DIBATTITI
Qualche
parola sul Secondo Risorgimento
di
Franco
Finzi*
Il
Risorgimento l’ho studiato unicamente a scuola, e non l’ho più ripassato (come
là si diceva) quindi non posso saperne più di voi.
La
sola notizia appresa sull’unità d’Italia successivamente, la devo al past president del Rotary Club di
Venezia Prof.G.P.Borsetto che in un libro edito una decina d’anni fa, dette
conto d’ un indagine comprovante che l’avvento di tale unificazione non fu
dovuto alla volontà dell’intera popolazione, bensì, come sospettavamo ad una
elite della borghesia.
In
particolare vi si rivelava che il referendum per l’annessione del Veneto al
Regno d’Italia fu addirittura falsamente spacciato per favorevole, sebbene
l’esito della votazione fosse stato negativo: un autentico broglio di non poco
rilievo! Ma verrebbe da dire: onore agli autori!
Mi
asterrò dal rievocare con enfatica retorica il Risorgimento non soltanto per
mia inettitudine all’ampollosità, ma perché nella specie lo ritengo fuori luogo
a Bologna.
Per
darne ragione a chi non ne fosse consapevole, è sufficiente citare poche
significative malefatte qui perpetrate:
I°-.
quando frequentavo il ginnasio Minghetti, abitavo in via Carlo Alberto
(prosecuzione di via Marconi, oltre piazza dei Martiri, verso la stazione),
orbene ho scoperto che le targhe attualmente esposte su quella strada,
riportano invece il nome d’altro personaggio, ed a Bologna, non so da quando,
una via Carlo Alberto non esiste più.
Evidentemente
qui ci si fa amministrare da notabili concittadini determinati a non lasciar
tramandare memoria del re sabaudo ch’era tanto illuminato da emanare il primo
nostro statuto, in tempi di monarchie assolute, e-. per subentrare nel governo
del lombardo-veneto, affrancandolo dall’esecrata dominazione austriaca,
promosse e combattè la prima guerra d’indipendenza nazionale, occasione nella
quale egli fece, fra l’altro instaurare la bandiera che fino al 1946 abbiamo
onorato per un secolo.
2°-La
statua equestre di Vittorio Emanuele II° il quale diresse le due successive
guerre d’indipendenza e la costituzione dell’unità d’Italia (per cui fu anche
detto “padre della patria”) è stata disarmata, scomponendone la divisa, fu
divelta dalla piazza centrale omonima, ora detta “piazza maggiore” (in cui
s’ergeva dal 1880, simbolo del riscatto di Bologna dalla sovranità temporale
della chiesa di fronte dell’apologetica effige papale in alto rilievo che, al
contrario continua a troneggiare intatta dalla facciata del palazzo del
municipio) e si trova desso relegata su terreno anonimo dietro i cancelli dei
giardini, fuori Porta a Santo Stefano, tuttora priva della sciabola
d’ordinanza.
3°-
Appena laureato m’iscrissi all’ordine degli ingegneri con sede a due passi
dalle Due Torri, in via Mazzini 13, che ora, con ridicola falsità evidente, è
stata convertita in “strada Maggiore”in cui gli ingegneri hanno resistito nello
stesso immobile d’immutato numero civico, ma le targhe col nome del
repubblicano fondatore della Giovane Italia sono state estromesse dal grembo
del centro storico e deportate in esilio nella periferia fuori delle mura.
Un
tempo si diceva “sic transit gloria mundi”; ma qui non si tratta di “mundi”:
nelle altre città da me visitate gli abitanti han conservato toponomastica e
monumenti rinascimentali indenni al posto d’originale destinazione.
All’ordine
del giorno abbiamo però il 150° anniversario dell’unità, e, mancandone qui il
dovuto rispetto, invece di celebrarne l’istituzione, compito del resto già
assolto da persone più qualificate di me, a cominciare dal Presidente della
Repubblica, vi intratterrò accennando a qualche mia diretta esperienza, vissuta
nel “secondo risorgimento” come viene anche chiamata la guerra di liberazione,
dato che ebbi a prendervi parte, e certo non vi è stato raccontato tanto a
lungo e di frequente quanto il movimento di resistenza dei partigiani, benché
d’assai maggior rilevanza.
