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lunedì 15 novembre 2021

Roberto Olevano. Gli Italiani nelle armate Napoleoniche

 DIBATTITI



I SOLDATI DEL PRIMO TRICOLORE

Le forze armate rappresentano sempre lo specchio della nazione, le loro vittorie o sconfitte, denotano, più di ogni altro evento, la potenza di uno Stato e si riflettono sul morale del suo popolo e su quel complesso di vincoli e di sentimenti che lo legano ad esso e che vengono chiamati in un’unica espressione, coscienza nazionale. Laddove lo Stato non esiste o è ancora in una forma embrionale le vicende delle forze armate contribuiscono a generare questa coscienza. Non vi è Paese al mondo in cui l’identità nazionale non si sia sviluppata a seguito di vicende militari. La mente va agli ex dominions britannici: solo dopo che andarono a combattere e a morire nella Prima guerra mondiale, negli australiani, nei neozelandesi, nei canadesi, si formò quella coscienza nazionale che li fece uscire dalla loro caratteristica di dominions per diventare uno Stato.

 

Nell’Italia della fine del XVIII, solo una violenta spinta dall’esterno poteva mettere in movimento le acque stagnanti e tale spinta fu data dagli eserciti della Rivoluzione francese. È qui, dunque, proprio negli anni dal 1796 al 1802 ed oltre che si accende il crogiolo ove arderanno e si combatteranno le forze che avrebbero condotto alla formazione dello Stato italiano. Fu nell’Italia del Nord che i più importanti gruppi giacobini si schierarono a fianco della Francia rivoluzionaria. Con questo non si vuole ignorare o trascurare l’enorme rilievo ideale dei giacobini meridionali, ma il gruppo di questi ultimi fu limitato ed elitario. A causa dell’assenza di vaste classi medie moderne, fu solo l’élite intellettuale aristocratica a costituire la forza motrice del giacobinismo meridionale. Nel Nord invece, il giacobinismo ebbe un seguito più cospicuo e l’adesione militare ebbe, in vista della futura nascita del moderno Stato nazionale italiano, un’importanza immensa. Creò l’embrione di un esercito nazionale, svincolato dalla tradizione feudale aristocratico-mercenaria del Settecento; dette a questo esercito un ideale, una speranza nel futuro e sopra ogni altra cosa una bandiera nazionale. Il nome di Repubblica Italiana, poi Regno d’Italia, offrì all’attenzione dell’Europa la prima compagine statale così chiamata. Le imprese militari delle nuove forze armate italiane furono più che degne e spesso gloriose. Si formò in esse un gruppo moderno di ufficiali italiani che avrebbero fornito non pochi quadri alla prima fase del futuro processo nazionale. La costruzione dell’esercito in Italia costituisce un momento centrale nella formazione dell’Italia contemporanea, la formazione di un esercito nazionale è un avvenimento che travalica la storia militare per investire le vicende della società e del costume.

 

L’idea nazionale non poteva concretamente attuarsi e portare alla formazione di uno stato nazionale moderno se non attraverso la lotta armata. È evidente che in Italia il processo di formazione del moderno stato nazionale non è stato un fenomeno indipendente, ma ha finito per inquadrarsi entro le contese che sconvolgevano l’Europa. L’invasione francese dell’Italia avvenne mentre le terribili guerre della Prima e della Seconda Coalizione infuriavano dalle acque dell’Atlantico a quelle del Mediterraneo, dall’Europa Occidentale al Danubio e l’Italia, per la sua importanza strategica, non poteva non essere coinvolta nell’infernale ingranaggio della guerra. Se le forze giacobine furono sollecitate, armate e organizzate dai francesi, gli aiuti militari dei Paesi ostili alla Francia non mancarono di sostenere la lotta armata dell’opposta parte. È altrettanto chiaro che, nonostante Napoleone si vantò sempre di aver risvegliato lo spirito guerriero degli italiani addormentato da secoli, non era sua intenzione avviare un’emancipazione della penisola ed un suo affrancamento dalla tutela francese, ma fu solo il desiderio di incrementare con un numero sempre maggiore di uomini le proprie schiere che lo spinse ad introdurre la leva in Italia. D’altra parte, il Direttorio non l’aveva mandato, né Bonaparte era venuto in Italia per democratizzarla, ma unicamente per appropriarsi delle sue risorse belliche e per imporre la propria pace all’Austria. Inventare, favorire oppure stroncare la democratizzazione italiana fu, dunque, sia per il Direttorio che per Bonaparte, strettamente funzionale agli adattamenti del piano strategico. Diverso il discorso per Gioacchino Murat, il quale, benché all’inizio avesse avversato l’autonomia degli italiani, una volta diventato re di Napoli, riuscì a svincolarsi dalla soffocante potestà del cognato, avviando un processo di vera indipendenza che coincide con l’avvio del processo risorgimentale e che ci fa considerare quella di Tolentino, l’ultima battaglia napoleonica e la prima del Risorgimento.

