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venerdì 26 febbraio 2016

Un grande Uomo e un grande Combattente: Pietro Vaienti

DIBATTITI

Riportiamo uno scritto di Pietro Vaenti, combattente partigiano in Albania nei terribili anni del 1943-1945, e cittadino esemplare nella sua Cesena negli anni della Repubblica. Un contrbuto inziale al progeto di ricerca riguardante l'Albania 

Pietro Vaenti

Rivisitazione del lungo percorso

di un povero cristiano

   Nato a Gambettola nel marzo  1916, di mio padre ricordo i rigidi costumi e la fedeltà alla Chiesa, il rifiuto dei repubblicani, delle loro istigazioni a bestemmiare con l’esca dei “cuciarol” quando fanciullo andava a Messa; il rifiuto dei “rossi”,  delle violenze della settimana rossa; ma lo ricordo altrettanto sprezzante nei confronti dei fascisti dai quali per il suo sarcasmo ha preso l’olio di ricino.Di mia madre ricordo la dolcezza e la Messa quotidiana, io ero l’ultimo di cinque fratelli, due femmine e tre maschi, di cui uno sacerdote, Toccante, per me fanciullo, la Notte di Natale quando Monsignor Poloni in processione teneva in braccio “Gesù bambino”. Finite le elementari entro in Seminario, ma , sempre malato lo lascio in 3^ Ginnasio.Nel ’31 lo stupore, ma senza smarrimenti, della soppressione dell’ Azione Cattolica. Nel’inverno del ’32 stesi una protesta da inviare a Mussolini che diedi in visione a mio fratello don Augusto: “Ma che pensi di ottenere?” fu il suo commento, e l’ho stracciata.Nel primo anno della premilitare mi venne offerta la tessera di giovane fascista, che accettai.
Maturano i prodromi della guerra per un’ Abissinia italiana.  “Ma non togliamo la libertà ad un popolo?” poi la prospettiva di portarvi uno sviluppo e, più ancora per un mio bisogno di evadere, a 19 anni sono volontario nel Regio Corpo Truppe Coloniali con la richiesta di andare in Somalia e invece fui inviato a Bengasi. Un corpo di soli volontari, alcuni dalla Francia e dalla Tunisia, ma tutti italiani e nessun fascista, chi acefalo chi apertamente antifascista. Con la guerra di Spagna, una nostra netta separazione senza mortificare la solidarietà del tutti per uno e uno per tutti. Poi, nell’aberrante simbiosi con nuove fedi è sfociato il Patto d’Acciaio e mi chiedevo: “Mussolini, “l’Onnisciente”, non conosce “La mia battaglia” di Adolfo Hitler?  Io impiegato in Comune che ebbi ad esprimere delle perplessità, fui all’istante licenziato.Poi l’inizio di una pazzesca china, l’insulsa occupazione dell’Albania, e tutto precipita. Mussolini, il Duce, con la incontenibile fregola della guerra, il 10 maggio 1940 annuncia ad una piazza plaudente l’aurora di nuove glorie e con il coraggio di Maramaldo colpisce la Francia esausta. Nuovi interrogativi: l’Inghilterra. E venne il 28 ottobre, data sacra alla nuova era e, col bagaglio  di immaginifici ardori, fu progettata una demenziale marcia trionfale di otto giorni per issare su l’Acropoli di Atene il tricolore, e questo segnò il principio di laceranti perdite di beni, di uomini e di un terzo del territorio albanese. La vacuità del nuovo“Marte” aspira a nuove travolgenti vittorie in Russia ed è lo sfascio con tristi presentimenti.E venne il 25 luglio con un Badoglio principe dell’ambiguità con nuove più drammatiche sequele di distruzioni e di lutti. A lui e ai suoi capi di Stato Maggiore delle forze armate i  900.000 prigionieri in 72 ore e l’avvio in Germania e paesi dell’est, di 650.000 uomini.