Mi
limiterò a qualche aneddoto, e non in tono aulico, ma familiare come s’addice
al confidare vicende e considerazioni personali a consoci che abbiano la
cortesia e la pazienza di ascoltarmi.
L’8 settembre 1943 fu tempestivamente
divulgato l’avvento dell’armistizio col quale cessava la guerra che Mussolini
ci aveva fatto intentare contro Francia, Inghilterra (e Commonwealth), Grecia,
Stati Uniti d’America, e Russia; ma Hitler non sopportò la nostra resa ed
immediatamente fece occupare militarmente due terzi della nostra penisola dalla
Wehrmacht.
Io
mi trovavo alle armi in una caserma di Firenze che venne circondata dai carri
armati Panzer cui il comandante del reggimento non potè che arrendersi, ma mi
riuscì d’evadere e raggiunger casa.
Però
l’indomani lessi un manifesto murale affisso a Porta Castiglione, a firma di
Kesserling, che intimava ai giovani d’una età in cui io rientravo, di
presentarsi alla caserma di Porta San Mamolo entro due giorni pena fucilazione.
Ascoltando
radio Bari e radio Londra si sentiva dire e ripetere insistentemente che il re
ed il governo eran riparati indenni a Brindisi, e poiché la Puglia non era
occupata da eserciti stranieri, là stavan continuando a svolgere liberamente le
loro funzioni. Perciò mi risolsi a partire verso sud per sfuggire alla minaccia
tedesca, adoperandomi semmai perché anche il resto d’Italia ne fosse liberato,
e presi la mia bicicletta, un valigino riempitomi da mia madre e 14000 lire infilatemi in tasca da
mio padre.
Dopo
tre giorni pervenni ad aggirare nottetempo, su una barca da pesca, il fronte
bellico, ed a raggiungere Bari, da Termoli, con scalo a Rodi Garganico.
Eran
le 9 del 25 settembre. Appena sbarcato in porto, fui sottoposto ad
interrogatorio da un colonnello, che mi dette credito (benché indossassi abiti
civili e fossi sprovvisto di documenti) e mi fece reintegrar nell’esercito come
allievo ufficiale, con la qualifica di “sbandato”;infatti non mi nascose di
dubitar della mia assennatezza quando capì che avevo lasciato casa e genitori a
Bologna, e percorso quasi mille chilometri col proposito di partecipare alla
cacciata delle truppe tedesche dal patrio suolo.
Il
colonnello comunque mi dedicò meno di un minuto per spiegarmi che l’Italia non
poteva compier altre operazioni militari, perché ridotta allo sfacelo dalla
guerra dai rovinosi esiti in cui Mussolini ci aveva inconsultamente precipitati.
Tuttavia
venti giorni più tardi il re dichiarò guerra alla Germania, secondo le mie
aspettative, ed io riuscii fortunosamente a farmi ingaggiare dalla prima brigata
italiana messa in campo in aggregazione alla V^ armata americana, che ci
battezzò “First Italian motorized group”.
Ero
tanto convinto di trovarmi nel posto giusto, impegnato ad adempiere l’azione
giusta, da cittadino in età di leva, che non temetti mai i pericoli cui mi
trovavo esposto nell’incarico, che mantenni sempre, di capo pattuglia, e da subito mi sentii a mio agio.
Fu
là ad ogni modo, che dovetti riconoscere le ragioni del colonnello che m’aveva
indagato al mio sbarco a Bari, perchè questo primo Raggruppamento italiano di
cui ero entrato a far parte, risentiva di essere stato costituito all’insegna
dell’improvvisazione, vestiva divise di tela caki (rinvenute in magazzini
pugliesi, in precedenza destinate alle perdute colonie africane), uniformi del
tutto inadatte all’uso invernale specie sugli Appennini, le armi risalenti
all’’800, mancavano depositi di rifornimento di munizioni ed i radiotelefoni da
campo che sarebbero occorsi per esercitare i compiti affidatimi, senza parlare
del generale disorientamento dovuto alla subitanea trasformazione della pace
connessa con l’armistizio, in ripresa delle armi con rovesciamento d’ostilità
ed alleanze.
