DIBATTITI
Riportiamo uno scritto di Pietro Vaenti, combattente partigiano in Albania nei terribili anni del 1943-1945, e cittadino esemplare nella sua Cesena negli anni della Repubblica. Un contrbuto inziale al progeto di ricerca riguardante l'Albania
Pietro Vaenti
Rivisitazione
del lungo percorso
di
un povero cristiano
Nato
a Gambettola nel marzo 1916, di mio
padre ricordo i rigidi costumi e la fedeltà alla Chiesa, il rifiuto dei
repubblicani, delle loro istigazioni a bestemmiare con l’esca dei “cuciarol”
quando fanciullo andava a Messa; il rifiuto dei “rossi”, delle violenze della settimana rossa; ma lo
ricordo altrettanto sprezzante nei confronti dei fascisti dai quali per il suo
sarcasmo ha preso l’olio di ricino.Di mia madre ricordo la dolcezza e la Messa quotidiana, io ero
l’ultimo di cinque fratelli, due femmine e tre maschi, di cui uno sacerdote, Toccante,
per me fanciullo, la Notte
di Natale quando Monsignor Poloni in processione teneva in braccio “Gesù bambino”.
Finite le elementari entro in Seminario, ma , sempre malato lo lascio in 3^
Ginnasio.Nel ’31 lo stupore, ma senza smarrimenti, della soppressione dell’
Azione Cattolica. Nel’inverno del ’32 stesi una protesta da inviare a Mussolini
che diedi in visione a mio fratello don Augusto: “Ma che pensi di ottenere?” fu
il suo commento, e l’ho stracciata.Nel primo anno della premilitare mi venne
offerta la tessera di giovane fascista, che accettai.
Maturano
i prodromi della guerra per un’ Abissinia italiana. “Ma non togliamo la libertà ad un popolo?” poi
la prospettiva di portarvi uno sviluppo e, più ancora per un mio bisogno di
evadere, a 19 anni sono volontario nel Regio Corpo Truppe Coloniali con la
richiesta di andare in Somalia e invece fui inviato a Bengasi. Un corpo di soli
volontari, alcuni dalla Francia e dalla Tunisia, ma tutti italiani e nessun
fascista, chi acefalo chi apertamente antifascista. Con la guerra di Spagna,
una nostra netta separazione senza mortificare la solidarietà del tutti per uno
e uno per tutti. Poi, nell’aberrante simbiosi con nuove fedi è sfociato il
Patto d’Acciaio e mi chiedevo: “Mussolini, “l’Onnisciente”, non conosce “La mia
battaglia” di Adolfo Hitler? Io
impiegato in Comune che ebbi ad esprimere delle perplessità, fui all’istante
licenziato.Poi l’inizio di una pazzesca china, l’insulsa occupazione
dell’Albania, e tutto precipita. Mussolini, il Duce, con la incontenibile
fregola della guerra, il 10 maggio 1940 annuncia ad una piazza plaudente
l’aurora di nuove glorie e con il coraggio di Maramaldo colpisce la Francia esausta. Nuovi
interrogativi: l’Inghilterra. E venne il 28 ottobre, data sacra alla nuova era e,
col bagaglio di immaginifici ardori, fu
progettata una demenziale marcia trionfale di otto giorni per issare su l’Acropoli
di Atene il tricolore, e questo segnò il principio di laceranti perdite di
beni, di uomini e di un terzo del territorio albanese. La vacuità del
nuovo“Marte” aspira a nuove travolgenti vittorie in Russia ed è lo sfascio con
tristi presentimenti.E venne il 25 luglio con un Badoglio principe
dell’ambiguità con nuove più drammatiche sequele di distruzioni e di lutti. A
lui e ai suoi capi di Stato Maggiore delle forze armate i 900.000 prigionieri in 72 ore e l’avvio in
Germania e paesi dell’est, di 650.000 uomini.