E comincia una mia parabola. Dopo gli immediati, incerti giorni dell’8 settembre, alle ore 13 del 12 ho lasciato il quartier generale del XXVI Corpo d’Armata a Joannina; alla sera del 13 a Kuliarades, sul Pindo, mi unisco all’E.A.M. una formazione in cui ho colto il sogno di una società comunista. Incessante il dileggio, la denigrazione dell’E.D.E.S. (associazione dei partigiani greci nazionalisti) che io difendevo.  In Grecia due le formazioni partigiane con larga presenza: l’E.A.M. tutto proiettato alla Madre Russia sovietica; l’E.D.E.S. rivolto alla patria, alla nazione, appendice delle truppe dell’esercito greco operante in Egitto i cui loro comandanti indossavano tutti la divisa militare dell’esercito greco.Nell’E.A.M. col comandante del battaglione “Giumerka” si era aperta una sottile intesa e attenzione anche per quanto io esprimevo. Insieme maturammo il proposito di raggiungere una località in cui i tedeschi tenevano prigionieri soldati italiani, ed io col megafono per spronarli ad unirsi a noi. Ma siamo giunti fuori tempo: partiti.
Altra volta mi volle partecipe di un incontro con una delegazione dell’E.D.E.S. Dopo qualche giorno, a sera, frettolosamente lasciammo  Kuliarades  e fuori paese, in una casa isolata, un edessita. venne invitato ad uscire fu subito mitragliato. Ne è seguito un mese di scontri, di agguati, di insidie e, in seguito all’intervento massiccio dell’E.D.E.S. dell’Epiro, fummo braccati. Il “GiumerKa”  frazionato, io mi trovai con Toffetti, il commissario Sotiris e pochi altri  andartes. Ci imbattemmo poi in cinque o sei soldati in abiti civili, senza armi, che smarriti si unirono a noi che come ultimo scampo ripiegammo in Tessaglia inerpicandoci per un canalone con grossi massi. A me era stato  affidato un cavallo con basto, con coperte ed altro ancora. In alto, sopra le due sponde del canalone un’intensa battaglia, e io bloccato per la caduta del cavallo. Uno di quegli ultimi incontrati scende per aiutarmi. Il fuoco più intenso ci sfiora: “scappiamo, scappiamo” mi dice. “Non senza cavallo!” rispondo. Poi, non so come, riesco a rialzarlo e riprendo a salire. Sbocco in un grande spazio nella montagna brulla dove trovo quanti mi avevano preceduto a riposare.
E si riprende a salire, ma sono affaticato, esausto mi accascio. “Voi andate”, dico., “non ho più forze”.
 “Ma noi ti aiutiamo .”
“No!” reagisco, “ormai è sera e non voglio compromettere le vostre possibilità.”
E crollo. Osservo la montagna tutta sasso e appaiono i corvi con voli circolari sempre più stretti e ravvicinati. E’ quasi buio. Dall’alto una voce mi chiama. E’ un soldato della Pinerolo a cui sono stato segnalato. Rivivo! Insieme a lui, con ritrovate energie, raggiungo il vertice. Sull’altro versante scopro tanto verde di boschi con molti fuochi.Avvicino diversi soldati della Pinerolo, tutti senza cappotto o mantella e questo dice della loro precarietà. Per tutti noi italiani …l’incerto. A darmi pulsioni di vita la notizia che, all’indomani, Sotiris , il commissario, ritornerà sul Pindo e penso di potermi affiancare a lui con il proposito di raggiungere Joannina per rimediare qualche indumento. Ma con Sotiris non potevo parlarne. L’ho sempre avvertito ostile, mi ascoltava in un silenzio significativo. Più a valle sapevo che avrei potuto incontrare Arias, un giornalista, un politico di peso nell’ EAM; con Toffetti mi avvio e trovo il  rifugio, ma non Arias, incontro invece un suo collaboratore al quale espongo il mio proposito. Comprende e approva. Chiedo un biglietto da presentare Sotiris. “Fra poco sarà da me a rapporto e ne parlo.” conclude. 
Nella notte non ritrovo il sentiero giusto per raggiungere la mia tenda, e con Toffetti, attendo il giorno.  Al mattino, smarriti, riprendiamo a salire e, a sorpresa, mi vedo i fucili spianati e Sotiris che mi guarda duro. Accenno all’incontro con il vice di Arias e al mio proposito di raggiungere  Joannina. Sotiris non nega. “Na pas o Theos” (Te ne vai a Dio) aggiunge beffardo. Una condanna; nessuno di quegli “andartes “ mi rivolge più una parola. Sempre controllato, avvertivo che sarei stato fatto fuori.       “Cosa aspetta?” mi chiedevo, “Vuole farne uno spettacolo?”