Eccovi
due aneddoti, che non trovereste mai in un libro di storia, sul generale Dapino
in comando:
1)-Presentatosi
giorni avanti al 51^ battaglione di reclute di bersaglieri in addestramento
preliminare al corso AUC, dopo una succinta aringa appropriata ai novizi
regolarmente schierati sull’attenti, annunciò la formazione d’un corpo di
truppe italiane volontarie, per prender parte congiuntamente agli ex nemici
americani e inglesi, a combatter gli ex alleati tedeschi accanitamente
impegnati a mantenere l’Italia settentrionale e centrale sottomesse al III^
Reich e terminò gridando:”Se c’è qualche vigliacco che rifiuta di venire,
faccia un passo avanti!
Tutti
rimasero stupiti, ma immobili sull’attenti e divennero così ipso facto
volontari ed assegnati ad aggiungersi ai tre reggimenti che costituivano la
brigata del generale.
In
verità anche questi non erano ancora preparati al capovolgimento del fronte
bellico che raramente gli ufficiali eran stati in grado di spiegare in modo
convincente ai sottoposti
2)-Il
generale Marc Clark capo della V^ Armata americana, venne a passarci in
rassegna ad Avellino, e dopo un rapido esame constatò la carenza di qualità sia
d’armamento sia di vestiario; ma il nostro se lo aspettava e s’era preparato, e
disinvoltamente asserì: “il soldato italiano è abituato così”.
E
così la sera del 6 dicembre raggiungemmo la prima linea del fronte, a dare
inizio al Secondo Risorgimento, la nostra guerra di liberazione. Per questi
preliminari potrebbe esser criticato, però quale comandante designato il Dapino
seppe intraprendere il repente avvio dell’impossibile conflitto preteso dal re.
Onore a lui!
Trascorso
un giorno ad acquartierarci senza neppure riuscire ad orientarci nel teatro
delle operazioni in cui eravamo stati introdotti, all’alba dell’8 dicembre non
ostante l’acclivio del suolo e le sfavorevoli condizioni meteorologiche, s’affrontò
il battesimo del fuoco tentando con un assalto, subito rintuzzato
sanguinosamente, di conquistare Montelungo, uno squallido dosso roccioso sulla
via di Cassino, ove la Wehrmacht restò trincerata per cinque mesi. In quel
brevissimo attacco miseramente fallito, assolsero e conclusero sventuratamente
la loro parte i due compagni di liceo che avevo rincontrato, unici bolognesi,
fra gli allievi ufficiali direttamente reclutati dal nostro generale, come
surriferito: Carlo Cosimini, colpito a morte appena s’era mosso, e Federico
Marzocchi, pochi minuti dopo ferito al braccio che dovette essergli amputato.
Il
gen, Clark ci visitò l’indomani, mostrò di dolersi dell’eccezionale numero di
vittime patite nel nostro nefasto esordio, che in parte giustificò, sebbene di
misura inusitata nella sua armata (ove si era molto restii a mettere a repentaglio le truppe), e
cavallerescamente propose di ritentare l’espugnazione mancata; ed alla seconda
offensiva, una settimana più tardi, ci fece precedere quella volta, da un
imponente preparazione di fuoco d’artiglieria, anzichè del reggimento della
nostra brigata (che del resto era già a corto di proiettili) di batterie della
XXX^ divisione Texas, attestata al nostro fianco sinistro,che sconvolsero
meticolosamente ogni versante del colle da conquistare, facendovi esplodere
migliaia di proiettili.
Fu
un interminabile fracasso da fine del mondo, che dopo lo sbigottimento,mi fece
sovvenire della massima “C’est l’argent qui fait la guerre”.
Così
potemmo e con ben minori perdite, arrivare a far sventolare la nostra bandiera
(proprio del genere di quella ch era stata adottata da Carlo Alberto) sulla
vetta di Montelungo.