E
comincia una mia parabola. Dopo gli immediati, incerti giorni dell’8 settembre,
alle ore 13 del 12 ho lasciato il quartier generale del XXVI Corpo d’Armata a
Joannina; alla sera del 13 a
Kuliarades, sul Pindo, mi unisco all’E.A.M. una formazione in cui ho colto il
sogno di una società comunista. Incessante il dileggio, la denigrazione
dell’E.D.E.S. (associazione dei partigiani greci nazionalisti) che io difendevo. In Grecia due le formazioni partigiane con
larga presenza: l’E.A.M. tutto proiettato alla Madre Russia sovietica;
l’E.D.E.S. rivolto alla patria, alla nazione, appendice delle truppe dell’esercito
greco operante in Egitto i cui loro comandanti indossavano tutti la divisa
militare dell’esercito greco.Nell’E.A.M. col comandante del battaglione “Giumerka”
si era aperta una sottile intesa e attenzione anche per quanto io esprimevo.
Insieme maturammo il proposito di raggiungere una località in cui i tedeschi
tenevano prigionieri soldati italiani, ed io col megafono per spronarli ad unirsi
a noi. Ma siamo giunti fuori tempo: partiti.
Altra
volta mi volle partecipe di un incontro con una delegazione dell’E.D.E.S. Dopo
qualche giorno, a sera, frettolosamente lasciammo Kuliarades e fuori paese, in una casa isolata, un edessita.
venne invitato ad uscire fu subito mitragliato. Ne è seguito un mese di scontri,
di agguati, di insidie e, in seguito all’intervento massiccio dell’E.D.E.S.
dell’Epiro, fummo braccati. Il “GiumerKa”
frazionato, io mi trovai con Toffetti, il commissario Sotiris e pochi
altri andartes. Ci imbattemmo poi in
cinque o sei soldati in abiti civili, senza armi, che smarriti si unirono a noi
che come ultimo scampo ripiegammo in Tessaglia inerpicandoci per un canalone
con grossi massi. A me era stato
affidato un cavallo con basto, con coperte ed altro ancora. In alto,
sopra le due sponde del canalone un’intensa battaglia, e io bloccato per la
caduta del cavallo. Uno di quegli ultimi incontrati scende per aiutarmi. Il
fuoco più intenso ci sfiora: “scappiamo, scappiamo” mi dice. “Non senza
cavallo!” rispondo. Poi, non so come, riesco a rialzarlo e riprendo a salire.
Sbocco in un grande spazio nella montagna brulla dove trovo quanti mi avevano
preceduto a riposare.
E
si riprende a salire, ma sono affaticato, esausto mi accascio. “Voi andate”,
dico., “non ho più forze”.
“Ma noi ti aiutiamo .”
“No!”
reagisco, “ormai è sera e non voglio compromettere le vostre possibilità.”
E
crollo. Osservo la montagna tutta sasso e appaiono i corvi con voli circolari
sempre più stretti e ravvicinati. E’ quasi buio. Dall’alto una voce mi chiama.
E’ un soldato della Pinerolo a cui sono stato segnalato. Rivivo! Insieme a lui,
con ritrovate energie, raggiungo il vertice. Sull’altro versante scopro tanto
verde di boschi con molti fuochi.Avvicino diversi soldati della Pinerolo, tutti
senza cappotto o mantella e questo dice della loro precarietà. Per tutti noi
italiani …l’incerto. A darmi pulsioni di vita la notizia che, all’indomani,
Sotiris , il commissario, ritornerà sul Pindo e penso di potermi affiancare a
lui con il proposito di raggiungere Joannina per rimediare qualche indumento.
Ma con Sotiris non potevo parlarne. L’ho sempre avvertito ostile, mi ascoltava
in un silenzio significativo. Più a valle sapevo che avrei potuto incontrare
Arias, un giornalista, un politico di peso nell’ EAM; con Toffetti mi avvio e
trovo il rifugio, ma non Arias, incontro
invece un suo collaboratore al quale espongo il mio proposito. Comprende e approva.
Chiedo un biglietto da presentare Sotiris. “Fra poco sarà da me a rapporto e ne
parlo.” conclude.
Nella
notte non ritrovo il sentiero giusto per raggiungere la mia tenda, e con
Toffetti, attendo il giorno. Al mattino,
smarriti, riprendiamo a salire e, a sorpresa, mi vedo i fucili spianati e
Sotiris che mi guarda duro. Accenno all’incontro con il vice di Arias e al mio
proposito di raggiungere Joannina.