 

Come i bolscevichi nell’ex Unione Sovietica, anche i Repubblicani francesi erano attivi nell’esportare la rivoluzione. Momento essenziale nel processo rivoluzionario fu l’introduzione di quei governi provvisori che con la loro attività predeterminarono le condizioni per la democratizzazione degli antichi Stati e la formazione delle nuove costituzioni. Le municipalità provvisorie concordarono sulla necessità di creare una Guardia Nazionale a tutela delle libertà repubblicane. Questa esigenza fu assecondata da Bonaparte, per il quale era indispensabile garantire l’ordine pubblico e la sicurezza delle retrovie alle sue truppe impegnate contro le armate austriache.

Il 19 agosto venne istituita la Guardia Nazionale e la Legione Lombarda che dovevano assicurare l’ordine interno e la difesa esterna dei territori della Repubblica Transpadana, entità non ufficialmente riconosciuta, ma costituita dai territori assoggettati al provvisorio governo Repubblicano dopo la prima campagna d’Italia e riuniva la Lombardia austriaca con Bergamo e Brescia. Il 24 settembre Bonaparte ordinò di costituire a Milano, Ferrara e Bologna 3 battaglioni di 600 guastatori e zappatori da impiegare nei lavori d’assedio a Mantova e di riattamento delle piazzeforti lombarde. Lo scopo era modesto: disporre di manodopera militarizzata, e dunque mobile, per supplire alla mancanza o insufficienza della manodopera locale.

 

Il 4 ottobre un reparto della civica reggiana di guardia al castello di Montechiarugolo catturò un reparto di 150 austriaci in ricognizione da Mantova. L’episodio, enfatizzato come “primo fatto d’armi della libertà italiana”, dette modo a Giuseppe Lahoz, divenuto in seguito aiutante di campo di Bonaparte, di promuovere una petizione, sottoscritta da numerosi patrioti, per formare una legione lombarda. Il 6 ottobre l’Amministrazione trasmise la petizione a Bonaparte, il quale si mostrò a teatro assieme agli “eroi” di Montechiarugolo.

 

L’8 ottobre Bonaparte autorizzò la creazione della legione lombarda e il 9 ordinò di convocare a Modena i rappresentanti delle 4 città Cispadane per costituire una “Legione Italiana” che prevedeva un organico di 3.471 uomini inclusi 159 ufficiali. La forza era suddivisa in 7 coorti – sei provinciali (3 milanesi, 1 cremonese, 1 lodigiana/pavese, 1 comasca) e una di patrioti italiani – su 5 compagnie (1 granatieri, 3 fucilieri e 1 cacciatori) di 100 uomini; 1 Divisione di artiglieria di 62 uomini con 4 pezzi e 1 corpo di cacciatori a cavallo di 120 uomini. Il 6 novembre, a Milano in Piazza Duomo, con cerimonia solenne, Bonaparte consegnò la bandiera di guerra alla 1a Coorte milanese, l’unica con quadri completi. Era il primo tricolore che sventolava in testa ad un reparto militare italiano che il 7 marciò al fronte di Verona. Il riconoscimento di una legione, istituita e pagata dall’Amministrazione generale, implicava dunque anche il riconoscimento di fatto della sovranità lombarda e il suo impiego al di fuori del territorio lombardo, addirittura sul fronte franco-austriaco, configurava di fatto uno stato di cobelligeranza. I giacobini lombardi cercarono di trarre il massimo profitto politico dal questo ambiguo statuto giuridico e il 14 novembre proclamarono l’indipendenza e la sovranità del popolo lombardo. L’iniziativa fu subito stroncata ma il giorno successivo, durante la battaglia d’Arcole (15 e 16 novembre), “vari e coraggiosi della legione lombarda furono al fuoco, benché non avessero avuto ordine di marciare, e riportarono gloriose ferite”, fu con queste parole che il generale Berthier lodò nel bollettino il comportamento della legione Lombarda e il valore mostrato sul campo di battaglia conduceva faticosamente al progredire dell’agognata indipendenza e autodeterminazione altrimenti preclusa ed avversata sul piano diplomatico.