Coi
due fatti d’armi dei nostri primi venti giorni c’eravamo ridotti, fra morti e
dispersi, da 4500 a 2500 circa! Al sacrificio della prima della guerra
impossibile, era almeno seguita una consistente vittoriosa avanzata. Onore a
Clark ed ai nostri tanti caduti!
In
memoria dei due scontri, adesso il comune di Mignano, ove si trova quella zona
operativa, si chiama Mignano Montelungo, e conformemente a Redipuglia dopo la
Grande Guerra, su quella impervia altura è stato composto un suggestivo
sacrario con tombe degli uccisi, assurto ad emblema dell’abnegazione delle
Forze Armate Italiane durante l’intera guerra di liberazione.
Dopo
questa impresa la nostra brigata andò a riposo; fu riordinata e trasferita alla
VIII^ armata inglese, e s’accrebbe a divisione chiamata CIL al comando del gen.
Utili.
Tornando
in linea fummo affiancati alle due divisioni francesi del gen.Jouin, e più tardi
al corpo d’armata polacco del gen. Anders, che fra le varie battaglie prese
parte alla liberazione di Bologna, ma ebbe la sfortuna di dover restare esule a
.Londra ove spirò una ventina d’anni dopo senza
aver potuto rimetter piede in patria, perché impeditogli dal governo di
Varsavia del dopo guerra. Onore al generale Anders ed ai suoi accoliti!
Risalendo
la penisola impegnati in più d’un fatto d’armi fino alla linea gotica sulla
quale le divisioni tedesche s’attestarono nell’inverno 1944-1945, poteron venir
coscritti molti altri ufficiali e soldati volontari dei territori liberati così
da assurgere a corpo d’armata di cinque divisioni dette Gruppi di Combattimento
equipaggiati ex novo dal superiore comando inglese coi nomi: Cremona, Mantova,
Piceno, Folgore, Friuli e Legnano, al quale appartenevo io. Arrivammo in tal
modo ad assommare 413.000. Ma le vicende del R.Esercito in territorio nazionale
non furon mai commemorate dai media, al contrario di quelle della Resistenza
partigiana.
E
ciò malgrado sia stata di gran lunga maggiore la partecipazione ai
combattimenti delle nostre truppe e sia stato grazie alla cobelligeranza delle
Forze Armate regolari (costata circa 80000 morti) che Alcide De Gasperi, a
guerra finita seppe ottenere che all’Italia venisse riservato un trattamento
ben migliore che a Germania e Giappone, nelle cui abbiette velleità di assoggettare
il resto del mondo, col pretesto della vantata superiorità razziale,il Duce ci
aveva sventuratamente coinvolto. Onore ai Gruppi di Combattimento!
Più
che con operazioni militari a questo punto penso di potervi interessare con
qualche testimonianza su quello che impropriamente alcuni chiamarono il regno
del sud. Infatti dopo le due battaglie di Montelungo, beneficiai d’una settimana di licenza premio, che decisi
di trascorrere in abiti civili a Napoli, anche se come in tutto il resto del
mezzogiorno, non vi conoscevo nessuno.
Là
ebbi l’opportunità di incontri di notevole rilievo, come Benedetto Croce che mi
ricevette a Villa Tritone a Sorrento ed in città Carlo Sforza, Adolfo Amodeo,
Italo De Feo e Mario Craveri.
La conversazione
di quasi un ora con Croce, da lui riportata in una pagina del suo ultimo libro,
mi esaltò per la vivacità della sua intelligenza, che fra l’altro gli
consentiva talvolta di rispondermi a domande prima ancora che io le avessi
completamente formulate. Fu una specie d’ intervista che
posso riassumere per sommi capi: alla mia lamentela che troppa gente dopo
cinque mesi dalla implosione del fascismo del 25 luglio non aveva ancora
capito, neppur dalla libera stampa che le quattro guerre (Etiopia, Spagna
Albania e Francia-Inghilterra-Grecia-Stati Uniti-Russia,eccetera, oltre le
repressioni in Africa) e le altre tragedie e disastri che stavamo vivendo, eran
dovute tutte alla calamitosa dittatura fascista, rispose sinteticamente solo:
“Non perdonerò mai a Mussolini d’avermi indotto a sperare che l’Italia perdesse
la guerra, ma se il fascismo è qui ancora un residuo nell’animo di tanti, in
Francia con Petain s’è divulgato addirittura allo stato idillico.