Sotiris non nega. “Na pas o Theos” (Te ne vai a Dio) aggiunge beffardo. Una
condanna; nessuno di quegli “andartes “ mi rivolge più una parola. Sempre
controllato, avvertivo che sarei stato fatto fuori. “Cosa aspetta?” mi chiedevo, “Vuole
farne uno spettacolo?”
Alla
sera seguente, 1° novembre, ci rifugiamo in una casa abbandonata ed io me ne
sto rattrappito per il freddo in un angolo. A sorpresa arriva il comandante del
GiumerKa accompagnato da un andartes che sempre si era dimostrato amico e
scorgendomi si avvicina lieto di incontrarmi. Espongo la mia situazione, ne
resta colpito e raggiunge, in un’altra stanza, il comandante. Dopo oltre
mezz’ora compare e mi dice: “Domani sei libero”.Sono certo di dovere la mia
salvezza al comandante che, circa dieci anni or sono, appresi essere ancora in
vita ad Atene. Il terzo giorno approdo a Joannina, in via Alessandro Palì, da
Irò Xeno, la ragazza di Ancillotti, alla quale, allora, avevo portato tutto
quanto potei di mio e di Ancillotti che era fuori sede dal momento
dell’armistizio. La mamma mi guarda stupita con occhi sbarrati: “Jermanj fotia
spiti!” (i tedeschi dan fuoco alla casa!) dice allarmata. “Me ne vado subito,
ho bisogno di qualche indumento.” rispondo. Noto la mia pelliccia scucita e
stesa a terra che riprendo. Nella breve sosta mi viene offerta una mela cotogna
e me ne scappo in direzione di ponente. Da subito mi aggrego all’EDES dove incontro cordialità e libertà: “Puoi
restare… puoi andare…” I temi sociali
non erano dibattuti, la discussione di essi rimandata, c’era solo un continuo e
costante richiamo alla Patria. Ho
incontrato diversi commilitoni del quartier generale di Joannina, sganciati dall’
EDES che avevano preso parte nel Pindo contro l’EAM. Ho poi raccolto la voce che dalle sponde dell’
Albania era possibile un mio ritorno in Patria.
Chiedo
il distacco dall’EDES e, con perigliosi
percorsi sul confine, raggiungo l’agognata costa col sogno di un’imbarcazione
per raggiungere l’Italia. Ed ebbi conferma che, sì, nell’immediato dopo 8
settembre era partita qualche barca per l’Italia. Che fare?
Un nuovo peregrinare. A Theologo, svettante la bandiera rossa, ho
sostato. Nella notte, guardingo, mi sono avvicinato ad un capitano di
artiglieria, albanese, cattolico, già occasionalmente incontrato qualche giorno
innanzi. Dopo comuni interrogativi sul comunismo lo interpello su un mio
possibile rientro attraverso la
Serbia. “Impossibile”,
mi dice, “vieni con me a Scutari e tornerai in Italia a guerra finita.” Dopo qualche tempo (a febbraio?) lo rivedo per
la costituzione di un battaglione di “partisan”. Sorpreso mi dice: “Tu?... Non dir niente di quella notte.”
Nell’incerto
mio vagare con soste tese a reintegrarmi e occasionali lavoretti, giungo a Pandalejmon con l’offerta di lavoro presso
una famiglia di cui conservo un buon ricordo. Dall’8 settembre per la prima
volta mi sono potuto lavare tutto. Era dicembre! Dopo circa dieci giorni è avvenuto che, sceso
dalla montagna, sono stato comandato a prendere acqua alla fonte con cavallo e
botticelle. Un servizio che mi ha frastornato, mortificato, con la percezione
di essere un servo. Questo no! Ritornato, ho salutato e sono approdato alle Roje Partisan (polizia partigiana). Ho
detto del mio bisogno di pensare per il mio immediato e ho chiesto se potevo
trattenermi per qualche giorno. Ho incontrato cordiale accoglienza e sono
rimasto.