Alla sera seguente, 1° novembre, ci rifugiamo in una casa abbandonata ed io me ne sto rattrappito per il freddo in un angolo. A sorpresa arriva il comandante del GiumerKa accompagnato da un andartes che sempre si era dimostrato amico e scorgendomi si avvicina lieto di incontrarmi. Espongo la mia situazione, ne resta colpito e raggiunge, in un’altra stanza, il comandante. Dopo oltre mezz’ora compare e mi dice: “Domani sei libero”.Sono certo di dovere la mia salvezza al comandante che, circa dieci anni or sono, appresi essere ancora in vita ad Atene. Il terzo giorno approdo a Joannina, in via Alessandro Palì, da Irò Xeno, la ragazza di Ancillotti, alla quale, allora, avevo portato tutto quanto potei di mio e di Ancillotti che era fuori sede dal momento dell’armistizio. La mamma mi guarda stupita con occhi sbarrati: “Jermanj fotia spiti!” (i tedeschi dan fuoco alla casa!) dice allarmata. “Me ne vado subito, ho bisogno di qualche indumento.” rispondo. Noto la mia pelliccia scucita e stesa a terra che riprendo. Nella breve sosta mi viene offerta una mela cotogna e me ne scappo in direzione di ponente. Da subito mi aggrego all’EDES  dove incontro cordialità e libertà: “Puoi restare… puoi andare…”  I temi sociali non erano dibattuti, la discussione di essi rimandata, c’era solo un continuo e costante richiamo alla Patria.   Ho incontrato diversi commilitoni del quartier generale di Joannina, sganciati dall’ EDES che avevano preso parte nel Pindo contro l’EAM.  Ho poi raccolto la voce che dalle sponde dell’ Albania era possibile un mio ritorno in Patria.
Chiedo il distacco dall’EDES  e, con perigliosi percorsi sul confine, raggiungo l’agognata costa col sogno di un’imbarcazione per raggiungere l’Italia. Ed ebbi conferma che, sì, nell’immediato dopo 8 settembre era partita qualche barca per l’Italia.  Che fare?  Un nuovo peregrinare. A Theologo, svettante la bandiera rossa, ho sostato. Nella notte, guardingo, mi sono avvicinato ad un capitano di artiglieria, albanese, cattolico, già occasionalmente incontrato qualche giorno innanzi. Dopo comuni interrogativi sul comunismo lo interpello su un mio possibile rientro attraverso la Serbia. “Impossibile”,  mi dice, “vieni con me a Scutari e tornerai in Italia a guerra finita.”  Dopo qualche tempo (a febbraio?) lo rivedo per la costituzione di un battaglione di “partisan”.  Sorpreso mi dice:  “Tu?... Non dir niente di quella notte.”
Nell’incerto mio vagare con soste tese a reintegrarmi e occasionali  lavoretti, giungo  a Pandalejmon con l’offerta di lavoro presso una famiglia di cui conservo un buon ricordo. Dall’8 settembre per la prima volta mi sono potuto lavare tutto. Era dicembre!  Dopo circa dieci giorni è avvenuto che, sceso dalla montagna, sono stato comandato a prendere acqua alla fonte con cavallo e botticelle. Un servizio che mi ha frastornato, mortificato, con la percezione di essere un servo. Questo no! Ritornato, ho salutato e sono approdato  alle Roje Partisan (polizia partigiana). Ho detto del mio bisogno di pensare per il mio immediato e ho chiesto se potevo trattenermi per qualche giorno. Ho incontrato cordiale accoglienza e sono rimasto.