Lamentai
d’aver visto ad Avellino in vendita un giornale
il cui articolo di fondo, a firma Guido Dorso, parlava della nostra
brigata sotto il titolo “La conquista regia”:Croce si limitò a dire che
conosceva l’autore e lo qualificò un bravo ragazzo; dalla Treccani ho appreso
poi che era un notabile del Partito d’Azione. Io però dissentii: l’unica cosa
ch’ero riuscito ad ottenere da lui era stato che se lui avesse saputo che
saremmo passati da Avellino per recarci al fronte, avrebbe atteso che ce ne
andassimo per fare pubblicar l’articolo.
Non
apprezzai neppure la risposta alla domanda in quale stadio ci trovassimo,
secondo lui in riferimento alla famosa frase di Massimo D’Azeglio:L’Italia è
fatta, ora bisogna fare gli italiani, rispose:”che sitrattava d’un errore: gli
italiani non son da fare o disfare, son i figli di mamma italiana.”
Il
conte Sforza mi mise al corrente di significative, delicate circostanze del suo
recentissimo rimpatrio dagli Stati Uniti ove era stato da fuoriuscito, e del
placet riscosso a Londra personalmente da Churchill, al quale aveva comunicato
l’intendimento di mettersi a disposizione del governo italiano, per cui mi
capacitai, di poi, del fatto, che avendo mancato di collaborare col re e
Badoglio, a lungo non gli fu consentito alcun incarico ministeriale, per veto
britannico, durante il regime del GMA. In effetti circa il suo atteggiamento
politico mi dichiarò apertamente (con mio sconcerto, essendo lui un nobiluomo,
insignito dal re del collare dell’Annunziata, ex ambasciatore ed ex
ministro poi senatore) che, dopo un mese trascorso a Brindisi dove,
a suo dire, non aveva trovato possibile dare il proprio contributo, s’era
trasferito a Napoli da cui “ con Croce facciamo guerra al re”. Don Benedetto
era stato con me più riservato.Curiosamente fu Sforza che al commiato mi
consegnò un biglietto di presentazione a M.Craveri, genero di Croce.
Nel
libro di memorie pubblicato a guerra finita io figuro registrato per l’.incontro,
ma senza citare la suddetta confidenza.
Altrettale
scelta di ribellione al sovrano trovai da parte del rettore
universitario prof. Omodeo col quale ebbi a cenare una sera a Villa Lucia,
ospiti del De Feo. Lui era il leader locale del movimento di Giustizia e Libertà
.Con me (anzi contro di me) sostenne che la guerra di liberazione da parte
italiana non doveva essere combattuta
dal R.Esercito al quale m’ ero rivolto io, perchè vi sussisteva il rito del
giuramento di fedeltà al re; doveva perciò essere costituita una “nuova armata di
volontari da far comandare da un tenente
di complemento”.
Evidentemente
lui si esprimeva su argomenti ignoti e dimenticava che anche i tenenti di
complemento avevano tutti giurato fedeltà al re. e che tutti i docenti della
sua università, compreso forse lui stesso dovevano aver prestato il giuramento
fascista, per esimersi dal quale sapevo che soltanto una dozzina di professori
universitari nell’ intera Italia avevan dovuto
cessare la loro attività didattica;
era in preda a faziosità superiore al discernimento, e mostrava di
mancare di senso dello stato.
Ciò
che deplorai maggiormente fu in quel tragico momento, con le città del resto d’Italia bombardate, Mussolini
sotto tutela delle SS aveva rialzato la cresta. a Salò, e tanti connazionali
gli tenevan bordone, centinaia di migliaia di militari eran tagliati fuor dai
nostri confini, alla mercè degli hitleriani, tante famiglie smembrate ecc.ecc.,
non si comprendeva che era supremamente necessario unire ogni forza per
svincolarsi dall’invasione nazista, e per sopperire alla situazione di paralisi
economica e finanziaria, salvando la popolazione dalla fame quale appariva dal
mercimonio praticato sulle strade, sotto gli occhi di tutti, con le “segnorine”
che adescavano i soldati stranieri bianchi e neri.
