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domenica 4 febbraio 2018

Annotazioni su una riflessione generale sulle "missioni di pace"


APPROFONDIMENTI

 In anteprima, riportiamo l'intervento svolto dal prof. Giancarlo Ramaccia al Convegno "Il Valore Militare e le missioni di pace" tenutosi in occasione della Giornata del Decorato 2017 a Montevarchi, tratto dagli "Atti" della Giornata del decorato 2017 che saranno presentati a Roma il 13 aprile 2018. 

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Giancarlo Ramaccia

Affrontare il tema delle “missioni di pace” e cercare di farne un breve e sommario bilancio impone principalmente a me, e poi a tutti di noi, di definire innanzi tutto in modo chiaro e netto il termine pace, di vedere quale sia il suo significato comune e se ne abbia uno, accettato da tutti, e individuare un suo corrispondente, con il medesimo significato in altre lingue e altre culture distanti dalla nostra.
Pace, pax, peace, paix, paz, shalom, sala’am… è un termine che non si presta ad una immediata e rapida definizione, anche perché il termine pace ha un legame “molto stretto” con il termine conflitto e pertanto la sua definizione resta quasi sempre generica e indefinita e quindi alla domanda: cos’è la pace? Rispondiamo con generiche affermazioni sullo stato di armonia personale o collettiva, scivolando in contesti intimistici o religiosi (pace interiore, dello spirito, della propria coscienza), oppure nel contesto sociale (come: pace politica, pace internazionale, pace familiare o del proprio gruppo etnico), ma sempre facciamo fatica a definirne le sue proprietà e, infine, ci rifugiamo nella definizione più comune e antica: quella di “pace come stato di non guerra”.
Per questo motivo siamo costretti a ricorrere alla consultazione di dizionari, vocabolari ed enciclopedie, nel vano tentativo di raggiungere una sicurezza terminologica che supporti la nostra aspirazione personale di sicurezza, tranquillità, armonia.
Consultando i dizionari troviamo una molteplicità di definizioni, da quelle di tipo descrittivo a quelle che possiamo definire dottrinarie, ossia di tipo prescrittivo o finalistico, redatte da filosofi, giuristi o religiosi, che mirano a chiarire un solo aspetto particolare del termine, quello, appunto, che permette loro di dare coerenza alla propria argomentazione e suffragare le proprie personali teorie.
Vediamo ora di confrontare alcune definizioni dl termine tratte dai principali dizionari della lingua italiana. Iniziamo dalla definizione tratta dal vocabolario della  lingua italiana edito dall’Istituto Enciclopedico italiano, dove si definisce pace: “ sostantivo femminile, che deriva dal latino pax-pacis, ossia “pangere”; “fissare”, “pattuire” (pactum); condizione di normalità di rapporti, di assenza di guerra e conflitti, sia all’interno di un popolo, di uno stato, di gruppi organizzati, etnici, sociali, religiosi, ecc. ecc. (…) Può anche significare: buon accordo, armonia, concordia di intenti, condizione di tranquillità materiale, di riposo, di quiete, serenità spirituale, formula di saluto e di commiato limitata ai solo religiosi”.
Passiamo ora alla definizione che troviamo nel vocabolario di Nicola Zingarelli: “Assenza di lotta e conflitti armati tra popoli e nazioni (…) Buona concordia e serena tranquillità di rapporti”; mentre il dizionario Devoto-Oli riporta: “Situazione contraria allo stato di guerra (…)l’atto che sanziona la definitiva cessazione di uno stato di guerra”; per concludere con il dizionario etimologi di Battisti-Alessio che definisce pace:”propriamente patto (pangere) convenzione tra due parti belligeranti, donde stato di pace”. Confrontando tali definizioni descrittive, emerge che è primaria la definizione del termine “come non-guerra”, ossia assenza di conflitto armato e come “patto” ossia convenzione, accordo fra due o più parti di speciale importanza e stipulato con particolare solennità.