 Anche in Albania la resistenza era divisa in due formazioni. La CETTA, di indirizzo politico con crescente forte prevalenza della ideologia marxista e i Ballicontar, nazionalisti, che  lottavano per una libera Albania. I tedeschi, accorti, hanno concesso ampia libertà operativa ai Ballicontar, che da subito hanno occupato, presenti i tedeschi, ogni centro, ma si sono isolati dal tessuto della nazione. Mai uniti nelle azioni di rastrellamento promosse dai tedeschi, ma nel vuoto che si creava, i Ballisti ne approfittavano per le loro uscite. Un pateracchio, un compromesso che ha segnato la loro perdita. Le Roje segnavano la presenza politica della CETTA, di una vasta area con funzioni di osservatori e di corrieri come collegamento per notizie e indirizzi. Le Roje non svolgevano dirette azioni di guerra, ma di tanto in tanto si univano a qualche battaglione e sempre con residenti del villaggio. Per me una situazione nuova che non ha portato alle perplessità incontrate da “andartes” in Grecia.
Sino al luglio del ’44 senza rompere il rapporto con le Roje, ho fatto parte del battaglione “Thoma Lullo” dove ho incontrato altri italiani, che poi ritroverò nel Matteotti. Unico italiano nei battaglioni Pandaliboceri, Eleftertallo e Tanasigo.In quest’ultimo, ho trovato un rispetto solo formale. Il commissario, di buona cultura, evidentemente informato delle mie proiezioni, in continuo peana sul marxismo, due o tre volte è uscito con espressioni che ho ritenuto rivolte a me. E’ stata una esperienza breve di 15-20 giorni nel settembre del ’44.
 Lasciato il “ Tanasigo”,  che si richiamava alla figura del partigiano ortodosso da cui prese il nome,  un giorno volli raggiungere il  villaggio, dove aveva vissuto, per capire se l’ardore di quel commissario aveva la sua radice in quello sperduto borgo. A Theologo, sede di un tribunale partigiano, ero un cane sciolto con le mie libere uscite.  In Albania ho sempre incontrato fiducia e stima. Mai ho messo la stella rossa: un partisan fuori schema. Sempre è stata rispettata la mia identità di italiano , di cristiano e di non comunista. Anche dalla popolazione, nella sua diversità mussulmana e ortodossa, ho ricevuto in ogni momento attenzione, cortesia, assistenza. Rammento  una notte in cammino per una certa operazione bellica, colto da una forte febbre, fui bloccato in una casa e una giovane donna, cristiana, per lunga parte della notte mi ha massaggiato la schiena e il petto.
Nel dicembre del ’44 ero ad Argirocastro, da un mese in piena euforia per la conquistata liberta, ed avvertivo i segni di un comunismo rampante da me previsto ed una domanda mi pungeva: “A quando il ritorno?” Molti erano gli interrogativi. Presi una decisione: scappare a Corfù, già in mano agli alleati. E ho iniziato un lungo, tortuoso cammino con bisaccia, fucile e, poiché molto debole, il bastone. Il mio obiettivo: una barca, un approdo. In questo mio solitario andare mi trovo bloccato per qualche giorno dalla piena di un fiume che dovevo attraversare. Una mattina, dietro l’abside di una chiesa colgo una voce alle mie spalle: ”De ne chi varca morè, de ne chi!” (Non c’è la barca, non c’è!) E chi ha dato quell’avvertimento si allontana. Poi vengo invitato in casa da chi parlava italiano che mi dice: “Non possiamo scappare noi… come puoi tu che non conosci i posti?”
E mi avvio per un’altra direzione: dovevo superare il confine! Nel perseguire nuovi percorsi apprendo che a Morsì, presso il confine, comandava la stazione un amico, già vice brigadiere dei carabinieri albanesi. Mi riceve il suo vice, un greco, il quale mi pone tante domande insinuanti e imbarazzanti ed io sto attento per non tradirmi. Sapeva! E dice: “Quando torna il comandante esco in pattuglia e se potrò individuare un passaggio per la tua fuga ne sarò lieto. E arriva l’atteso comandante. Ci abbracciamo e nel conversare mi dice che a Konispoli, un villaggio di rilievo al confine con la Cianuria, vi era commissario Ulvi Lulo. Determinato mi affretto per Konispoli e appena arrivo l’incontro. Ulvi Lulo, di famiglia di alto prestigio, era venuto ad incontrarmi per conoscermi nel marzo del ’44 a Pandalejmon. Per giustificare la mia andata dico: “Sono in convalescenza e vado a ‘peripato’ ”, e Lulo: “Ma sta con me, sta con me al comando. E mi presenta alla compagnia: “Partisan Petri, partisan shum mir! (Parigiano Pietro, partigiano eccellente!)”. Mi applaudono e Lulo mi consegna le chiavi del magazzino e dell’armeria: “sei tu!”Confuso, ho accettato. Il confine, alla mia destra, era a qualche centinaio di metri e ho avvertito di essermi messo in un budello senza uscita. Io non potevo tradire la fiducia! Poi, da Lulo, la notizia dell’agognato rimpatrio con la Gramsci. E inizio un nuovo percorso con lunghe soste.