Anche in Albania la resistenza era divisa in
due formazioni. La CETTA ,
di indirizzo politico con crescente forte prevalenza della ideologia marxista e
i Ballicontar, nazionalisti, che
lottavano per una libera Albania. I tedeschi, accorti, hanno concesso
ampia libertà operativa ai Ballicontar, che da subito hanno occupato, presenti
i tedeschi, ogni centro, ma si sono isolati dal tessuto della nazione. Mai
uniti nelle azioni di rastrellamento promosse dai tedeschi, ma nel vuoto che si
creava, i Ballisti ne approfittavano per le loro uscite. Un pateracchio, un
compromesso che ha segnato la loro perdita. Le Roje segnavano la presenza
politica della CETTA, di una vasta area con funzioni di osservatori e di
corrieri come collegamento per notizie e indirizzi. Le Roje non svolgevano
dirette azioni di guerra, ma di tanto in tanto si univano a qualche battaglione
e sempre con residenti del villaggio. Per me una situazione nuova che non ha
portato alle perplessità incontrate da “andartes” in Grecia.
Sino
al luglio del ’44 senza rompere il rapporto con le Roje, ho fatto parte del
battaglione “Thoma Lullo” dove ho incontrato altri italiani, che poi ritroverò
nel Matteotti. Unico italiano nei battaglioni Pandaliboceri, Eleftertallo e
Tanasigo.In quest’ultimo, ho trovato un rispetto solo formale. Il commissario, di
buona cultura, evidentemente informato delle mie proiezioni, in continuo peana
sul marxismo, due o tre volte è uscito con espressioni che ho ritenuto rivolte
a me. E’ stata una esperienza breve di 15-20 giorni nel settembre del ’44.
Lasciato il “ Tanasigo”, che si richiamava alla figura del partigiano
ortodosso da cui prese il nome, un
giorno volli raggiungere il villaggio,
dove aveva vissuto, per capire se l’ardore di quel commissario aveva la sua
radice in quello sperduto borgo. A Theologo, sede di un tribunale partigiano,
ero un cane sciolto con le mie libere uscite. In Albania ho sempre incontrato fiducia e stima.
Mai ho messo la stella rossa: un partisan fuori schema. Sempre è stata rispettata
la mia identità di italiano , di cristiano e di non comunista. Anche dalla
popolazione, nella sua diversità mussulmana e ortodossa, ho ricevuto in ogni
momento attenzione, cortesia, assistenza. Rammento una notte in cammino per una certa operazione
bellica, colto da una forte febbre, fui bloccato in una casa e una giovane
donna, cristiana, per lunga parte della notte mi ha massaggiato la schiena e il
petto.
Nel
dicembre del ’44 ero ad Argirocastro, da un mese in piena euforia per la
conquistata liberta, ed avvertivo i segni di un comunismo rampante da me
previsto ed una domanda mi pungeva: “A quando il ritorno?” Molti erano gli
interrogativi. Presi una decisione: scappare a Corfù, già in mano agli alleati.
E ho iniziato un lungo, tortuoso cammino con bisaccia, fucile e, poiché molto
debole, il bastone. Il mio obiettivo: una barca, un approdo. In questo mio
solitario andare mi trovo bloccato per qualche giorno dalla piena di un fiume
che dovevo attraversare. Una mattina, dietro l’abside di una chiesa colgo una
voce alle mie spalle: ”De ne chi varca morè, de ne chi!” (Non c’è la barca, non
c’è!) E chi ha dato quell’avvertimento si allontana. Poi vengo invitato in casa
da chi parlava italiano che mi dice: “Non possiamo scappare noi… come puoi tu
che non conosci i posti?”
E
mi avvio per un’altra direzione: dovevo superare il confine! Nel perseguire
nuovi percorsi apprendo che a Morsì, presso il confine, comandava la stazione
un amico, già vice brigadiere dei carabinieri albanesi. Mi riceve il suo vice,
un greco, il quale mi pone tante domande insinuanti e imbarazzanti ed io sto
attento per non tradirmi. Sapeva! E dice: “Quando torna il comandante esco in
pattuglia e se potrò individuare un passaggio per la tua fuga ne sarò lieto. E
arriva l’atteso comandante. Ci abbracciamo e nel conversare mi dice che a
Konispoli, un villaggio di rilievo al confine con la Cianuria , vi era
commissario Ulvi Lulo. Determinato mi affretto per Konispoli e appena arrivo l’incontro.
Ulvi Lulo, di famiglia di alto prestigio, era venuto ad incontrarmi per
conoscermi nel marzo del ’44 a Pandalejmon. Per giustificare la mia andata dico:
“Sono in convalescenza e vado a ‘peripato’ ”, e Lulo: “Ma sta con me, sta con
me al comando. E mi presenta alla compagnia: “Partisan Petri, partisan shum mir!