 

L’impatto della coscrizione e della leva, esperienze del tutto nuove nel nostro Paese, fu traumatico, perché i ceti popolari si opposero in tutti i modi possibili allo sradicamento dei giovani coscritti dalle loro case. Le manifestazioni più significative di questa opposizione furono la renitenza e la diserzione, fenomeni che assunsero un carattere di massa, alimentando un brigantaggio fattosi presto endemico. Tuttavia, nonostante queste difficoltà, le armate italiane divennero una realtà. Nei loro ranghi tra il 1797 e il 1815 passarono più di 250.000 uomini, la metà dei quali caddero in battaglia o morirono per cause connesse alla guerra. Dunque, nella guerra, fu forgiato l’embrione della futura nazione italiana. Per valutare l’importanza del ruolo che la tradizione militare italiana del periodo napoleonico ebbe nel movimento risorgimentale, basterebbe ricordare la famosa offerta delle aquile della disciolta Guardia Reale Italiana che, durante la guerra d’indipendenza del 1848, fu fatta al re Carlo Alberto (in gioventù sottotenente dei dragoni nell’esercito napoleonico) dall’anziano generale Teodoro Lechi, che quelle aquile custodiva dal 1814, salvandole dalla consegna al nemico. Gli anni vissuti nell’esercito, prima cisalpino e poi italiano, ebbero nel processo di realizzazione della coscienza nazionale e del sentimento patriottico risorgimentale, un’importanza e un valore enormi. Le vicende trascorse nelle armate napoleoniche operarono una trasformazione profonda in quelle decine di migliaia di combattenti sotto la bandiera tricolore. Per uomini sbalzati in terre lontane e straniere quel vessillo diventò un punto di raccordo ed essi iniziarono ad abbattere le barriere linguistiche, a superare i limiti posti dal municipalismo e a riconoscersi in una superiore unità nazionale.

Ma c’è ancora un episodio in cui si rileva l’importanza delle vicende militare nella nascita della nostra nazione ed è proprio nell’atto conclusivo della fantastica avventura degli italiani nelle armate napoleoniche. All’indomani della sconfitta a Tolentino, Murat abbondonò il regno e salpò per la Francia. Il 22 maggio le truppe borboniche rientravano a Napoli e Ferdinando IV tornò a sedere sul trono, mentre le città del Meridione aprivano le porte agli austriaci e ai borbonici. Non così Gaeta: il suo comandante, maresciallo Alessandro Begani si rifiutò di arrendersi se non dietro espresso ordine di re Gioacchino e con soli 1.300 uomini si preparò all’assedio di inglesi, austriaci, toscani, pontifici, insorti borbonici e regolari del re Ferdinando, resistendo fino al 5 agosto. Napoleone era stato battuto a Waterloo due mesi prima e ormai era diretto all’esilio di Sant’Elena, Luigi XVIII era tornato a Parigi, ovunque le bandiere napoleoniche erano state ammainate, solo quella murattiana di Gaeta sventolava ancora per merito di pochi valorosi italiani. Si potrebbe obiettare che erano italiani anche molti degli assedianti, ma questi stavano restaurando un mondo ormai finito. Quelli che a Gaeta resistevano senza speranza, invece, camminavano con la Storia. 

 

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