La consistenza di noi partigiani italiani però non è più quella. Con la fine dell’occupazione una grande quantità di noi, per le precarie quotidiane condizioni, ha lasciato il proprio battaglione per assumere una nuova attività.  I rimasti furono  avviati al Battaglione “Gramsci”,  divenuto, per il continuo afflusso, Brigata e poi Divisione. Mi presento; sorpresa. “Complimenti”  mi dicono, “abbiamo appena fatto un organigramma con quanti hanno avuto un particolare ruolo…” Interrompo: “Non vi preoccupate, a me interessa andare in Italia”. E ho trovato tutta la Divisione vestita a nuovo con divise inglesi mentre io con qualche altro indosso gli stracci che testimoniavano la povertà di noi italiani, stracci che ancora conservo. E da Durazzo, il 30 maggio 1945, in 2.500 armati, siamo sbarcati a Taranto e ricevuti con distacco come prezzolati senza onore.
Noi in terra straniera mai abbiamo abdicato all’onore e alla bandiera: siamo rimasti sempre Soldati, e da Soldati ci attendevamo di essere accolti con fanfara e bandiere. Che delusione! Mortificati e offesi.Nel porto troviamo un colonnello, da cui ci attendevamo un saluto e una delegazione dell’ U.D.I. che distribuisce a tutti 3 fichi secchi e un giornale che auspica un “passaggio” di Trieste a Tito.
Col ritorno in Patria si era interrotto ogni rapporto con l’ Albania.
 Nel 1978 vi sono tornato con l’associazione Italia-Albania. Grande l’attesa dei 28 partecipanti fra cui tre ex partisan di quel tempestoso passato. E ho ritrovato immagini, costumi, atteggiamenti conosciuti che riflettevano  il tipico orgoglio schipetaro, ma oltre la cortesia ben nota, una generale chiusura sul passato. Avviene che un mio interpellato mi corregge un nome. “Ma allora tu sai?” gli dico, ma si è chiuso nel silenzio.
Ovunque, anche sui campanili, la stella rossa. Ogni luogo di culto chiuso o demolito. In Albania, con maggioranza mussulmana, mai ho avvertito avversione ai cristiani, sia ortodossi sia cattolici. Nei villaggi l’appartenenza è ad una sola fede, nelle città le varie confessioni sono separate in quartieri. A Berat, un centro caratteristico, con significative presenze di un passato bizantino, una lieta sorpresa: una grande stele con stella rossa dedicata ai “partisan” italiani. Freddezza nei confronti di Tito e della Russia sovietica, il loro riferimento era la Cina. Nelle strade appaiono frequenti postazioni per arginare eventuali invasioni dalla Jugoslavia. A sorpresa, una sera, si presenta un giovane che chiede se nel gruppo c’è Petri. Non potevo conoscerlo. La presenza di italiani aveva richiamato la memoria di Petri, dopo 32 anni!  Mi ha fatto domande, di tutto ha preso nota con la prospettiva di qualche incontro che, prossimi al ritorno, non c’è stato.