(Parigiano Pietro, partigiano eccellente!)”. Mi applaudono e Lulo mi consegna
le chiavi del magazzino e dell’armeria: “sei tu!”Confuso, ho accettato. Il
confine, alla mia destra, era a qualche centinaio di metri e ho avvertito di
essermi messo in un budello senza uscita. Io non potevo tradire la fiducia!
Poi, da Lulo, la notizia dell’agognato rimpatrio con la Gramsci. E inizio un
nuovo percorso con lunghe soste.
La
consistenza di noi partigiani italiani però non è più quella. Con la fine
dell’occupazione una grande quantità di noi, per le precarie quotidiane
condizioni, ha lasciato il proprio battaglione per assumere una nuova attività.
I rimasti furono avviati al Battaglione “Gramsci”, divenuto, per il continuo afflusso, Brigata e
poi Divisione. Mi presento; sorpresa. “Complimenti” mi dicono, “abbiamo appena fatto un
organigramma con quanti hanno avuto un particolare ruolo…” Interrompo: “Non vi
preoccupate, a me interessa andare in Italia”. E ho trovato tutta la Divisione vestita a
nuovo con divise inglesi mentre io con qualche altro indosso gli stracci che
testimoniavano la povertà di noi italiani, stracci che ancora conservo. E da
Durazzo, il 30 maggio 1945,
in 2.500 armati, siamo sbarcati a Taranto e ricevuti con
distacco come prezzolati senza onore.
Noi
in terra straniera mai abbiamo abdicato all’onore e alla bandiera: siamo
rimasti sempre Soldati, e da Soldati ci attendevamo di essere accolti con
fanfara e bandiere. Che delusione! Mortificati e offesi.Nel porto troviamo un
colonnello, da cui ci attendevamo un saluto e una delegazione dell’ U.D.I. che
distribuisce a tutti 3 fichi secchi e un giornale che auspica un “passaggio” di
Trieste a Tito.
Col
ritorno in Patria si era interrotto ogni rapporto con l’ Albania.
Nel 1978 vi sono tornato con l’associazione
Italia-Albania. Grande l’attesa dei 28 partecipanti fra cui tre ex partisan di
quel tempestoso passato. E ho ritrovato immagini, costumi, atteggiamenti
conosciuti che riflettevano il tipico
orgoglio schipetaro, ma oltre la cortesia ben nota, una generale chiusura sul
passato. Avviene che un mio interpellato mi corregge un nome. “Ma allora tu
sai?” gli dico, ma si è chiuso nel silenzio.
Ovunque,
anche sui campanili, la stella rossa. Ogni luogo di culto chiuso o demolito. In
Albania, con maggioranza mussulmana, mai ho avvertito avversione ai cristiani,
sia ortodossi sia cattolici. Nei villaggi l’appartenenza è ad una sola fede,
nelle città le varie confessioni sono separate in quartieri. A Berat, un centro
caratteristico, con significative presenze di un passato bizantino, una lieta sorpresa:
una grande stele con stella rossa dedicata ai “partisan” italiani. Freddezza
nei confronti di Tito e della Russia sovietica, il loro riferimento era la Cina. Nelle strade appaiono
frequenti postazioni per arginare eventuali invasioni dalla Jugoslavia. A
sorpresa, una sera, si presenta un giovane che chiede se nel gruppo c’è Petri.
Non potevo conoscerlo. La presenza di italiani aveva richiamato la memoria di
Petri, dopo 32 anni! Mi ha fatto
domande, di tutto ha preso nota con la prospettiva di qualche incontro che,
prossimi al ritorno, non c’è stato.
Un
altro mio ritorno avviene nel 1984 con un significativo gruppo di ex “partisan”
anche di rilievo come Enzo Neri e Antonio Dore. Anche in quella occasione mi
capitava di esprimermi liberamente sulle condizioni che incontravo. Succede che
una sera, mentre attendo di telefonare a casa, Valerio Restante, della polizia
italiana, mi dice: “Cesena, ti offendi se ti diciamo qualcosa? Vuoi fare
l’anticomunista anche qui? Vuoi metterci tutti nei guai?” Dore, preside a
Sassari, di fronte ad espressioni così dure è intervenuto: “Vaenti ha
motivazioni, riferimenti radicati e fa osservazioni e domande alle quali non
sono preparati e non sanno rispondere”.