La primaria definizione di pace come non-guerra lega in una relazione stretta il termine pace alla guerra e in questa coppia di opposti (pace-guerra) è sempre il primo termine (pace) ad essere definito per mezzo del secondo (guerra) e non viceversa. Pertanto, guerra viene definito positivamente con l’aggiunta e l’elencazione dei suoi connotati caratterizzanti che sono: conflitto, lotta, violenza, brutalità, stragismo, furia, tempo di Ares, Erinni, ecc. ecc., mentre pace non ha  bisogno di connotarsi e caratterizzarsi, è semplicemente la negazione della guerra, ossia la sua assenza, la non guerra, è il tempo che intercorre tra due successive guerre. Quando tra due termini di una opposizione uno di essi è definito tramite le sue caratteristiche e proprietà (guerra), mentre l’altro è definito per negazione e opposizione (pace), si genera un legame di dipendenza, dove il termine più caratterizzato manifesta la sua prevalenza e indica lo stato più rilevante. Infatti, esiste una grande filosofia della guerra, ma non esiste un’altrettanto filosofia della pace.
Da sempre i filosofi si sono interrogati sul problema della guerra e grande parte della filosofia della storia e della filosofia politica non è altro che una lunga meditazione sulla guerra, argomentando su due principali filoni di idee, quello che riguarda i rapporti interni ad una comunità affrontando la relazione “pace-ordine” e quella che riguarda i rapporti inter-stato dove è preminente lo studio della coppia “disordine-guerra”.
Non si può definire il termine pace e comprendere il significato vero della pace senza aver prima definito il termine guerra. Vediamo quindi ciò che dicono i dizionari in merito. Consultando il dizionario della lingua latina di Castiglioni Mariotti, leggiamo: “ Bellum, i, nominativo; guerra civile, bellum civile o bellum intestinum ac domesticum; guerra esterna, bellum externum; (…) in senso traslato stato di guerra, lotta, inimicizia  e indagando ulteriormente l’etimo troviamo la radice tedesca “wërra” e quella francese “wèrra” con il significato di confusione, contesa, lotta.
Alla pace si oppone il bellum e quest’ultimo termine è prescrittivo e principale. Termine così forte che una delle più diffuse enciclopedie italiane (compilata dalla redazione grandi opere di cultura UTET, rielaborando i contenuti delle banche dati UTET, Garzanti grandi opere e De Agostini, per il gruppo l’Espresso S.p.a. e per il suo quotidiano La Repubblica) impiega soltanto 28 righe per definire il termine pace contro le oltre 12 pagine per definire il termine guerra.
Per molti secoli la pace stava ad indicare il tempo che intercorreva tra le guerre, solo nel 1700 con l’imporsi nell’occidente cristiano del pensiero razionale e dell’Illuminismo si fa avanti l’idea di uno stato del mondo finalmente libero dalla ricorrente violenza armata e dalla guerra, cominciando ad auspicare una pace universale, una pace perpetua. Dei tanti progetti elaborati da: Ugo Grozio, Emeric Crucè, William Penn, abate di si Saint-Pierre, Saint Simon e Thierry fino all’ultimo elaborato da Hans Kelsen nel 1944, vogliamo ricordare in particolar modo, per la sua importanza, quello che Immanuel Kant nel 1795 propose con lo scritto “Zum-ewigen Frieden” (Per la pace perpetua), che continua a tutt’oggi a svolgere la sua funzione pedagogica di educazione alla pace e di stimolo degli studiosi al confronto per la ricerca di un unico modello condiviso di governo del sistema internazionale di stati sovrani.