Un altro mio ritorno avviene nel 1984 con un significativo gruppo di ex “partisan” anche di rilievo come Enzo Neri e Antonio Dore. Anche in quella occasione mi capitava di esprimermi liberamente sulle condizioni che incontravo. Succede che una sera, mentre attendo di telefonare a casa, Valerio Restante, della polizia italiana, mi dice: “Cesena, ti offendi se ti diciamo qualcosa? Vuoi fare l’anticomunista anche qui? Vuoi metterci tutti nei guai?” Dore, preside a Sassari, di fronte ad espressioni così dure è intervenuto: “Vaenti ha motivazioni, riferimenti radicati e fa osservazioni e domande alle quali non sono preparati e non sanno rispondere”.  Toccato ho detto “Non parlerò più”. All’indomani si riprende il nostro andare e come sempre si aprono interrogazioni, osservazioni e commenti.  Il gruppo è guidato dall’ingegner Albert Hauxhri che, sorpreso dal mio silenzio mi dice “Perché non parli?”   Nel 1988 ritorno con Pier Francesco Delle Sedie, docente in malattie polmonari, già altra volta in Albania per lezioni all’Università di Tirana e Mario Fantacci già in Albania per il rimpatrio delle salme di nostri commilitoni. All’arrivo un inviato del Comitato Nazionale ci accoglie e se ne esce con un riferimento alla mia persona: “Abbiamo telefonato al nostro Presidente per informarlo dell’arrivo di Vaenti. Lui ci ha detto: “mandatemi una macchina.”
Al Taiti abbiamo un primo incontro con Miqerem Fuga (segretario generale dei Veterani) e con Piro Koci, partecipe, a Cesena, al Convegno Internazionale di Studio su la Resistenza Italiana all’Estero nel 1986, membro della Sezione Esteri del Comitato Nazionale. Nel pomeriggio da Pogradec ci raggiunge anche Ulvi Lulo, Presidente della Sezione Esteri del Comitato Nazionale.
All’indomani il caldo incontro con Kico Kasapi (capo sezione propaganda del Comitato Nazionale), con Ajet Simixhiu (storico), con Bilal Parruca (vice presidente del Comitato Nazionale), con Patrì Kosturi (giornalista), ed altri,  dovuto anche alla partecipazione al Convegno di Studio tenuto a Cesena nel 1986, ma forse anche alla scomparsa di Enver Hoxha. Ho avvertito un nuovo clima, con colloqui più aperti, che la vicenda dei fratelli Popa, rifugiati politici nella nostra ambasciata, ha favorito. Un afflato di sentimenti, una circolarità di intuizioni e di idee che non potevano passare inosservate, e una mattina a Durazzo, ci raggiunge Shefqet Peci, Presidente dei Veterani, e Vice Presidente della Repubblica, per frenare un percorso aperto a nuove prospettive. Raccolti in una saletta. Inizia a parlare facendo dell’ironia e della derisione su suo padre che credeva in Allah, poi prosegue con un attacco alla Chiesa Cattolica e al Papa. I tre albanesi che ci seguono osservano costernati e,  con un gesto a tranquillizzarli, rispondo vivacemente e ribadisco la mia radice cristiana. Ritornato in Italia gli ho scritto.
Dopo qualche giorno, nella cena di saluto per il nostro rientro, a Ulvi Lulo viene  riportato l’incontro con Peci.  E Lulo: ”Ma Vaenti reagisce sempre! ”  e riferisce una mia vicenda del lontano marzo del ’44 che mi vide protagonista. L’intervento di Peci, teso a stroncare possibili devianze,  ha tuttavia provocato uno scontro all’interno del direttivo e,  come segno di apertura alle diversità e con richiamo a Vaenti, furono liberati dal carcere quattro preti. “L’ Avvenire” ne ha data notizia il 1° marzo del 1989. Nel 1990 le tensioni esplodono. Un centinaio e oltre di albanesi, invade la nostra ambasciata. E’ il crollo di un regime e quanti ne sono più o meno coinvolti sono braccati, cercati per ritorsioni e vendette. Tanti lasciano l’Albania. Il governo italiano interviene, per attenuare la tragica emergenza, con una specifica struttura: “il Pellicano” e io invio ad amici aiuti alimentari.
Nel 2002, per uscire da uno stato di continua emarginazione e frustrazione, fu programmata una pubblica uscita e sono stato invitato per un ritorno in Albania. Un invito che non potevo rifiutare e, anche per un sostegno a mie difficoltà, mi ha accompagnato Leo Matteucci, presidente provinciale dell’ANPI di Forlì.  
