso di raccontagli la mia storia. Non avevo abbastanza forza per parlare,
così raccolsi un gessetto da terra e mi misi a scrivere su quante più pietre i
briganti mi porgessero. Il pisano mi disse che ormai l’Italia era quasi fatta
poiché i militari borboni fuggivano o si arruolavano tra i garibaldini. Ero al
settimo cielo, finalmente un uomo che si congratulava con Mirco Vuono per le
vittoria di un esercito in cui lui aveva sempre sognato di combattere, ero
felice perché l’Italia ormai era un Paese libero e unito, perché nessun
austriaco avrebbe più occupato un edificio governativo italiano. Ero contento…
per l’Italia!
* Alberto Masepro.
Scuola Secondaria Di 1° Grado “ G.P. LIGARI” classe III B
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