Sarebbe molto istruttivo ed interessante vedere attraverso le diverse epoche storiche e lo svolgersi delle successive culture politiche e filosofiche il variare dell’interpretazione della coppia pace-guerra fino all’affermarsi, nell’attuale nostra epoca, di una profonda e condivisa domanda dei popoli di pace universale, ma il tempo è tiranno e impone scelte radicali. Per cui dopo aver delineato sommariamente il termine pace, ci caliamo nella nostra attualità contemporanea: una  terribile attualità. Infatti, secondo i dati raccolti da uno dei più autorevoli istituti di studi sulla pace, il SIPRI (Stockholm International Peace Research Istitute), che pubblica ogni anno un suo annuario con dati e statistiche relative alla pace del mondo, apprendiamo che dal 1945 ad oggi si sono combattute ben 125 guerre civili (con almeno 1.000 morti l’anno), che sono durate in media 10 anni, ossia è iniziata una guerra e mezza ogni anno. Non solo, ma la terza edizione del “Global terrorism index” ci informa che nel 2014 ben 32.685 esseri umani sono stati uccisi a seguito di azioni terroristiche, il doppio in confronto a quelle dell’anno precedente ed è questa la cifra più alta mai raggiunta, visto che nell’anno 2000 le vittime del terrorismo risultarono essere 3.329, esattamente il 10% di quelle attuali. Delle oltre 30.000 vittime del terrorismo il 78% risulta di religione musulmana e sono il frutto dell’operato di gruppi terroristici quali: “Talibani, Boko Haram, IS/Daesh”. Non solo, l’Unicef informa che nello stesso periodo 15 milioni di bambini sono stati a vario titolo vittime di violenza politica e migliaia di persone sono giornalmente, in diverse parti del mondo, sottoposte a brutali torture. A trenta anni dalla firma della Convenzione dell’ONU contro la tortura, ancora 131 stati la praticano.
Ad oggi in: Afghanistan, Iraq, Siria, Libia, Somalia, Eritrea, Etiopia, Congo, Kinshasa, Mali, Repubblica Centroafricana, Nigeria, Kenya, Pakistan, Yemen, Palestina, Ucraina ecc. ecc. si combattono brutali conflitti che rendono sempre più utopica la desiderata pace universale. A ciò si aggiunge la piaga della criminalità organizzata, che 2015 sconvolge la vita interna di parecchi stati nazionali, principalmente nell’America latina, nell’Asia Sud orientale, nell’Africa ed anche in Europa.
L’analisi dei dati mette in crisi il nostro ottimismo di occidentali che credono fermamente che con il progredire materiale dei popoli e il diffondersi dei valori democratici occidentali si realizzi una costante regressione della violenza. Come uno studio di alcuni anni fa, di Rudolph J. Rummel, tentò di verificare esaminando tutte le guerre internazionali verificatesi tra il 1816 e il 1991, giungendo ai seguenti risultati:
-          198 guerre combattute tra stati non democratici;
-          155 guerre combattute tra stati democratici e non;
-          Nessuna guerra combattuta tra stati democratici.
Lo Stato democratico era visto come un impedimento verso i conflitti armati e in modo particolare le democrazie stabili, quelle di chiara impronta liberale, ma anche lui  dovette ammettere che gli Stati democratici, più o meno stabili, fanno la guerra con la medesima frequenza di quelli non democratici, dimostrando così che non è la diffusione o meno dei valori democratici che impedisce i conflitti, perché molto dipende dalla demografia globale, dalla limitatezza delle risorse materiali e dalla loro allocazione territoriale del tutto casuale e caotica, a cui si aggiunge il radicale cambiamento climatico che causa grande povertà. Esportare la democrazia, prima di essere una pia illusione, è una cattiva politica che genera sistematicamente instabilità e conflitti. Come bene insegna la lezione della Rivoluzione francese: “sono i popoli nei loro Stati che devono liberamente e autonomamente scegliere nei modi e nei tempi i valori democratici  e le loro istituzioni”, a seguito di una precedente rivoluzione culturale e di costume nella loro società. Imporli dall’esterno non è altro che una odiosa forzatura, che non produce i risultati sperati ma genera ulteriore caos, confusione, conflitto.