In una grande sala, ornata da bandiere italiane e albanesi, sono atteso da un generale italiano. Sotto al palco noto Qamil Buxeli (già presidente della gioventù comunista, caduto in disgrazia) e Taip, Taip Musaj (maggiore dell’artiglieria) sempre amico, premuroso, ricco di suggerimenti e avvertenze per le mie uscite,  che non vedevo dal 1944 quando, il 12 luglio, lasciai le Roy per raggiungere il Matteotti a Navarizza. Per tutti sono un amico, il Petri a cui tutto era consentito e che ora, con me, si sentono rinati. Sono commosso e, con un richiamo al comune passato, rivolgo a loro il mio saluto e il mio abbraccio.
Poi viene data lettura della relazione su quel comune vissuto, tradotta nella notte. Finita la cerimonia tutti si avvicinano, chi per abbracciarmi, chi per una stretta di mano. Molti gli inviti nelle loro case che non posso rifiutare. E’ un’apoteosi.  Il generale, Bako Dervshi,, testimone dell’eccidio degli ufficiali della divisione Perugia, mi parla di quella vicenda. Nel novembre del 2003, con la partecipazione delle forze armate italiane e albanesi e di un ministro del governo italiano, viene scoperto a Saranda un cippo alla loro memoria da me promosso.
Perché ora?
Più volte sono stato sollecitato, e di recente da due amici, a stendere una memoria su quel mio lontano passato sul quale avevo lasciato solo qualche sprazzo.Senza determinazione, con mano incerta e tremante, ho steso una traccia del mio essere “andartes” in Grecia e “partisan” in Albania.
I sopravvissuti di tempi di fede e di lotta sono sconcertati, smarriti allo specchio di una società vuota di principi, delirante, egoista.
Come e perché questa caduta?
Siamo rimasti sedotti, abbagliati da un clown che ha portato in parlamento una declamata pornostar, che ha inneggiato alla droga e l’ha lanciata nelle strade di Roma, che ha promosso referendum contro i sindacati, che irride ai bisogni, che ha elevato l’egoismo a valore? Nel mio inconscio, sono affascinato da quanti per loro credenza hanno dato la vita e, se anche miei avversari sul piano politico o di fede, li abbraccio e li amo. A destra si è costituita una anomala convergenza di uomini di fedi e di orientamenti più  diversi e anche di forte contrasto, solidali con un Super dai molti volti, associato alla P2 regina di ogni intruglio. Quali i principi di quell’agglomerato?
Apice del trasformismo degenere la Boniver, alfiere di un femminismo amorale, e tutti, in un supino trangugiare, hanno accettato i  “ valori irrinunciabili” del cristiano come foglie di fico per coprire ogni vergogna.
Il Giano dai mille volti e sfaccettature emana leggi a sua copertura e altre a facilitare intrugli: specifica quella che annulla il dolo nel falso di bilancio!
Non è una svendita delle coscienze? Qualche magistrato ha sollevato il problema ma tutto è stato bloccato dall’imperio del male. E nel governo del “cattolico adulto” a minare la sacralità della famiglia, avvertita in ogni età e cultura come fondamento della società, un suo ministro per la famiglia  accoglie le istigazioni di un clown che vuole azzerarla, vate di ogni licenza ed egoismi.
Rivoltante!
E i cristiani di quel governo inconsapevoli?
L’uomo non può essere senza principi, non sarebbe più persona.
Ho nostalgia dei tempi burrascosi di Togliatti e di Berlinguer con le sue inquietudini.
Quali le pulsioni del NO al Papa per una sua visita alla Sapienza, della petulante richiesta di un suo silenzio?  E la Margherita Hack: “buttate una bomba sul Vaticano! Una canea da cui solo la Binetti si è apertamente dissociata! E per quanti, cristiani o di altra fede, con un’etica e una coscienza, grande è lo sconcerto.  E’ disgustoso! I nostri sogni e aspettative? Un fallimento. Che tristezza! Queste le amarezze di un troglodita tetragono nei confronti delle svendite e trasformismi, sempre piccolo, ma con una sua identità.

A Cesena, 8 settembre 2011

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