Anche
vecchi personaggi come Vittorio Emanuele Orlando e Saverio Nitti, delusi da non
esser stati chiamati ad incarichi di governo, erano intenti a combattere re e
Badoglio anzichè le truppe di Hitler che stavan spadroneggiando nel nostro
paese come fosse una colonia del Reich.
E
dire che bastò affidarsi al grande
giurista Enrico De Nicola che non nutriva ambizioni politiche, ma che in un
colloquio di poco più di mezz’ora seppe convincere il re a ritirarsi nominando
il Principe di Piemonte luogotenente del regno non appena fosse stata liberata
Roma.
Circa
la democrazia che insieme alla libertà avemmo facoltà dà attingere a guerra
finita, potrei citare non pochi casi che dimostrano trattarsi di cultura di
difficile assimilazione per la nostra gente, a colpa secondo me, in particolare
dei governi frequentemente succedutesi e dei partiti che mai si fecero carico
di spiegarla a tutti i livelli e propagandarla, la democrazia per correggere
gli aberranti insegnamenti propinatici durante la ventennale nefasta dittatura,
tenendo conto che ben poca attitudine alla gestione della politica dimostriamo
noi italiani come disse Giovanni Giolitti alla fine della sua vita.
Al
referendum istituzionale nel 1946, vi
confido che votai per la repubblica considerando ormai anacronistica la
monarchia, ed altresì che i comportamenti dei Savoia contemporanei
consigliavano di non rinviare l’attuazione dell’aggiornamento a repubblica
offerta dalla circostanza; oltre alle corresponsabilità del re durante il
fascismo anche l’erede appena succedutegli non aveva fornito garanzie di
validità date le topiche in cui era incorso da luogotenente.
Una
per tutte: nell’inverno 1944-1945 in un’indebita intervista carpitagli da
giornalisti americani, preferì difendere la compromessa figura politica del re
piuttosto dell’estremo interesse che la nazione aveva d’apparire presto
riabilitabile fra i paesi civili, all’indomani dall’aver subito la dittatura
mussoliniana. Infatti alla domanda come mai il re suo padre avesse consentito
il fascismo, si apprese dai giornali che aveva risposto: “il fascismo l’han
voluto gli italiani”.
E’
chiaro che non gli era stato insegnato che i membri delle famiglie reali non
devon concedere interviste, né che chi ha gravi responsabilità può e deve saper
mentire, all’occorrenza come ho già detto,non mancò di fare il gen.Dapino per
obbedire alle disposizioni del capo delle Forze Armate.
Ho
raccontato qualche informazione su alcune mie esperienze perché sento il
dovere, verso chi ha perso la vita per la liberazione, la più giusta delle guerre, il II^ Risorgimento, di
ricordarne il sacrificio. Furon giovani italiani unitisi a quanti vennero in
armi, anche da stati d’altri continenti, a salvare l’Europa dalle ingiurie
della mostruosa tirannide dell’infame Hitler.
Inoltre
come m’è affiorato alla mente ripensando a quei tempi, considero che l’usato
detto che il futuro degli anziani sono i più giovani, è più valido se
rovesciato: il futuro dei giovani siam noi adulti, vegliardi caduci compresi,
perché dipende da quello che avranno imparato da noi, e quindi è nostro compito
informarli di come noi affrontammo le vicissitudini della giovinezza nostra.
Se
viviamo ora da persone libere, ed è salva la nostra civiltà, è comunque a tutti
questi combattenti che lo si deve, di qualsiasi provenienza, grado militare,
cultura, condizioni sociali e religione.
Onore a loro!
* Questo articolo fu inviato nel 2013 ad una Rivista che da quell'anno ha terminato le sue pubblicazioni.
Al fine di mantenere la promessa di pubblicazione ad un amico
lo metto in visione ai lettori
per porre riparo almeno in parte alla mancata pubblicazione.
(massimo coltrinari)
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