Al termine della Grande Guerra (1914-1918) le potenze alleate e associate alle vincitrici insieme alla Germania, l’Austria, l’Ungheria e la Bulgaria (potenze sconfitte) diedero vita alla Società delle Nazioni, detta anche Lega delle Nazioni, con sede a Ginevra. Essa fu fondata nella conferenza di Parigi del 1919 dalle potenze vincitrici la Prima Guerra Mondiale, con l’approvazione e la firma del patto istitutivo (28 aprile 1919) e che costituì la prima parte dei trattati di pace. Tale istituzione internazionale aveva ordinamento e forma di tipo confederativo, personalità giuridica e permetteva di ammettere al suo interno, con uguali poteri, altri Stati. I suoi fini erano:
-mantenimento della pace
-cooperazione internazionale;
-attuazione della cosiddetta “diplomazia aperta” mediante registrazione di tutti i trattati e delle convenzioni segrete.                                         
Da subito gli Stati Uniti d’America e il suo presidente Wilson, che ne era stato uno dei principali patrocinatori, ne restarono fuori, minando così il suo funzionamento. Svolse tra grandi difficoltà la sua missione e governò l’area della Saar (Germania) dal 1919 al 1935 e la città libera di Danzica fino all’occupazione tedesca del 1939. I veti incrociati dei paesi partecipanti la posero nell’impossibilità di funzionare e non riuscì ad impedire la Seconda Guerra Mondiale (1940-1945).
Al termine della Seconda Guerra Mondiale con deliberazione della propria assemblea, il 18 aprile 1948, la Società delle Nazioni si estinse. Al suo posto gli Stati vincitori, le Nazioni Unite, diedero vita all’ONU, sigla che sta per Organizzazione delle Nazioni Unite. Questa organizzazione universale che veniva a prendere il posto della Società delle Nazioni, fu predisposta dalle potenze alleate con la dichiarazione della alleanza militare tra le Nazioni Unite del 12 gennaio 1942 in piena guerra. In tale dichiarazione furono elaborati i principi fondamentali, molti dei quali, già presenti nella “Carta Atlantica” del 1941 ossia a dar vita al termine della guerra ad “un sistema collettivo di sicurezza” e all’abbandono dell’uso della forza da parte degli Stati aderenti, nelle contese inter-statali. Nelle successive conferenze, come quella di Mosca (ottobre 1943) USA, URSS, Gran Bretagna, Cina nazionalista, ribadirono la loro volontà di dar vita ad una organizzazione generale aperta a tutti gli Stati della comunità internazionale e fondata sul principio del rispetto della sovranità nazionale e finalizzata al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Successivamente nella conferenza di Dumborton Oaks (distretto di Washington), nell’agosto del 1944, viene elaborato un progetto di statuto che verrà approvato alla conferenza di San Francisco, del 26 aprile 1945, da parte dei delegati lì convenuti da 49 Stati.
I fini che si propone l’ONU sono:
-mantenimento della pace e sicurezza internazionale;
-garanzia di eguaglianza e di indipendenza di tutti i popoli;
-sviluppo della cooperazione tra gli Stati nel campo economico, sociale, culturale;             
-tutela dei diritti umani.
Inoltre gli Stati membri si impegnavano a risolvere le controversie inter-statali con mezzi pacifici e secondo il principio di giustizia seguendo ciò che prescrive il diritto internazionale in merito, con l’astenersi a far ricorso alle armi e ad ogni atto di aggressione e uso della forza. Gli Stati si impegnavano inoltre a fornire assistenza militare per prevenire o reprimere ogni minaccia alla sicurezza internazionale e alla  pace ed ogni sua violazione.
All’articolo 7, dello statuto, vengono definiti gli organi di governo dell’organizzazione che sono: assemblea generale, consiglio di sicurezza, consiglio economico e sociale, consiglio di amministrazione fiduciaria, corte internazionale di giustizia, segretariato, ma l’organo più importante di tutti è il consiglio di sicurezza, anzi i soli membri permanenti di tale consiglio, che assommano a se il potere di tutta l’organizzazione. Tra i poteri del consiglio di sicurezza vi è anche quello di accertare i requisiti degli Stati richiedenti di entrare a far parte dell’organizzazione, è il consiglio che ne propone l’ammissione all’assemblea generale, che con votazione a maggioranza dei due terzi decide in merito. Attualmente l’ONU risulta composto da tutti gli Stati del mondo, dopo l’ingresso nell’anno 2002, della Svizzera e di Timor Est. Con l’esclusione dello Stato Città del Vaticano e dell’OLP palestinese che hanno lo status di osservatori permanenti e di Taiwan che, a seguito della sciagurata delibera del 1971 la quale riconobbe la Cina comunista unica e legittima rappresentante di tutta la Cina e vide esclusa la Cina nazionalista, ossia Taiwan, dal contesto organizzativo, minando in questo modo il principio della libera e autonoma scelta dei popoli a favore degli interessi della ragione di Stato.