Toccato ho detto “Non parlerò più”. All’indomani si riprende il nostro
andare e come sempre si aprono interrogazioni, osservazioni e commenti. Il gruppo è guidato dall’ingegner Albert
Hauxhri che, sorpreso dal mio silenzio mi dice “Perché non parli?” Nel
1988 ritorno con Pier Francesco Delle Sedie, docente in malattie polmonari, già
altra volta in Albania per lezioni all’Università di Tirana e Mario Fantacci
già in Albania per il rimpatrio delle salme di nostri commilitoni. All’arrivo
un inviato del Comitato Nazionale ci accoglie e se ne esce con un riferimento
alla mia persona: “Abbiamo telefonato al nostro Presidente per informarlo
dell’arrivo di Vaenti. Lui ci ha detto: “mandatemi una macchina.”
Al
Taiti abbiamo un primo incontro con Miqerem Fuga (segretario generale dei
Veterani) e con Piro Koci, partecipe, a Cesena, al Convegno Internazionale di
Studio su la
Resistenza Italiana all’Estero nel 1986, membro della Sezione
Esteri del Comitato Nazionale. Nel pomeriggio da Pogradec ci raggiunge anche
Ulvi Lulo, Presidente della Sezione Esteri del Comitato Nazionale.
All’indomani
il caldo incontro con Kico Kasapi (capo sezione propaganda del Comitato
Nazionale), con Ajet Simixhiu (storico), con Bilal Parruca (vice presidente del
Comitato Nazionale), con Patrì Kosturi (giornalista), ed altri, dovuto anche alla partecipazione al Convegno
di Studio tenuto a Cesena nel 1986, ma forse anche alla scomparsa di Enver
Hoxha. Ho avvertito un nuovo clima, con colloqui più aperti, che la vicenda dei
fratelli Popa, rifugiati politici nella nostra ambasciata, ha favorito. Un
afflato di sentimenti, una circolarità di intuizioni e di idee che non potevano
passare inosservate, e una mattina a Durazzo, ci raggiunge Shefqet Peci,
Presidente dei Veterani, e Vice Presidente della Repubblica, per frenare un
percorso aperto a nuove prospettive. Raccolti in una saletta. Inizia a parlare
facendo dell’ironia e della derisione su suo padre che credeva in Allah, poi
prosegue con un attacco alla Chiesa Cattolica e al Papa. I tre albanesi che ci
seguono osservano costernati e, con un
gesto a tranquillizzarli, rispondo vivacemente e ribadisco la mia radice cristiana.
Ritornato in Italia gli ho scritto.
Dopo
qualche giorno, nella cena di saluto per il nostro rientro, a Ulvi Lulo
viene riportato l’incontro con Peci. E Lulo: ”Ma Vaenti reagisce sempre! ” e riferisce una mia vicenda del lontano marzo
del ’44 che mi vide protagonista. L’intervento di Peci, teso a stroncare
possibili devianze, ha tuttavia
provocato uno scontro all’interno del direttivo e, come segno di apertura alle diversità e con
richiamo a Vaenti, furono liberati dal carcere quattro preti. “L’ Avvenire” ne
ha data notizia il 1° marzo del 1989. Nel 1990 le tensioni esplodono. Un
centinaio e oltre di albanesi, invade la nostra ambasciata. E’ il crollo di un
regime e quanti ne sono più o meno coinvolti sono braccati, cercati per
ritorsioni e vendette. Tanti lasciano l’Albania. Il governo italiano
interviene, per attenuare la tragica emergenza, con una specifica struttura:
“il Pellicano” e io invio ad amici aiuti alimentari.
Nel
2002, per uscire da uno stato di continua emarginazione e frustrazione, fu
programmata una pubblica uscita e sono stato invitato per un ritorno in
Albania. Un invito che non potevo rifiutare e, anche per un sostegno a mie
difficoltà, mi ha accompagnato Leo Matteucci, presidente provinciale dell’ANPI
di Forlì.
In
una grande sala, ornata da bandiere italiane e albanesi, sono atteso da un
generale italiano. Sotto al palco noto Qamil Buxeli (già presidente della
gioventù comunista, caduto in disgrazia) e Taip, Taip Musaj (maggiore
dell’artiglieria) sempre amico, premuroso, ricco di suggerimenti e avvertenze
per le mie uscite, che non vedevo dal 1944
quando, il 12 luglio, lasciai le Roy per raggiungere il Matteotti a Navarizza. Per
tutti sono un amico, il Petri a cui tutto era consentito e che ora, con me, si
sentono rinati. Sono commosso e, con un richiamo al comune passato, rivolgo a
loro il mio saluto e il mio abbraccio.
Poi
viene data lettura della relazione su quel comune vissuto, tradotta nella
notte. Finita la cerimonia tutti si avvicinano, chi per abbracciarmi, chi per una
stretta di mano. Molti gli inviti nelle loro case che non posso rifiutare. E’
un’apoteosi. Il generale, Bako Dervshi,,
testimone dell’eccidio degli ufficiali della divisione Perugia, mi parla di
quella vicenda. Nel novembre del 2003, con la partecipazione delle forze armate
italiane e albanesi e di un ministro del governo italiano, viene scoperto a Saranda
un cippo alla loro memoria da me promosso.
Perché
ora?
Più
volte sono stato sollecitato, e di recente da due amici, a stendere una memoria
su quel mio lontano passato sul quale avevo lasciato solo qualche sprazzo.Senza
determinazione, con mano incerta e tremante, ho steso una traccia del mio
essere “andartes” in Grecia e “partisan” in Albania.
I
sopravvissuti di tempi di fede e di lotta sono sconcertati, smarriti allo
specchio di una società vuota di principi, delirante, egoista.
Come
e perché questa caduta?
Siamo
rimasti sedotti, abbagliati da un clown che ha portato in parlamento una
declamata pornostar, che ha inneggiato alla droga e l’ha lanciata nelle strade
di Roma, che ha promosso referendum contro i sindacati, che irride ai bisogni,
che ha elevato l’egoismo a valore? Nel mio inconscio, sono affascinato da
quanti per loro credenza hanno dato la vita e, se anche miei avversari sul
piano politico o di fede, li abbraccio e li amo. A destra si è costituita una
anomala convergenza di uomini di fedi e di orientamenti più diversi e anche di forte contrasto, solidali
con un Super dai molti volti, associato alla P2 regina di ogni intruglio. Quali
i principi di quell’agglomerato?
Apice
del trasformismo degenere la
Boniver , alfiere di un femminismo amorale, e tutti, in un
supino trangugiare, hanno accettato i “
valori irrinunciabili” del cristiano come foglie di fico per coprire ogni
vergogna.
Il
Giano dai mille volti e sfaccettature emana leggi a sua copertura e altre a
facilitare intrugli: specifica quella che annulla il dolo nel falso di
bilancio!
Non
è una svendita delle coscienze? Qualche magistrato ha sollevato il problema ma
tutto è stato bloccato dall’imperio del male. E nel governo del “cattolico
adulto” a minare la sacralità della famiglia, avvertita in ogni età e cultura
come fondamento della società, un suo ministro per la famiglia accoglie le istigazioni di un clown che vuole
azzerarla, vate di ogni licenza ed egoismi.
Rivoltante!
E
i cristiani di quel governo inconsapevoli?
L’uomo
non può essere senza principi, non sarebbe più persona.
Ho
nostalgia dei tempi burrascosi di Togliatti e di Berlinguer con le sue
inquietudini.
Quali
le pulsioni del NO al Papa per una sua visita alla Sapienza, della petulante
richiesta di un suo silenzio? E la Margherita Hack : “buttate
una bomba sul Vaticano! Una canea da cui solo la Binetti si è apertamente
dissociata! E per quanti, cristiani o di altra fede, con un’etica e una
coscienza, grande è lo sconcerto. E’
disgustoso! I nostri sogni e aspettative? Un fallimento. Che tristezza! Queste
le amarezze di un troglodita tetragono nei confronti delle svendite e
trasformismi, sempre piccolo, ma con una sua identità.
A
Cesena, 8 settembre 2011
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