L’assemblea generale dell’ONU svolge prevalentemente una funzione consultiva, essa coordina le attività dell’organizzazione, approva gli accordi internazionali conclusi dai suoi organi e il bilancio, ma può solo emettere “raccomandazioni ai paesi” e in nessun caso procedere autonomamente a sanzioni o a esclusioni di Stato membro.
Il grosso del lavoro è svolto dalle commissioni, la più importante delle quali è detta “piccola assemblea” e svolge compiti di politica internazionale in collaborazione con il consiglio di sicurezza, vera e propria centrale di potere dell’organizzazione.
Il consiglio di sicurezza, fino al 1965 era composto da 11 membri, di cui 6 permanenti, oggi esso è composto da 5 membri a titolo permanente, che sono: USA, Gran Bretagna, Francia, Cina, Russia (subentrata nel 1991 al posto dell’URSS) e 10 membri a titolo non permanente, eletti ogni 2 anni dall’assemblea generale.
Le decisioni, non procedurali, del consiglio di sicurezza, ossia quelle di politica internazionale, vanno prese con voto concorde dei 5 membri permanenti, che hanno quindi un diritto di veto su tutte le decisioni dell’ONU. Il principio di unanimità tra le grandi potenze e il potere amplissimo del consiglio di sicurezza, impediscono una vera democrazia dell’organizzazione, infatti si parla di “democrazia apparente” dell’ONU e di sostanziale “dominio decisionale dei 5 membri permanenti”.
Da tempo si avanzano proposte di riforma per aumentare la democrazia interna ed incrementare l’autorevolezza dell’organizzazione, tra queste segnaliamo ad esempio quella che giace da molto tempo e che prevede di portare da 5 a 10 i membri permanenti, con la presenza della Germania, del Giappone e di 3 Stati rappresentanti i paesi di sviluppo, ma veti incrociati, opinioni diverse, interessi conflittuali, un diverso senso di giustizia e soprattutto la ragion di Stato di più di un paese ne impediscono la realizzazione.
Tra i tanti poteri del consiglio segnaliamo quello di indagine su qualsiasi situazione possa causare “attrito internazionale” e dar luogo ad una controversia o conflitto, esso può adottare sanzioni politiche ed economiche contro gli Stati che ne minacciano la sicurezza internazionale e infine può avvalersi di forze armate messe a disposizioni degli Stato membro e stabilire le regole d’ingaggio.
Al segretario generale, nominato dall’assemblea generale, ma su proposta del consiglio di sicurezza, che adotta la delibera solo quando vi è piena unanimità tra i 5 membri permanenti, restano i compiti di coordinamento e poteri di iniziativa e convocazione del consiglio.
L’Italia aderisce all’ONU, dal 14 dicembre del 1955, esattamente 10 anni dopo la sua fondazione, anche se il suo percorso di adesione risale al 1947, ed entra nella categoria dei “membri successivi”. Infatti i membri originari sono i 47 Stati che hanno partecipato alla Conferenza di San Francisco. Questa distinzione tra originari e successivi non comporta attualmente una differenza di diritti e doveri, ma ha solo un valore storico e ideologico. Durante il periodo precedente alla sua piena adesione all’ONU, l’Italia ebbe l’incarico, nel 1949 di amministrare, per conto dell’ONU, in modo fiduciario, la Somalia in vista della sua indipendenza e tra il 1951 e il 1954, inviammo in Corea un ospedale da campo gestito dal Corpo Militare della CRI.
Fummo quindi coinvolti nella prima guerra dell’ONU. Il 23 giugno 1950, forze armate della Corea del Nord aggredirono il governo di Seoul, che venne immediatamente condannata dal consiglio di sicurezza e dall’assemblea generale, che delegarono gli USA al compito di guidare una coalizione internazionale per l’applicazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite. In sostanza si trattò di una coalizione di Stati la cui struttura militare e di comando coincisero in larghissima misura con l’ottava U.S.Army.
Successivamente partecipammo, nel 1956, come caschi blu, in funzione di supporto logistico alla United Nations Emergency Force I, nella crisi del canale di Suez.
Il primo vero intervento di peacekeeping  avvenne nel 1960 in Congo, a seguito della risoluzione 143 del 14 luglio1960 del consiglio di sicurezza, che prevedeva il controllo delle forze belghe ancora presenti dopo la dichiarazione di indipendenza e assistenza al governo locale per il mantenimento dell’ordine interno.
L’Aereonautica Militare italiana ebbe l’incarico di supporto logistico del contingente schierato e l’11 novembre del 1961, presso la località di Kindu, dove era acquartierata una guarnigione dell’ONU, 13 militari dell’Aereonautica furono trucidati da un gruppo di ribelli congolesi. Furono i nostri primi caduti, perché nelle successive 27 missioni portate a termine dai nostri contingenti militari il totale dei nostri caduti ammonta a 50 uomini su 3.400 peacekeepers morti dalla fondazione dell’ONU fino ad oggi.  
Ventisette missioni seguirono dopo la prima ufficiale del Congo in: Africa occidentale, Angola, Bosnia-Erzegovina, Cambogia, Cipro, Congo-Darfur, El Salvator, Etiopia-Eritrea, Guatemala, Haiti, India-Pakistan, Iran-Iraq, Kosovo, Kuwait-Iraq, Libano, Egitto-Israele, Mozambico, Namibia, Repubblica democratica del Congo, Sahara occidentale, Siria, Somalia, Sudan, Yemen, Libano, Mali. Sempre l’Italia si è dimostrata disponibile a condividere i pericoli derivanti dal raggiungimento dei fini e degli obiettivi dell’ONU, come la nostra Costituzione repubblicana, all’articolo 11, definisce in modo esemplare per tutti: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”
Il mantenimento della pace, la sicurezza internazionale, la giustizia sono per tutti gli Italiani non una aspirazione ma un preciso impegno costituzionale, per questo motivo, negli anni, siamo diventati il primo tra i paesi occidentali in termini di contributo militare alle operazioni di peacekeeping e il settimo contributore finanziario e, quindi, meritatamente attendiamo che, all’attuarsi della prossima riforma, venga accolta la nostra richiesta di far parte in modo permanente del Consiglio di sicurezza.
La professionalità delle nostre forze armate è ampiamente riconosciuta e richiesta, diventando meritatamente un vanto nazionale. Pertanto gli amministratori e i politici debbono operare affinchè non manchino le risorse materiali alle nostre forze armate che, con il loro sacrificio, impegno, alta professionalità, garantiscono la sicurezza del nostro paese e operano secondo il mandato costituzionale per il mantenimento della sicurezza internazionale.
Il prestigio internazionale che scaturisce dal “buon operare delle nostre armate”, deve essere, come bene insegna Camillo Benso conte di Cavour, trasformato, da altre amministrazioni, più votate alla “diplomazia d’affari”, in ricchezza materiale per il paese.
In un’epoca come quella attuale, dove vediamo aumentare i conflitti e la possibile richiesta di intervento da parte delle nostre forze armate in funzione di peacekeeping, per garantire la sicurezza e la pace, dobbiamo far ricorso a tutta la nostra razionalità e comprendere che la pace è un “patto” che prevede sempre un dare e un avere; è un’amicizia fondata sul principio di reciprocità che non è mai a interesse zero, perché la Ragion di Stato prevale sempre sui rapporti inter-statali. Questa palese verità, che in ogni caso il nostro sentire democratico nega e cerca in ogni modo di occultare, si palesa sempre ogniqualvolta all’ONU (e per esso il Consiglio di sicurezza), che ricerca la composizione pacifica di controversie tra Stati, si impone l’obbligo di far ricorso all’uso della forza.
In questi casi la legittimità e la legalità dell’atto confligge con la scarsa democrazia interna dell’organizzazione. Quindi, i giuristi, per sanare questa evidente e ormai “cronica” contraddizione, pongono mano ad una casistica di eccezioni al divieto di guerra.
La prima eccezione, storicamente, fu legata alle “guerre di liberazione” e all’uscita dal dominio coloniale con il raggiungimento dell’indipendenza di molti Paesi; poi si dovettero giustificare gli interventi militari dell’URSS nei Paesi satelliti e quelli degli USA in Corea e nel Vietnam, di nuovo l’URSS in Afghanistan, gli USA a Grenada ed in Iraq ed altre ancora. Dove  le accuse di illegalità e illegittimità, da più parti invocate, non furono prese in considerazione e nessuna condanna né politica, né giuridica fu emessa per il loro operato. In questo modo i membri permanenti del Consiglio di sicurezza hanno violato il principio cardine dell’ONU ossia: “l’assoluta illegalità della guerra” a favore della loro ragione di Stato.
Altre eccezioni riguardano le guerre civili e l’intervento armato per ragioni umanitarie. In questi casi l’uso della forza, anzi la guerra, perché di ciò si tratta, diviene “legittima, legale, morale” perché si fonda sul preteso consenso universale di una organizzazione, anche se a democrazia apparente. E’un camuffamento che nasconde interessi particolari e ragioni di Stato, che esclude la stragrande maggioranza degli Stati membri dell’ONU, perché le decisioni sono saldamente in mano agli Stati permanenti del Consiglio di sicurezza e alla loro diplomazia.
In attesa di una vera riforma democratica dell’ONU e dei suoi principali organi, non possiamo, in conformità al dettato della nostra Costituzione e per il pieno convincimento del popolo italiano, limitarci nelle partecipazioni alle missioni di pace, ma dobbiamo tornare a tener presente “la nostra ragione di Stato”, come bene affermano i nostri padri costituenti quando scrivono, all’articolo 7, “(…) consente, in condizioni di parità”.
Aggiustamenti e cambiamenti debbono realizzarsi nella nostra sfera politico diplomatica, con un approccio meno idealistico e più concreto nei confronti degli interessi nazionali, quando si presenteranno richieste di una nostra nuova partecipazione a missioni di pace, essendo questo cambiamento, da molto tempo richiesto da tutto il Paese.
Concludo qui il mio intervento, consapevole di aver affrontato superficialmente e sommariamente i tanti temi riguardanti il peacekeeping, ma il tempo è tiranno e quindi in altre occasioni spero di riprendere il discorso interrotto.






Bibliografia e sitografia di riferimento

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A.A. Cassi, Santa giusta umanitaria, Roma, Salerno, 2015
G. Chamayou, Teoria del drone principi filosofici del diritto di uccidere, Roma, Derive Approdi, 2014
E. Chenoweth, M.J. Stephan, Why civil resistance works. The strategic logic of nonviolent conflit, New York, Columbia University Press, 2011
C. Galli, Guerra, Bari, Laterza, 2014
E.Magnani, Il mantenimento della pace dal XIX al XXI secolo, Roma, Rivista marittima, 1998
M.A. Fino, (a cura di), Diritti in Guerra. Atti del Convegno internazionale Bellum Iustum, Aosta, 5-7 Dicembre 2007, Roma, Carocci, 2012
I. Kant, Per la pace perpetua, Milano, Feltrinelli, 1991
G. Pontera, Quale pace?, Milano, Mimesis, 2016
A. Zamperini,  La bestia dentro di noi. Smascherare l’aggressività, Bologna, Il Mulino, 2014
https://www.rapportoannuale.amnesty.it/2014 -2015


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